QUANDO LA TENTAZIONE CORRE LUNGO IL CINEMA
EUSEBIO CICCOTTI
- Premessa. Se si parla di tentazione nella storia del cinema la nostra cineteca mentale attiva subito il filone del cinema “cristologico” con almeno tre film: Gesù di Nazareth (1975) di Franco Zeffirelli, L’ultima tentazione di Cristo (1988) di Martin Scorsese e The Passion (2004) di Mel Gibson. Nel film più “ortodosso”, ossia fedele ai Sinottici (Matteo, 3, 1-11; Marco1, 12-13; Luca 4,1-13), quello di Zeffirelli, le tentazioni sono risolte con un taglio realistico, come del resto tutto il film. Gibson, tramite una rilettura più “libera” ma rispettosa della verità evangelica, mostra il diavolo con le sembianze di un androgino (è Asia Argento) nell’orto degli ulivi (e poi durante la Passione), che provoca Gesù con una sfida-tentazione: “Come può qualcuno sopportare i peccati del mondo intero?”. I primi piani e i dettagli del volto del diavolo (da una narice esce un verme, si trasforma in una serpe, striscia accanto ai piedi di Gesù, il quale con un colpo del piede la schiaccia) sono immersi in una dominante blu, simbolo del buio demoniaco, della notte della fede, della malvagità. Diverso il film di Scorsese tratto dal romanzo di Nikos Kazantzakis. Qui la libertà creativa del film, purtroppo per il biblista e il credente risulta a dir poco esagerata, ci porta addirittura a vedere Gesù tentato fisicamente dalla sua amica d’infanzia Maddalena, mentre esercita la professione di meretrice (Gesù, per parlarle, addirittura si mette in fila, seduto, con i clienti). Vanno ricordate anche le tentazioni del demonio sotto forma di un vecchio cui è sottoposto Jeousha (Kim Rossi Stuart) in I giardini dell’Eden (1998, di Alessandro D’Alatri), un film in cui i simboli sconfinano nel «fiabesco, esuberante, barocco»(Maria Nisii, Le tentazioni di satana al cinema, https://scrittoridiscrittura). Premesso ciò, qui noi vorremmo soffermarci, invece, sui alcuni film “laici”, raramente affrontati (a eccezione di Simon del deserto), dai quali emerge il tema della tentazione nella vita quotidiana, spesso, è inevitabile, anche all’interno del credo cristiano.
- 1. Pianificare la morte della moglie: Sunrise (Aurora, 1927) di Friedrich W. Murnau. L’unico caso di film espressionista di matrice tedesca realizzato a Hollywood, Sunrise (Aurora, 1927), di Friedrich W. Murnau, su uno script di Carl Mayer, il soggettista per antonomasia del cinema espressionista tedesco degli anni Venti, non solo otterrà un Oscar, ma a tutt’oggi rimane uno dei capolavori del muto. La story, conosciuta, è semplice: «una donna di città» durante le vacanze estive su un’isola, irretisce un bravo contadino, giovane padre e felice marito, portandolo quasi a commettere un femminicidio: uccidere l’amorevole moglie, vendere la fattoria, e andare a vivere insieme in città.
La tecnica registica studiata da Murnau – già noto in Europa per Nosferatu (1922) e Der Letzte Man (1924)- aggiungeva al linguaggio del cinema, ormai maturo (Chaplin, Gance, Vertov, Ejzenštejn), nuovi passaggi sintattici. Si veda (se ne ricorderà Mervyn LeRoy in Little Caesar, 1930), l’innovativo piano-sequenza inciopitario, intorno alla casa dell’uomo, in oggettiva-soggettiva della donna: ella, come un serpente, striscia di notte intorno alla casa dell’amante per farlo uscire, fischiando: lui lascerà la cena sulla tavola preparata dall’innamorata moglie.
Ma eccoci al nostro tema. L’uomo invita la moglie per una gita in barca sul lago. Il piano criminoso, predisposto con l’amante è: uccidere la moglie, gettarla in acqua, simulare un capovolgimento della barca, legarsi intorno alla vita un fascio di giunchi, nascosto in barca precedentemente, con i quali salvarsi; raggiungere la riva e dare l’allarme della avvenuta disgrazia. Arriva il giorno in cui il marito (nel film «l’uomo») deve porre in atto il loro piano. I due sono nel mezzo del lago. Egli rema con il volto torvo e teso, lei invece cerca di sorridere, non sospettando nulla. Ora il marito si alza dritto sulla barca, pone le mani a cerchio, per uno strangolamento. Avvicina le mani sempre più alla donna; ella lo guarda terrorizzata, con i suoi grandi innocenti occhi (è la splendida Janet Gaynor). Poi l’uomo si blocca. Torna in sé. Rema furiosamente verso la riva opposta. Dopo l’attracco, sua moglie fugge via, correndo attraverso un boschetto: l’uomo l’insegue chiedendole scusa. Lei è terrorizzata, non si ferma. Ripara su un tram periferico che sta passando (la tramvia collega la campagna con la città). Anche egli, trafelato, sale sul tram all’ultimo momento. Inizierà il percorso di riavvicinamento del marito, con la continua richiesta di perdono, sino alla riconciliazione.
Murnau usa tutti i mezzi del muto per tradurre mirabilmente la tentazione all’omicidio. Ricorre al montaggio alternato di “particolari” (le mani minacciose di lui) e di “primi piani” della donna paralizzata dalla paura. Il volto della donna è inquadrato in demi-plongée, dal punto di vista dell’uomo ritto sulla barca, ad aumentare la suspense.
- Dalla tentazione al peccato: Susana (1950) Luis Buñuel. Susana è una ribelle adolescente (la venticinquenne attrice e cantante Rosita Quintana riesce a essere una seducente ragazza) fuggita dalla camera di sicurezza di un riformatorio che, giunta in una fazenda, durante un temporale, completamente fradicia, si finge esausta e si fa accogliere da don Felipe, sua moglie, donna Carmen, e Felisa, l’anziana governante. Incanta tutti, inclusi il giovane figlio Alberto e Jesus, l’aitante fattore, recitando la parte della ragazza sfortunata che ha subìto un tentativo di violenza da parte del patrigno ed è fuggita via. L’unica che sin dall’inizio non appare convinta della versione è l’anziana Felisa che sospende il giudizio.
La scaltra ragazza entra nella parte della finta innocente e servizievole aiutante, per le faccende domestiche, essendosi guadagnata la piena fiducia di donna Carmen. Giocando con il suo decolleté inizia a provocare l’inesperto Alberto, universitario, chiuso sempre nel suo studio a lavorare sugli insetti. C’è un gesto che Susana pone in atto per condurre la seduzione e indurre in tentazione l’inesperto studente: abbassare il girocollo del vestitino creando una scollatura in modo da far intravedere la parte superiore del seno. Ripeterà il gesto erotico nello studio di don Felipe mentre spolvera i fucili della collezione dell’uomo (allusione fallica) costringendolo, entrato l’uomo casualmente nello studio per pulire la canna di un fucile, a lanciare furtivi sguardi nel decolleté di Susana. Poi tenterà ancora don Felipe, in campagna (lo ha seguito, di nascosto, mentre egli caccia). Dopo un colpo di fucile, Susana grida, “Socorro, socorro!” L’uomo corre di là dalle siepi, in direzione delle grida, e trova Susana (che ha già abbassato il girocollo del vestitino e ha alzato la parte bassa a metà coscia), che finge dolore al ginocchio.
Luis Buñuel filma la storia di Susana (da un racconto di Manuel Reachi), tra simbolismi della superstizione (l’arrivo della donna durante un terrificante temporale appare segno demoniaco a Felipe; un ragno che attraversa l’ombra della croce sul pavimento; le allusioni falliche dei fucili di Don Felipe; i rimandi alla cultura cristiana (Susana che per evadere dalla prigione del riformatorio invoca l’aiuto di Dio (un fulmine le stacca l’inferriata); Felisa che si fa il segno della croce quando compare l’immagine della giovane donna tutta bagnata di là dai vetri della veranda somigliante all’immaginario di una strega; la recita interrotta del rosario; la maledizione che porta con sé Susana sta causando il progressivo deperimento della mucca dopo il parto. Temi e motivi ricorrenti nel cinema di Buñuel (si vedano Tristana, Viridiana, La via lattea, L’angelo sterminatore), declinati con soluzioni stilistiche tra espressionismo (l’incipit del film), realismo (la vita della fattoria), e film psicologico (i repentini cambiamenti di umore, atteggiamento e sentimenti dei due uomini (Don Felipe e Alberto) di fronte alle ripetute allusioni e azioni erotiche agite da Susana.
- Le tentazioni di un soldato e di una suora: La carne e l’anima (Heaven Knows, Mr. Allison, 1957) di John Huston. L’affascinante Debora Kerr, nei panni di una suora cattolica, Suor Angela, siamo nel 1944, in piena guerra, per errore rimane sola su una piccola isola nel Pacifico. Un marine, Mr. Allison, il composto Robert Mitchum (inizialmente si era pensato a Marlon Brando, reduce dal successo di Fronte del porto, 1956) raggiunge a nuoto la riva salvandosi: Heaven Knows, Mr.Allison (1957) di John Huston, tratto dall’omonimo romanzo dell’australiano Charles Shaw, ispirato ad un fatto accaduto.
I due sono gli unici abitanti del luogo: ella dovrà confermare i voti perpetui appena termina il conflitto, egli è scapolo. Per ripararsi dalle bombe e, successivamente, dai soldati giapponesi che occupano l’isola per alcune settimane, sono costretti a vivere dentro una grotta, dormendo a debita distanza. Nasce una splendida amicizia… Alla fine sbarcheranno gli americani.
Siamo al primo giorno di riconquistata libertà: i giapponesi, non ritenendo l’isola strategia, l’hanno lasciata. Si festeggia. Una vera cena all’aperto. Dopo il lauto pasto, sotto una splendente luna, suor Angela cuce, Allison si fa coraggio: «Quando tornerà a casa non lo faccia» / «Cosa?» / «Non faccia i cosi solenni…» [intende i voti definitivi]. «E che io non ho amato mai nessuno. Io voglio sposarla. Non solo occuparmi di lei qui, ma dopo, per tutta la vita». Suor Angela, in primo piano, non si aspettava tale dichiarazione, anche se settimane di sofferenze e rischi, hanno avvicinato i due. Continua Allison. «Non ne potevo più. L’ho detto». Huston risolve sintatticamente con il classico campo/controcampo di “primi piani larghi” (ossia tagliati all’altezza delle spalle).
Pausa. «Vede signor Allison, ho già dato il mio cuore a Gesù» / «Vuol dire è come se fosse fidanzata?»/ «Sì». E gli mostra l’anello d’argento, spiegando che per i voti solenni sarà d’oro. «E poi sarò sposa in Cristo». /«Non sapevo che funzionasse così. Forse non avevo neanche diritto a dirlo…» Poi Allison si alza «Bene, vado a farle questa tettoia». Qui Huston chiude la scena con la camera in oggettiva sul volto di suor Angela che appare dispiaciuta. Ella guarda Allison allontanarsi, poi abbassa lo sguardo come a cancellare una immagine che forse lei sta vivendo come legittima tentazione e che lo spettatore potrebbe figurarsi: i due come sposi felici.
La mattina dopo Allison, sobrio, è sulla battigia, scrutando l’orizzonte sul mare. Con passo veloce suor Angela lo raggiunge. Dopo il reciproco buongiorno, una breve pausa e Allison prende la parola. «Dovrebbero arrivare i nostri». Suor Angela con entusiasmo: «Ne è sicuro Mr. Allison ?». / «Spero, ma con questa guerra non si sa mai». Pausa. «Ieri sera, non ero in me». Del resto «[…] un marine non deve sposarsi, non è corretto per la moglie che deve aspettarlo. Un soldato viene mandato di qua e di là, è sottoposto a tante tentazioni, insomma fa bene a non sposarsi. (Pausa) Faccia conto che ieri non abbia detto niente». Ma il volto di Suor Angela che la sera prima, davanti a una dichiarazione d’amore, pur non muovendo alcun muscolo dal volto, nessun sorriso, non poté spegnere uno sguardo tradito dalla meraviglia di quella dichiarazione, ora è di pietra, e gli occhi della Kerr sono spenti, Huston, fine linguista dell’immagine (si vedano i suoi esordi, per es., Il mistero del falco,1941 o Giungla d’asfalto, 1950), inquadra la suora in primo piano di taglio, chiedendo alla Kerr un’espressione velata di tristezza, ma non melodrammatica. Ella abbassa nuovamente lo sguardo verso terra come a seguire qualcosa che è svanito. Forse nella notte aveva deciso di lasciare l’abito bianco della vestizione per quello, altrettanto bianco, del matrimonio. Ora si allontana davvero pensierosa. Allo spettatore deve arrivare il dispiacere di una donna che forse avrebbe potuto amare un uomo senza rinnegare Gesù. Insomma, che quella sana tentazione potesse portare a una virtuosa unione, senza passare per il peccato. Ma una parte di suor Angela sembra dire: persino le sane tentazioni, se poste di fronte a qualcosa di superiore, non debbono esser soddisfatte.
- 4. Tentare il proprio confessore: Léon Morin, prêtre (1961) di Jean-Pierre Melville. «Mi chiedevo se non fosse peccato provare piacere del fisico del mio confessore. Ma no, mi rassicurai. Che male poteva esserci? Si può capire dal Vangelo che anche Gesù era bello. La bellezza è un dono di Dio. Grazie Signore di aver fatto del vostro servitore Morin un’opera perfetta». È una delle frasi della protagonista femminile, Barny (la bella e intensa Emamuelle Riva), vedova e madre di una bambina, nel raccontare il suo rapporto amicale con il proprio confessore della chiesa di San Bernard, in un paesino della Francia occupata del 1940: Leon Morin, prêtre (1961) di Jean-Pierre Melville (tratto dallo splendido omonimo romanzo di Béatrix Beck). Iniziato come sfida nel confessionale dalla giovane vedova marxista, il duello, condotto con pazienza, carità, educazione, stilettate di teologia, ma con decisone, dal giovane prete Léon Morin (forse la migliore interpretazione di Jean-Paul Belomondo), continuerà in canonica, nello studio di Morin, per mesi. Sino alla conversione di Barny e alla simultanea liberazione della Francia.
Ma Morin dovrà affrontare oltre all’innamoramento di Barny, che si manifesterà più avanti, anche la seduzione di un’altra giovane donna, Marion.
Christine (è la statuaria Iréne Tunc, morirà in un incidente stradale a soli 37 anni), una delle colleghe di Barny, cattolica e filo-Petain, chiede a Morin se può ricevere una sua amica, Marion appunto, che intende divorziare e che «ora tiene su il morale di cinque uomini; due nella milizia, uno nella Resistenza, uno nella borsa nera, e un tedesco. Lavora in banca e non ha tempo per organizzare i suoi appuntamenti»”. Morin, «sono curioso di conoscere questo personaggio»”.
Quando entra nello studio di Morin, accompagnata da Christine, Marion ha lo sguardo seducente e la camminata da esperta prostituta. Precedentemente si è vantata con Christine «che nessun uomo mi resiste, e un prete è un uomo come gli altri». Si presenta: «Sono Marion, vorrei divorziare, ho ventisei anni» / «Abbiamo la stessa età». Taglio. Nell’incontro successivo, Marion è sola con Morin. Nell’attacco della sequenza Melville la presenta seduta sulla scrivania del prete, con le gambe accavallate, la stanza in penombra. Una lampada da tavolo illumina parte della donna, la sua camicetta bianca, e il lato destro del suo volto: come in un ufficio di polizia (Melville ha realizzato diversi film, noir). La postura di Marion, una “interrogata” che però intende condurre la sfida, denota la forte seduzione che ella pone in atto sin da subito. La gonna è sul ginocchio. Morin, quasi a distanza di sicurezza, è in penombra, guarda in un’altra direzione, non vuole incrociare lo sguardo provocante della ragazza. Silenzio. «Dovrebbe fare il parroco di campagna. Io farei la sua Perpetua», parte ironica e provocatoria. Pausa. Morin cammina, le mani dietro la schiena, si mette di spalle a Marion. «Ah. Sarebbe una idea. Salvo che le Perpetue debbono essere vecchie e brutte». Poi si gira e la fissa brevemente, serio: «Tra qualche anno potrebbe andare». Marion ha un sussulto, incassa il colpo. Poi le passa vicino, la guarda ancora per un attimo. Morin torna a fissare la parete. Un nuovo attacco della ragazza: «Vorrei farle gli occhi dolci». Morin, si avvicina, con un gesto secco le tira giù, di un centimetro, la gonna a coprire il ginocchio, poi la oltrepassa e va verso la parete. «I suoi occhi non mi sembreranno mai dolci». / «Perché le è proibito?» / «No. Non vorrei offenderla, ma il suo sguardo non è affatto bello». / «Non ho messo abbastanza rimmel. Ne metterò di più la prossima volta». / «Chi le ha detto che ci sarà una prossima volta? Che cervello da gallina! Forse prima della prossima volta dovrà regolare i suoi conti». Morin ora si gira verso la donna, va a sedersi alla scrivania. Adesso la guarda più a lungo, con carità. Marion ha la testa volta in un’altra direzione. È in difficolta, scavalla le gambe cercando una postura più dignitosa, rimanendo seduta sulla scrivania. «Mi cara figliola (gira la testa verso il prete) è incredibile l’amore che Cristo ha per lei. Lei è tra i suoi prediletti. E credo che il cielo sia fatto proprio per lei». Marion scende dalla scrivania, pare stizzita, prende il suo cappotto, se lo mette e va via. Nel taglio successivo, il giorno dopo, è in chiesa, in fila davanti al confessionale di Morin.
La frase di Morin, circa l’amore di Cristo per Marion, nel romanzo arriva alla ragazza, tramite un biglietto, il giorno dopo. La soluzione di Melville è narrativamente più efficace. Va detto che tutta la scena dell’incontro fisico in canonica, con illuminazione da film noir, è creata Melville. Infatti nel romanzo di Beck è riportato solo il dialogo (Béatrix Beck, Léon Morin prêtre, Gallimard, 2004, cap. VII, p. 130). Melville inventa, potremmo dire, una regia da esorcista. Egli evita che Morin accetti le tentazioni di Marion, come per esempio il dialogo frontale ma anche l’osservare la sua postura erotica: le dà le spalle per gran parte del breve incontro. La guarda solo quando l’azione seduttiva è stata smontata, psicologicamente e teologicamente, dal prete.
- L’eremita tentato: Intolleranza. Simon del deserto (1964, Buñuel). Siamo in un Medioevo indefinito e Buñuel racconta, a suo modo, tra surrealismo (Un Chien Andalou), iperrealismo (Los Olvidados), allegorie cristiane (Susana), la storia di un asceta: Intolleranza. Simon del deserto, 1965, di Luis Buñuel. La vita di un certo Simon, «[…] uno dei tanti stiliti che proliferarono sino al XIV secolo. San Simone fu il fondatore, ma il mio si chiama semplicemente Simon» (Agustin Sanchez Vidal, Luis Buñuel. Obra cinematografica, Madrid Ediciones J.C., 1984). Per purificare la propria anima Simon, che vive su una colonna, deve difendersi dalle tentazioni, soggettive e oggettive. Quelle che vengono dal pensiero, dai ricordi e che se assecondate portano al peccato, e quelle offerte con inganno da esseri umani sotto cui si manifesta satana. Nel testo filmico scritto dallo stesso Buñuel con Julio Alejandro, compare anche la madre di Simon (come nella vita dello Stilita), la quale non abbandona il figlio e vive la sua sofferenza stando sotto la colonna, in una rozza capanna di paglia che si è arrangiata. Il rimando a Maria che soffre sotto la croce è evidente, la colonna rappresenta il Calvario.
Chi visita talvolta Simon sono i monaci del vicino convento che lo ringraziano poiché il suo esempio aiuta nella fede gli sparuti, poveri, e doloranti contadini di questa area desertica. Sovente si recano con i monaci sotto la colonna e supplicano: “Aiutami Padre Simon! Aiutami”. Alcuni sono stati beneficati.
Dunque, Simon passa giorni e notti è in piedi o accovacciato su un piccolo quadrato che è la base di una sorta di capitello terminale. Buñuel inserisce una variante: il piccolo quadrato di pietra è perimetrato da una corda nei i quattro lati, fissata a quattro paletti di ferro conficcati sulla base della pietra: questa recinzione, che delimita il pieno dal vuoto, somiglia a una sorta di ring: lì avviene il combattimento spirituale di Simon contro le tentazioni.
Ecco che arriva la prima tentazione soggettiva. Simon parla con sé stesso: «Che grande tentazione non poter scendere e sentire la madre terra sotto i miei piedi. E correre, correre». Vediamo, in dissolvenza, in campo medio, la madre di Simon che corre e lui a rincorrerla: entrambi ridono. Poi Simon la raggiunge e la abbraccia «Attenta a non cadere». Altra dissolvenza: Simon, stanco e pensieroso, ai piedi della madre, con la testa sulle sue ginocchia, quasi un rimando alla Pietà di Michelangelo. «Figlio ogni tanto mi pensi?» / «Quasi mai madre, non ho tempo». / «Perché sei così orgoglioso?» / «Orgoglioso della mia libertà».
Appena respinto questo ricordo ecco una bella ragazza, vestita alla marinara, che saltellando gioca con un bastone e un cerchio chiamando «Sono qui Simon!». Avvicinatasi alla colonna canticchia una canzoncina. Simon chiede: «Da dove vieni?» / «Da lì» risponde la ragazza con finto candore. «E dove vai?» / «Di là», replica. Simon, la osserva attentamente, la sua barba è mossa dal vento. «Ma tu chi sei?» / «Sono una bambina innocente». Poi si siede e accavalla le gambe scoprendo le cosce, con tanto di reggicalze nere modello can-can: «Guarda che gambe!» Poi scopre il prosperoso seno. Buñuel inquadra la ragazza, la bella e nota Silvia Pinal, in plongée, dal punto di vista di Simon. Ora Simon si è inginocchiato. Ha guardato verso il cielo, ha chiuso gli occhi, alzato le mani: prega in silenzio. Sta scacciando la tentazione. Improvvisamente, un braccio della ragazza, come un serpente, entra lentamente nell’inquadratura: ella è sulla colonna accanto a lui. «Simon guarda che lingua lunga che ho» e quasi lo lecca sul volto. Poi, con un punteruolo lo trafigge lentamente sulla schiena. Simon in silenzio soffre, con soffocati gemiti (rimando alla flagellazione di Cristo). «Non ti temo satana! Cristo! Cristo!». Quando l’inquadratura si allarga la ragazza è scomparsa. Nel taglio successivo una donna di spalle, nuda (in campo medio, sempre in demi–plongée, dal punto di vista di Simon), si allontana nello spiazzo desertico, con una piccola corsa. Si ferma e si gira: lo spettatore vede una rinsecchita vecchia, con i seni flosci, raggrinziti e cadenti: minaccia in direzione di Simon, alzando una mano con l’indice verso l’alto: «Tornerò! Tornerò!» La regia di Buñuel, procedendo per ellissi, traduce semanticamente, con efficacia espressiva, come l’attacco del maligno sia rapido e improvviso: «la tentazione è un dardo avvelenato del demonio, trafigge il cuore. Sovente è improvvisa» (Livio Fanzaga, La tentazione in Lettura cristiana della cronaca e della storia, «Radio Maria», 20 luglio 2023, podcast).
- Conclusioni «La tentazione, come provocazione al male, è sempre una colpa per chi tenta. Ma per chi viene tentato propriamente non lo è, a meno che ne resti in qualche modo turbato: infatti in questo caso l’azione di colui che tenta viene a trovarsi nel soggetto che la subisce. Quindi per il fatto che il tentato si lascia trascinare al male dal tentatore cade nella colpa» (Cfr. San Tommaso, Summa teologica, I, 48, 5, ad 3). I nostri esempi cinematografici (ve ne sarebbero altri) ci parlano dunque della tentazione che porta al peccato (sempre secondo la lettura cristiana) quando segue una azione moralmente biasimevole. Prendiamo Susana. Ad una prima lettura la ragazza «rappresenta il male, l’arroganza, l’egoismo, la tentazione, il peccato […] » (Giorgio Cremonini, Buñuel, Savelli, 1975, Roma, p. 43), ma in realtà non è cosciente del suo peccato. Desidera vivere, amare, e fuggire la povertà. Ella si fa tentatrice senza rendersene conto. Susana crede in un Dio astratto, non ha una fede: «[…] quale esperienza del peccato può avere un cristiano a cui manca una basilare conoscenza teocentrica, anche se elementare […]?»” (Ivan Fučik, Il peccato oggi, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 1996, p. 32). Invece don Felipe, che addirittura sostituisce Susana con sua moglie, «consente alla tentazione» (Catechismo della chiesa cattolica, n. 2847) e dunque cade nel peccato. Per resistere alla tentazione, vanno ingaggiati «combattimento e vittoria possibili solo con la preghiera» (Catechismo della chiesa cattolica, n. 2849). Come fa Simon, pregando ad alta voce. Come crediamo faccia Suora Angela, pregando in silenzio, dopo un eventuale “sbandamento”. Infine, come supera la tentazione omicida anche il marito del soggetto di Carl Mayer, se non attraverso la preghiera, sicuramente per un intervento gratuito della Grazia.
CINEMA ENDOXA - BIMESTRALE Endoxa luglio 2023 Eusebio Ciccotti Tentazioni
