AVATAR E OLOGRAMMI: LA TENTAZIONE DI ESSERE SÉ STESSI NELLE IDENTITÀ MULTIPLE
DAVIDE SISTO
Nel giorno del suo compleanno Danny riceve la visita di Karl, un suo vecchio amico d’infanzia. Danny e Karl sono due uomini quasi quarantenni ed eterosessuali, entrambi sposati e convinti di aderire perfettamente ai canoni del maschio alfa. Per l’occasione del compleanno, Karl regala a Danny il videogame Striking Vipers, il quale include un set di dispositivi che permette di immergersi nella realtà virtuale e di provare addirittura sensazioni fisiche. Striking Vipers fa parte dei cosiddetti fighting game, giochi di combattimento tra due sfidanti, i quali hanno luogo sia a mani nude sia con armi. Karl e Danny cominciano a sfidarsi, l’uno interpretando un personaggio di sesso maschile e l’altro invece un personaggio di sesso femminile. Va notato che i loro avatar, piuttosto sessualizzati, sono predefiniti: possiedono, cioè, caratteristiche pre-impostate dai programmatori e dunque non modificabili dai giocatori. Ciò non limita la possibilità da parte degli sfidanti di immedesimarvisi. Durante uno dei combattimenti, l’avatar femminile – all’improvviso – bacia sulla bocca l’altro. I due amici, imbarazzati, interrompono il gioco. Quando lo riprendono, il giorno successivo, sono spettatori di un rapporto sessuale completo tra i loro due avatar. Questo evento crea una profonda confusione emotiva e psicologica a causa della contrapposizione tra due differenti dimensioni: quella della realtà biologica, in cui i due amici non provano in nessun modo attrazione sessuale reciproca e sono impegnati in relazioni matrimoniali, e quella della realtà virtuale, in cui gli avatar che li impersonano provano intenso piacere ad avere rapporti sessuali. C’è da dire che uno dei due giocatori, Karl, ammette di provare una sensazione di piacere che non riesce a razionalizzare e a eliminare. Alla confusione si accompagna inevitabilmente la perdita di equilibrio da parte di entrambi nella gestione contemporanea della relazione eterosessuale con le rispettive mogli e la relazione altrettanto eterosessuale tra i loro avatar, percepita però anche come omosessuale. Gli avatar, essendo l’uno maschile e l’altro femminile, hanno di fatto una relazione eterosessuale, ma i giocatori che li utilizzano sono entrambi di sesso maschile e, come detto all’inizio, attribuiscono a sé stessi le caratteristiche tipiche del maschio alfa.
Come va a finire questa – apparentemente – assurda vicenda? Non spoilero, dal momento che quella appena descritta è soltanto la trama dell’episodio intitolato – appunto – Striking Vipers, il quale fa parte della quinta stagione di Black Mirror. Pur non essendo all’altezza da un punto di vista narrativo della fama della celeberrima serie tv distopica di Netflix, Striking Vipers ha il merito di portare alle estreme conseguenze una caratteristica che l’umanità ha acquisito nell’epoca contemporanea: il dono dell’ubiquità. Possiamo nello stesso istante, cioè, manifestare o addirittura mettere in atto il carattere multiplo delle nostre singole identità individuali grazie ai loro prolungamenti attraverso gli schermi e mediante profili social, avatar, ologrammi, ogni altra raffigurazione digitale di sé. L’ibridazione tra spazi offline e ambienti online, il costante miglioramento della realtà virtuale immersiva, i progressi sbalorditivi dell’intelligenza artificiale sono strettamente correlati alla quotidiana produzione, condivisione e registrazione in internet di dati personali da parte di ogni utente della Rete. La quantità di questi dati, riguardanti prevalentemente le singole biografie personali, è così esorbitante da consentire una vera e propria duplicazione (e archiviazione) di vite intere o, comunque, di abbondanti porzioni di esse. In tal modo, ciascuno contribuisce a plasmare plurimi modelli di identità che, oltrepassando i bordi dei singoli corpi, prendono ispirazione da ciò che è documentato e archiviato nella dimensione online. L’ubiquità che ne consegue coincide, pertanto, con il venir meno dell’identificazione esclusiva tra la presenza di un individuo e il luogo in cui si trova il suo corpo, nonché con l’assottigliarsi progressivo delle oramai obsolete distinzioni tra reale e virtuale.
Teniamo conto di una situazione del genere. Una mattina esco di casa e mi fermo in Piazza Castello a Torino. Se qualcuno mi chiedesse dove mi trovo, la risposta ovvia e immediata consiste nell’indicare il luogo in cui si trova il mio corpo, appunto Piazza Castello a Torino. Oggi, tuttavia, non sarebbe nemmeno così errato rispondere indicando tutti i vari luoghi in cui sono contemporaneamente attivo grazie allo smartphone nelle mie mani. Mentre sono con il mio corpo in Piazza Castello, sono anche nel posto di lavoro: sto, infatti, mandando un pdf a un collega dalla mia casella di posta elettronica. Sono inoltre in banca: sto controllando l’accreditamento di un compenso nella mia home banking. Sono quindi in posta: sto pagando con l’app di Poste Italiane una bolletta di cui mi ero dimenticato la scadenza. Sono poi in un’arena politica: sto litigando su Facebook con qualche attempato utente sconosciuto sotto l’ennesima notizia riportata da un quotidiano online. Sono, infine, con la mia compagna, su WhatsApp, e con i miei amici, su Messenger o su Telegram. Kenneth Goldsmith descrive ironicamente questa particolare situazione, definendo l’essere umano odierno come un Walking Dead, per metà sveglio e per metà addormentato a seconda del luogo in cui agisce in modo attivo o passivo.
Al di là della battuta ironica, la non coincidenza tra la localizzazione fisica e la presenza rimarca il collegamento endemico tra la singolarità individuale intesa come un tutto e il network di esperienze, credenze, attività, relazioni, ecc. che, nel corso della sua vita, la investe. Da una parte, ognuno di noi riconosce sé stesso come una struttura unitaria dotata di coerenza, a cui è associata una particolare fisionomia e un nome e un cognome altrettanto specifici, la cui unicità è ulteriormente avvalorata dalla data e dal luogo di nascita a cui sono collegati. Il carattere perlopiù stabile, costante e invariabile di queste caratteristiche, nonostante qualsivoglia alterazione ambientale e spaziotemporale a cui sono sottoposte, rende permanente nel tempo e in relazione agli altri individui la percezione e la memoria che ognuno ha di sé. Inoltre, assicura a ogni individuo la partecipazione concreta a una comunità e traduce le sue azioni e i suoi pensieri in una narrazione autobiografica perlopiù coerente, la quale favorisce il suo ricordo dopo la morte. Dall’altra, però, siamo consapevoli, come direbbe l’artista Sandy Stone, di essere contemporaneamente “l’espressione momentanea delle negoziazioni in atto tra orde di sottoidentità”. Riconoscersi come uguali e coincidenti con noi stessi non significa affermare l’immutabilità della nostra struttura esistenziale. Dal momento della nascita all’istante della morte intervengono avvenimenti, più o meno calcolati, che ci sottopongono a continue metamorfosi psicofisiche nel corso della vita. Facciamo morire di continuo parti di noi e, nello stesso istante, ne facciamo nascere di nuove. Inoltre, come osserva – per esempio – Francesco Remotti lettore di David Hume, il concetto di identità va sempre inteso come un fascio di rapporti di somiglianza e differenza, con gli altri e con sé stessi. Questo fascio si modifica continuamente e ci ricorda la precarietà del nostro modo di riconoscerci. Non solo non possiamo mai avere uno sguardo onnicomprensivo su tutto ciò che siamo e facciamo, ma non siamo nemmeno in grado di manifestare nel qui e ora una coerenza aderente a una soggettività monolitica e incontaminabile. Modifichiamo, infatti, i nostri comportamenti e linguaggi in continuazione, a seconda della differente persona che abbiamo di fronte (un genitore, un amante, un suocero, un datore di lavoro, ecc.).
Ora, la possibilità di prolungarci nella dimensione online tramite profili, avatar e ologrammi ci permette – finalmente – di dare una consistenza materiale più che mai sostanziosa alla dialettica tra l’unicità della nostra presenza psicofisica e le multiple identità che tendiamo a interpretare. Ciò avviene all’interno delle diverse piattaforme online, in cui ogni credenziale d’accesso può nascondere velleità identitarie non necessariamente corrispondenti all’immagine che ognuno vede di sé riflessa nello specchio. Specialmente, là dove può inventare nickname e adattare alla sua fisicità digitale un avatar con caratteristiche arbitrariamente determinate. Ancor di più avviene nel campo dei videogame, in cui ogni giocatore estende la sua personalità, dando letteralmente corpo, a seconda dei casi e degli usi, a ciò che è o a ciò che vorrebbe essere o, ancora, a ciò che non vorrebbe mai essere ma quanto sarebbe eccitante – egli dice tra sé e sé – esserlo almeno una volta nella vita? Personaggi delle fiabe, poliziotti, delinquenti, pornostar, Vecna di Stranger Things, ecc. Mi viene in mente, a proposito, la scena del film distopico Strange Days (1995) di Kathryn Bigelow in cui il protagonista Lenny Nero (Ralph Fiennes) cerca di vendere a un cliente un dispositivo che, poggiato sulla testa, gli permetterebbe di ritrovarsi di colpo nel corpo di una ragazza diciottenne mentre si fa la doccia. O, in alternativa, la scena in cui regala a un suo caro amico, che ha perso l’uso delle gambe a causa di un incidente, un altro dispositivo che gli permette di incarnarsi nel corpo di una persona che sta correndo sulla spiaggia.
Michel Serres ritiene sia inscindibile il legame tra l’identità e il virtuale, inteso come l’essenza vera e propria dell’umano: “L’uomo non è, l’uomo può. Dimenticate il verbo ‘essere’, ausiliare vago e nullo. Letteralmente, il virtuale esprime la virtù, il principio, l’essenza dell’uomo”. Il virtuale è, cioè, da un punto di vista concettuale l’essenza di tutto ciò che siamo e che vorremmo essere; pertanto, i mondi virtuali in cui ci immergiamo oggi – in internet, in VR o tramite i videogiochi – danno letteralmente corpo alle nostre ambizioni multi-identitarie, permettendoci di ampliare le relazioni interpersonali, il rapporto privato con la propria fisicità, addirittura le conoscenze e le credenze. Alla luce di ciò, si comprende che gli avatar, protagonisti di Striking Vipers, non fanno altro che nutrire questa virtualità essenziale per l’umanità, mescolando insieme le caratteristiche fisiognomiche dei singoli giocatori, l’entità digitale che di per sé raffigurano e la proiezione di intenti e di aspirazioni derivante dall’unione tra i giocatori e gli avatar come entità digitali. L’obiettivo narrativo di Black Mirror consiste nel prendere in giro le velleità machiste di due uomini quasi quarantenni e sottolineare, al tempo stesso, il senso di autenticità prodotto dall’immersione in un videogioco. Tuttavia, è innegabile che gli avatar e le identità multiple espresse nei mondi virtuali possono diventare strumenti preziosi per ampliare il significato e la percezione di autenticità che attribuiamo alle nostre vite, permettendoci di evadere da una struttura psicofisica non scelta alla nascita. Il pericolo dell’alienazione e dell’incapacità di gestire razionalmente le multi-identità espresse tramite gli schermi è, certamente, elevato e da non sottovalutare. Ma è, al tempo stesso, fondamentale approcciarsi agli avatar, agli ologrammi e a ogni altra rappresentazione virtuale del singolo individuo come strumenti educativi per scendere a patti con la propria identità e la propria personalità. Come strumenti che, in definitiva, non fanno altro che esprimere l’essenza propria dell’umano.
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA Davide Sisto Endoxa luglio 2023 Tentazioni
