UNA CERTA FORMA DI FELICITÀ

hammerPEE GEE DANIEL

“Carcinoma pancreatico”.

Queste due paroline erano ciò che era riuscito a tirar fuori l’oncologo dopo un prolisso e laborioso giro di parole.

Flit aveva trovato poco professionale che per decidersi a esplicitare quella stringata dicitura gli avesse fatto perdere venti minuti buoni.

Ci volle un cauto preambolo di almeno altri dieci minuti per giungere a una diagnosi ancora più specifica: “Adenocarcinoma duttale”.

Ma quello che l’oncologo aveva esalato con la gravità di una condanna a morte, Flit aveva recepito come un’ultima chance. Un sospiro di sollievo (che il professore di fronte a lui, dall’altra parte della scrivania in radica, equivocò con un gemito di disperazione) accolse il verdetto.

Tutto era cominciato poche settimane prima. Prurito, sete, dolore al petto. Sintomi che si erano manifestati tutti assieme, quasi da un giorno all’altro.

Sulle prime Flit li aveva presi come tendeva a prendere tutto: sotto gamba. Poi però il prurito si era trasformato in un fastidio tanto penoso che rischiava di spellarsi in varie aree del corpo pur di toglierselo.

La sete si era fatta devastante, tanto da obbligarlo a ingollarsi a garganella una bottiglia da due litri in pochi secondi in certe ore della giornata. Alla gran sete si era presto associata un’imbarazzante poliuria, per metterla giù in maniera tecnica. Beveva e pisciava, beveva e pisciava, beveva e pisciava. La sua vescica sembrava essere diventata niente più di un passaggio rapido. Gli scappava continuamente, ovunque fosse, costringendolo a pisciare in ogni angolo, come un cane, anche alla luce del giorno, finché aveva iniziato a diradare le sue uscite, rintanandosi in casa per la vergogna, più specificamente dentro la stanza da bagno, per la maggior parte del tempo.

L’oppressione addominale poi certe volte gli aveva fatto credere a un infarto in atto.

A tutto questo si aggiunse una diarrea traditrice che lo coglieva nei momenti più impensati, nei quali si precipitava nel primo posto utile ad abbassarsi le braghe in tutta fretta e spruzzare una melma dall’odore nauseante.

Per cui si decise a fare un salto in farmacia. Dopo aver ascoltato i problemi che avevano cominciato ad affliggerlo, la farmacista lo aveva rimbalzato al medico curante. Questo, a sua volta, lo aveva rimbalzato a una visita specialistica da effettuare il prima possibile, si era raccomandato con uno sguardo torvo che non gli aveva mai visto prima, neppure ai tempi della mononucleosi.

Il primario di oncologia del locale ospedale civile, durante la visita privata, già alla semplice descrizione della sintomatologia si era mostrato molto pensoso. Senza proferire verbo si era seduto alla scrivania a vergare un lungo elenco di esami a cui il paziente si sarebbe dovuto sottoporre a breve giro.

La sola lettura del foglio avrebbe messo ansia a chiunque: TAC, ETC, EUS, RM,CPRE, PET. C’erano così tanti acronimi lì sopra che pareva un linguaggio in codice tra due robot.

Flit sembrava averla presa bene. Ogni volta che che si sdraiava sotto uno di quei macchinari illuminati a intermittenza come tanti alberi di natale e, alla fine, fissava l’espressione contrariata dello specialista di reparto mentre osservava i risultati e si apprestava a scrivere due righe da far leggere all’oncologo, uno strano sorrisetto sembrava allargarsi sempre più sul suo viso tondo. Come una parentesi inscritta in un cerchio.

L’apoteosi fu appunto il ritorno dal primario, con una cartelletta gonfia di referti medici parziali che, uniti tra loro, andavano a comporre l’esito ferale.

Per l’oncologo era una specie di routine. Aveva vissuto migliaia di momenti del genere. Cambiava solo il tipo di tumore. Eppure ogni volta, almeno per rispetto verso chi sborsava un paio di centinaia di euro senza fattura, teneva a mostrare la propria contrizione, che appariva tutto sommato sincera quando gli toccava rivelare al paziente di turno di che morte sarebbe dovuto morire.

Le reazioni erano variegate ma non troppo. Qualcuno si disperava, qualcuno rimaneva scioccato, qualcuno si scioglieva in un pianto greco, qualcun altro esibiva un ottimismo che si intuiva friabilissimo.

Flit fu il primissimo caso, in una trentina d’anni di onorata carriera, in cui i tratti del malato, al momento del responso, si accesero di una gioia inattesa. Non una gioia infame o meschina, una di quelle false allegrie che celano – e neanche troppo bene – rictus di dolore. Quella di Flit appariva in tutto e per tutto come un’esplosione di euforia per quanto, per giunta, Flit tentasse di non farla trasparire troppo. L’oncologo era perplesso. Ma la cosa non finì qui.

Quella riserva di buonumore sembrava ulteriormente alimentata dalle notizie che seguirono: il professore gli disse che aveva trascurato per troppo tempo gli allarmi che il corpo gli aveva mandato, aveva un lieve tono di rimprovero nella voce. Subito dopo tenne comunque a mitigare un po’ il suo giudizio: comunque si fosse comportato il tumore al pancreas rimane “una brutta bestia”, così si era espresso. Era un male insidioso, che di solito si faceva notare solo nelle fasi finali e che comunque era difficilmente contrastabile. Quello di Flit poi, a detta sua, era particolarmente aggressivo. Qui si fece ancor più meditabondo, mentre Flit da par suo, pur cercando di nasconderlo, scalpitava per arrivare alle conclusioni.

Il noto oncologo si raccolse in sé per qualche attimo. Si alzò dalla sedia ergonomica, barcollò ponderatamente verso la grande finestra. Finse di ammirare il profilo degli alberi agitati da una lieve brezza.

“Difficile da curare” attaccò, “Quasi impossibile. Mi sembra giusto essere franco fin da subito con lei. Su decine di migliaia di casi quelli che si salvano si contano sulle dita di una mano, una mano e mezza al massimo”. Tacque qualche istante, poi: “Lei magari può rientrare tra le dita di quella mano, mano e mezza, signor Flit. Chi può mai dirlo? Lei crede ai miracoli?”.

Quel goffo modo di indorargli la pillola era quasi riuscito a guastargli lo stato di paradossale gratitudine che le informazioni precedenti erano riuscite a instaurare. “In effetti no” replicò senza ombra di entusiasmo. “Ma… per arrivare al dunque, secondo un calcolo realistico, quanto tempo mi rimane, dottore?”

La maggior parte dei pazienti cercava di procrastinare quell’amara rivelazione il più possibile, alcuni neanche volevano sapere, quel buffo omino striminzito che era da mezzora che faticava a contenere un inspiegabile giubilo invece era lui a domandarlo, d’emblée, senza manco simulare il benché minimo interesse per i risvolti terapeutici.

“Oggi si può fare molto per prolungare la vita di un paziente oncologico con inalterata dignità…” provava a tenere la parte il primario, ma Flit tagliò corto: “Senza cure, ipotizziamo?”.

“Non più di quattro mesi” sussurrò l’interlocutore, sempre più incredulo.

La notizia non sembrò abbattere il destinatario. Si fece pensoso però. Scrutava il professore dritto negli occhi, massaggiandosi lentamente il mento. Durò un minuto buono, alla fine del quale saltò su: “Mmm… quattro mesi… sono abbastanza!”. Appariva trionfante.

L’oncologo era sconcertato. Non proseguì oltre. Scrisse su un foglietto volante una certa cifra in fondo a una lista di voci, lo porse all’uomo e sentenziò, senza più alcun tipo di partecipazione: “Da saldare alla mia segretaria”.

Flit sbirciò l’importo da sborsare. Un conto parecchio salato, e d’altronde che avrebbe dovuto tirare i piedi di lì a breve avrebbe potuto sentirselo dire anche da un neolaureato senza troppe pretese. Prese bene anche quella. Del resto, com’è che si dice? Quando muori, i soldi non te li puoi portare dietro. Perciò…

Era un’ideuzza che gli era nata insieme ai sempre più fondati sospetti di avere qualche brutto male.

All’inizio il pensiero di essere portato via dal cancro lo aveva atterrito, come capita a tutti, ma questa sensazione non era durata molto. Fu lui il primo a stupirsi di come una fantasia inizialmente oziosa stesse soppiantando la fifa blu che lo aveva preso come primissima reazione.

Quel progettino che, parallelamente, prendeva corpo incominciò via via a ingigantirsi, in modo inversamente proporzionale alla speranza che non fosse alcunché di serio, che invece, mano a mano che i sintomi si andavano aggravando, cominciò rapidamente ad affievolirsi.

Una nuova determinazione aveva finito per sovrastare ogni altra preoccupazione.

“Un’ultima domanda…” rifiatò nuovamente, arrestando il passo un secondo prima di stenderlo oltre la porta già socchiusa.

“Dica” si limitò a rispondere il professore senza più alzare lo sguardo dai suoi incartamenti. Ora appariva assai meno accomodante.

“Per quanto tempo ancora manterrò a sufficienza le forze?… Sì, prima di trascinarmi come un verme o finire allettato in una corsia d’ospedale, dico”.

“Tre mesi tutti, se risparmia le forze” spiegò l’altro con un tono oracolare un tantino ridicolo.

“Mmm… Facciamo due allora…”.

Uscito dallo studio medico, fece perdere le sue tracce. Non cercò alcuna spalla su cui piangere o orecchio cui confessare il suo destino.

Passarono un paio di giorni. Tre forse.

Erano passate già da un po’ le dieci del mattino. Alla concessionaria di Bozo, meccanici e addetti alle vendite già agognavano la prossima pausa pranzo.

Bozo lo vide arrivare attraverso le vetrine. Senza alzarsi dalla sua poltroncina da giocatore di Play Station, senza neanche levare i Pampero dalla scrivania Ikea, incominciò a indicare spazientito il grosso quadrante dell’orologio placcato oro, tuonando, nella speranza che il suo vocione riuscisse ad attraversare i vetri: “Ti davamo per disperso, Flit! Maledetto! Ti sei accorto di che ora è? Sono due giorni che non ti fai vedere. Frega altamente del certificato che mi hai faxato, tanto so che è un’altra delle tue scuse per grattarti il culo a spese mie…”.

Solo quando Flit era abbastanza vicino, emergendo dal fascio di luce che lo aveva avvolto sinché stava nel parcheggio, prima di entrare nell’ombra della tettoia, Bozo si accorse che reggeva con entrambe le mani un piede di porco.

Quando si trovò a un metro di distanza della vetrata, sollevò il piede di porco fino a portarlo dietro la testa con un movimento a parabola. Stringeva i denti quando abbatté il ferro ricurvo contro il vetro davanti a lui, con tutta l’energia che aveva in corpo.

Ci fu uno schiocco e subito a seguire il canto argentino di un’infinità di minuscoli frammenti di silicio che crollava in terra in un milione di luccichii. Flit attraversò quella cascata di schegge sfavillanti prima che finisse di depositarsi sul linoleum.

Riportò il piede di porco sopra la testa, avanzando senza tentennamenti verso una Buick Riviera Gran Sport del ’95 parcheggiata dietro un cartello “Offertissima!” scritto a mano, di un rosso metallizzato che scintillava come fiamma viva sotto i faretti del salone.

La punta del piede di porco ripiegò il cofano esattamente al centro, con un rumore di lamiera che sembrava il lamento straziante di un qualche animale. Il potente urto aveva spezzato il radiatore come si trattasse di una millefoglie. Da lì passò ai cristalli: i fanalini, il parabrezza, il lunotto posteriore, i finestrini, che si infrangevano sotto quei colpi bene assestati con dei festosi boati.

Gli occhi giallognoli di Bozo non potevano credere a ciò a cui assistevano. Scomodò i tacchi del Pampero dalla posizione rialzata, che permetteva di far defluire il sangue dai piedi gottosi giù per le gambe corte e grassocce, per appoggiarli sul pavimento e mettersi in moto con quanta velocità gli consentisse un corpo poco allenato agli scatti atletici.

Lo raggiunse mentre Flit finiva di staccare a calci lo specchietto retrovisore di destra: “Fermati, maledetto!” gli intimava, “Che ti è saltato in mente, stupido buono a nulla?”.

Flit in quel momento si disinteressò di colpo alla Buick. Diresse il proprio sguardo verso il suo datore di lavoro. Bozo non lo aveva mai visto così. Che fine aveva fatto quel tizio anonimo e remissivo che aveva sfacchinato ai suoi ordini per una dozzina d’anni mattina e pomeriggio, senza contare gli straordinari non pagati?

Flit impugnò il piede di porco come fosse una mazza da baseball, gli fece prendere una corta rincorsa e glielo scaraventò in faccia con tutta la forza che i suoi muscoli riuscivano a pompare.

Terminato il compito che si era prefissato, prese la porta, attraverso due ali di colleghi che lo fissavano attoniti senza avere avuto il coraggio di intervenire.

Tornò a casa. Si sdraiò sul letto. Incominciava già ad accusare la perdita delle forze dopo così poca fatica? Non fece in tempo a rispondersi che già era scivolato in un sonno buio e fragrante.

Si alzò presto l’indomani.

Era nel cucinino a intingere un biscotto integrale dentro la tazza di latte, quando sentì suonare. Nello schermo del videocitofono due alti cappelli con la fiamma disegnata in mezzo. “Scendo” comunicò nel microfono. Già sapeva.

Si infilò nei primi jeans e nella prima maglietta che trovò (evitando quelli chiazzati di sangue il giorno prima) e li seguì fino alla vicina caserma. Fu interrogato brevemente. Era lui che aveva sfigurato il signor Bozoni William? Era lui. Motivi? Imprecisati. Il pomeriggio trascorso nella cella del seminterrato, la scarcerazione prima di sera, in attesa di processo, con la consegna di un foglio firmato dal giudice.

Alle 11 spaccate, quattro ore dopo, era davanti al lussuoso ingresso del Roma. Non dovette aspettare molto per vedere l’assessore prendere l’uscita, gonfio come un porcello, a braccetto con una stangona bionda naturale in tailleur di una trentina d’anni in meno. Conosceva i suoi orari. Il Roma era il suo quartiere generale. Fuori dal municipio lo trovavi sempre lì. Era lì dentro che dovevi andare per allungargli una bustarella sotto il tavolo o andargli a pietire qualsiasi genere di favore.

Non stette neanche a spiegargli a cosa fosse dovuto quel pugno in faccia, quando attraversò la strada indossando il tirapugni. Lo lasciò semplicemente a terra, con la faccia aperta – la “fidanzata” che, al posto di soccorrerlo, fermava un taxi e ci montava sopra in gran fretta – e tornò da dove era venuto.

Confrontò mentalmente l’aspetto che aveva il padre, mentre si consumava nel corridoio del pronto soccorso in attesa di un ricovero che non sarebbe arrivato per tempo, con quello dell’assessore alla Sanità, dopo che lo aveva atterrato, e pensò che a quest’ultimo fosse andata fin troppo bene.

Avrebbe anche potuto infierire ulteriormente, ma aveva preferito risparmiare le energie.

Andò a coricarsi, ma stavolta caricò la sveglia su un orario abbastanza mattiniero da essere pronto prima che qualcuno andasse di nuovo a cercarlo. Quando fu fuori dal palazzo la luce stentava ancora a illuminare la strada. Prima di andarsene suonò tutti i campanelli, facendo andare l’indice su e giù per la pulsantiera.

Vista l’ora, ci volle un po’ perché qualcuno rispondesse. Insistette finché non li ebbe tirati tutti giù dal letto. “Correte giù! C’è un’emergenza!” gridò dentro il videocitofono in risposta al coro di assonnate richieste di spiegazioni.

Tempo due minuti e aveva tutti i condomini davanti, quasi tutti in pigiama, con un pulloverino storto messo sopra giusto per un minimo di decenza.

I cinque si guardarono un po’ intorno, poi tra loro, poi con aria smarrita puntarono Flit: “E allora? Che succede?”.

“Se questa è un’altra delle sue inutili scemenze, stavolta le giuro che…” lo stava già investendo il colonnello in pensione del terzo piano, il cui consueto militaresco malumore si capiva dovesse essere stato ulteriormente guastato dalla levataccia.

Flit portava sulle spalle una specie di zaino, con una pompa attaccata sul fondo. Aveva un aspetto davvero ridicolo che non faceva che innervosire ancor più i condomini. Pensavano a uno scherzo.

Flit non spiaccicò parola. Si riservò unicamente di versare addosso al gruppo un liquido dall’odore inconfondibile. Glielo nebulizzò innanzitutto negli occhi, in modo che quelli, impegnati a sfregarseli per il grande bruciore, non pensassero a scappare, poi passò a imbeverne pigiami e vestaglie. Alla fine aprì il contenitore fatto a zaino e ne versò il contenuto proprio in mezzo alla punta delle loro babbucce disposte a cerchio. Fece due passi indietro, tirò fuori dalla tasca uno Zippo, lo accese e lo tirò in mezzo alla pozzanghera iridescente, che prese fuoco all’istante. Le fiamme si diramarono agli inquilini del palazzo, avvolgendoli come tante banane flambé, mentre si contorcevano per la paura, anticipando gli impulsi del dolore che sarebbero seguiti a breve giro.

Flit se li lasciò alle spalle che si rotolavano in terra urlanti e proseguì verso la periferia ovest della città.

Al termine del giro di autobus, mise piede in una zona molto diversa da quella dove abitava lui. Viali alberati, begli edifici bassi e freschi di pittura, vie larghe, pulite e poco trafficate.

Voltò l’angolo. Conosceva orari e spostamenti.

Per quella spedizione aveva deciso di agire all’impronta, secondo un’ispirazione estemporanea. Così, come una sorta di gentile omaggio.

Lei arrivò, preceduta dai due maltesi, candidi come nuvole di panna, collegati alle sue unghie smaltate da lunghi guinzagli fucsia.

S’era tutta tiflonata da quando bazzicava il contabile. A quel pensiero gli venne in mente che alla fin fine erano colleghi lui e il nuovo compagno di Elettra. Anche lui in quegli ultimi giorni non faceva altro che pareggiare i conti.

Si nascose dietro un’aiuola alta e squadrata. Mentre lei gli stava sfilando davanti, con la coda dell’occhio captò una bella sedia tornita lasciata vicino ai cassonetti dell’immondizia in attesa di essere ritirata dai dipendenti della municipalizzata.

Fu questione di un attimo. Elettra curvò seguendo l’andamento del marciapiede. Appena fu un po’ più avanti, Flit sbucò dall’aiuola, corse ad afferrare la sedia e gliela spezzò sulla schiena senza che lei neanche si fosse accorta del movimento.

Avrebbe voluto finire l’opera percuotendola con il pezzo di sedia che gli era rimasto in mano, ma quando la vide laggiù in terra, anche se impegnata a frignare, tornò ad apparire così bella ai suoi occhi che non ebbe il coraggio.

Preferì fare il giro del suo corpo, sollevarla in braccio come un neo-sposino che oltrepassi la porta di casa per la prima volta. C’erano i due cagnolini a sottolineare ogni sua mossa con i loro fiochi abbai.

Flit stese un piede in avanti sino ad appoggiarlo sul pedale del cassone dell’umido. Fece aprire il coperchio e con un ultimo sforzo ce la gettò dentro.

Incurante degli insulti, ovattati dalle pareti in resina artificiale del contenitore, andò dietro al cassonetto e allungò entrambe le braccia con tutta la forza che aveva, spingendolo in mezzo alla strada.

Mentre il cassonetto scivolava giù per la collinetta, correndo verso un incrocio in fondo alla strada, dove c’era il traffico dell’ora di punta ad attenderlo, Flit si voltò in direzione opposta, procedendo sicuro, un piede davanti all’altro.

“Non c’è da perdere tempo. La lista è ancora lunga” si esortava a mezza bocca, ripetendoselo ossessivamente.

Furono giorni di febbrile attività.

 

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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