CONFESSIO FIDEI: LA SINGOLARE MONOGAMIA DEL PRETE SPOSATO CATTOLICO D’ORIENTE
STEFANO SODARO
Le considerazioni di chi studia il diritto canonico nei confronti del requisito di rigida esclusività monogamica per contrarre lecito matrimonio sacramentale non si discostano, in realtà, dai rilievi che potrebbe fare qualunque giurista che si occupi dei diritti di derivazione romanistica o di common law, anche con riferimento al solo ambito civile. Tutto il diritto europeo ed americano, infatti, è stato pressoché unanime, almeno sino alla metà degli Anni Dieci di questo nuovo secolo – per quanto concerne gli USA -, nell’escludere la possibilità di matrimoni plurimi.
Eppure compare una domanda ineludibile: un percorso che rifletta intorno alla monogamia deve necessariamente presupporre che essa sia un valore universalmente condiviso e che traduca un principio di ordine etico pressoché riconducibile alla vigenza di un presunto diritto naturale? È davvero così? Se, invece di far correre il pensiero immediatamente agli istituti poligamici – ad esempio propri dei contesti sociali e giuridici islamici –, si deviasse verso riferimenti poliandrici, che cosa accadrebbe culturalmente, quali reazioni si scatenerebbero? Perché pare indubbio che gravi una potente ipoteca patriarcale, e non certo matriarcale, sugli assetti giuridici familiari propri della/e civiltà occidentale/i.
Le perplessità si affastellano e, in una prospettiva di accentuata attualizzazione, incrociano di necessità anche i fenomeni oggi noti come “queer” o “poliamore”, che hanno già da qualche tempo iniziato ad interrogare il sapere giuridico, dentro il cui perimetro – benché declinato nella sua versione canonistica – tentiamo, in tutta modestia, di offrire qui qualche considerazione.
In effetti, al di là dei diversi assetti matrimoniali e familiari che un approccio giuridico comparato può far rivelare, rimane comunque sottotraccia – per così dire – e per lo più del tutto ignota, l’esistenza, all’interno della compagine istituzionale cattolica, di una singolare figura di ministri di culto, che sembrano sommare, nelle proprie persone, un sorprendente duplice vincolo sponsale: con un coniuge singolo concretamente determinato, che ha dunque nome e cognome, e con una comunità, composta invece di molte presenze, storie, volti, nomi. Ci si riferisce sia al caso dei cosiddetti “diaconi permanenti” – noti nella Chiesa Latina quale esito tra i più significativi della rinnovata (forse si potrebbe anche dire “riformata”, se non vi fosse il pericolo di fraintendimenti confessionali) ecclesiologia del Concilio Vaticano II -, sia anche, ed in certo modo più decisamente, all’esistenza di presbiteri, alias “veri e propri preti”, che, pur cattolici, hanno lecitamente moglie e famiglia, perché ordinati dopo essersi sposati, a norma di diritto canonico orientale. Si tratta, per appunto, di una disciplina normativa bimillenaria, che contraddistingue il diritto canonico delle Chiese Cattoliche Orientali (e certo anche delle Chiese Ortodosse, loro gemelle), per ciò stesso – va da sé – profondamente diverso dal diritto canonico occidentale comunemente inteso.
La categoria della sponsalità risulta trionfante in cospicua pubblicistica relativa al ministero ordinato cattolico. Non ci sono solo titoli come Il prete: uno sposo (Renzo Bonetti e Luca Pedroli, Cittadella 2015) o Prete oggi: pastore e sposo della Chiesa (a cura di Francesco Pilloni, Effatà 2015), ma compare anche una tesi dottorale, pubblicata per estratto nel volume intitolato Il diacono segno-sacramento di Cristo sposo (Giuseppe Barracane, Cittadella 2010), dal quale si può leggere, a pag. 208: «La categoria nuziale applicata alla Chiesa, pertanto, esprime l’unità della Chiesa, unità che viene prima di qualsiasi strutturazione e diversificazione di ruoli, carismi e ministeri. Tant’è che tutti formiamo la Chiesa Sposa di Cristo, anche se al suo interno i vescovi, i presbiteri e i diaconi hanno ricevuto il compito, secondo la volontà di Cristo e degli Apostoli, di rappresentarlo, di essere suo segno sacramentale. I ministri ordinati, infatti, sono segno di Cristo Sposo e rendono possibile col loro ministero, attraverso l’Eucaristia e gli altri sacramenti, l’incontro nuziale dello Sposo con la Sposa che è la Chiesa.». E, un po’ più avanti, a pag. 10: «Esiste, a mio parere, un sottile confine tra sponsalità e diaconia. Gesù, infatti, che è stato mandato da Padre a condividere la nostra umanità, si sposa con essa, diventando così il modello per la diaconia-sponsalità di ogni cristiano. Ogni persona, in senso assoluto e totale, avverte che Dio stesso gli chiede di fargli posto e di divenire ed essere segno della sua presenza nel mondo, segno del suo amore sponsale. Ed è per questo che prima o poi lo Spirito Santo chiederà a ciascuno di noi di “specificare” la propria dimensione/caratteristica nuziale. Nessuna persona umana può evitare tale nuzialità; potrà modificare la modalità nel viverla, ma non potrà non viverla. La “lettura” nuziale, poi, non è l’unica che permette di interpretare l’oggi della Chiesa nel mondo, ma ha sicuramente la peculiarità tra le altre di dare un impulso nuovo alla missione della Chiesa e capacità rigenerante all’incarnazione del Vangelo. A noi tutti, pertanto, è consegnata la Chiesa. Tutti noi siamo la Sposa che desidera ricongiungersi con lo Sposo delle nozze escatologiche.».
Viene da chiedersi inevitabilmente, quasi sopraffatti da cotanto “massimalismo nuziale”, se davvero sia questo il senso teologico del ministero ordinato e del matrimonio e, soprattutto, che cosa dunque accada, a livello rivelativo e simbolico (financo psicologico), quando le due dimensioni sacramentali coincidano nella stessa persona: sembrerebbe doversene argomentare, per diretta conseguenza, una specie di implosione logica. E ci si può domandare anche se tale massiccio, diciamo pure impressionante, sforzo di unità/unificazione, nel solo orizzonte sponsale, della pluralità ecclesiale, attestata anche dalla semplice presenza di una pluralità di sacramenti nella Chiesa Cattolica (ma comunque due anche nelle Chiese della Riforma), risulti convincente di fronte alle istanze pluralistiche della cultura contemporanea, non esclusi gli ovvii risvolti giuridici.
In effetti questa “sponsalizzazione”o “matrimonializzazione” ermeneutica del ministero ordinato non pare teologicamente adeguata, né psicologicamente opportuna e neppure canonicamente idonea. Cerchiamo di meglio argomentare.
È alquanto singolare che il diritto canonico non consideri ostativo alla prosecuzione dell’unione matrimoniale monogamica un eventuale avvenuto tradimento da parte di uno dei coniugi, prevedendo anzi il can. 1152 del Codice di diritto canonico (CIC):
- 1. Per quanto si raccomandi vivamente che ciascun coniuge, mosso da carità cristiana e premuroso per il bene della famiglia, non rifiuti il perdono alla comparte adultera e non interrompa la vita coniugale, tuttavia se non le ha condonato la colpa espressamente o tacitamente, ha il diritto di sciogliere la convivenza coniugale, a meno che non abbia acconsentito all’adulterio, o non ne abbia dato il motivo, o non abbia egli pure commesso adulterio.
- 2. Si ha condono tacito se il coniuge innocente, dopo aver saputo dell’adulterio, si sia spontaneamente intrattenuto con l’altro coniuge con affetto maritale; è presunto, invece, se conservò per sei mesi la convivenza coniugale, senza interporre ricorso presso l’autorità ecclesiastica o civile.
L’adulterio dunque non provoca di per sé separazione canonica dei coniugi – meno che mai dissoluzione del vincolo – e ciò in forza dell’adagio, risalente addirittura agli insegnamenti romanistici di Ulpiano, per cui “consensus, non concubitus, facit nuptias”: ciò che si potrebbe parafrasare anche in un principio per cui, nei confronti dell’eventuale terzo/a e salvo il principio dogmatico dell’indissolubilità sacramentale del matrimonio, “absentia consensus, non concubitus, impedit nuptias”…
Ne deriva, dunque, una pressoché totale effettiva irrilevanza del comportamento sessuale dei coniugi sull’esistenza del sacramento una volta sposati – e dunque autori di un matrimonio non solo rato ma anche consumato -, a fronte del consenso espresso e immutabile, che solo l’evenienza capitale della morte renderebbe ormai improduttivo di effetti.
Ed è la moltiplicazione di tale consenso che l’ordinamento canonico, ma prima ancora la teologia morale, ritiene semplicemente impossibile, perché sovvertitore della dottrina cristiana.
In termini più tecnici: non è l’eventuale vulnus al “bonum fidei” – l’adulterio, appunto – a decretare la nullità di un matrimonio sacramentale, bensì la sua esclusione ab origine, il fatto, cioè, di avere espressamente voluto riservarsi, al momento del matrimonio, la possibilità di altre unioni non solo fisiche ma proprio di natura matrimoniale. Soltanto l’intento poligamico, o poliandrico, invalida l’atto di consenso matrimoniale espresso nel sacramento, come attesta la stessa giurisprudenza canonica dei tribunali ecclesiastici.
Eppure il prete sposato cattolico delle Chiese d’Oriente sembra, sin dal suo matrimonio – che di necessità deve precedere l’ordinazione (quella diaconale, precedente alla successiva, presbiterale) -, avere previsto proprio una “dilatazione del cuore” che giunga a “dare la vita” nei confronti del gregge affidatogli dalla Chiesa, così come si esprime il n. 16 del Decreto Presbyterorum Ordinis (PO) sul ministero e la vita dei presbiteri del Vaticano II: La perfetta e perpetua continenza per il regno dei cieli, raccomandata da Cristo Signore nel corso dei secoli e anche ai nostri giorni gioiosamente abbracciata e lodevolmente osservata da non pochi fedeli, è sempre stata considerata dalla Chiesa come particolarmente confacente alla vita sacerdotale. Essa è infatti segno e allo stesso tempo stimolo della carità pastorale, nonché fonte speciale di fecondità spirituale nel mondo. Essa non è certamente richiesta dalla natura stessa del sacerdozio, come risulta evidente se si pensa alla prassi della Chiesa primitiva e alla tradizione delle Chiese orientali, nelle quali, oltre a coloro che assieme a tutti i vescovi scelgono con l’aiuto della grazia il celibato, vi sono anche degli eccellenti presbiteri coniugati: per questo il nostro sacro Sinodo, nel raccomandare il celibato ecclesiastico, non intende tuttavia mutare quella disciplina diversa che è legittimamente in vigore nelle Chiese orientali, anzi esorta amorevolmente tutti coloro che hanno ricevuto il presbiterato quando erano nello stato matrimoniale a perseverare nella santa vocazione, continuando a dedicare pienamente e con generosità la propria vita per il gregge loro affidato.
A fronte di certa retorica piuttosto ignorante, che considera pacifica l’associazione del celibato alla figura del prete cattolico, simile affermazione non può che sbalordire e generare sconcerto, eppure è magistero di un Concilio Ecumenico.
E l’indicazione di PO n. 16 è recepita in una – in apparenza – non meno sorprendente disposizione canonica. Il can. 373 del vigente Codice dei canoni delle Chiese Orientali, infatti così si esprime: Il celibato dei chierici, scelto per il regno dei cieli e tanto conveniente per il sacerdozio, dev’essere tenuto ovunque in grandissima stima, secondo la tradizione della Chiesa universale; così pure dev’essere tenuto in onore lo stato dei chierici uniti in matrimonio, sancito attraverso i secoli dalla prassi della Chiesa primitiva e delle Chiese orientali.
Ma è allora proprio il concetto di “nuptiae”, ossia di “matrimonio”, a rendere non più così osmotici ordinamento statale e ordinamento canonico. Al di là del fatto che una sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale non riceve più – e da tempo – in Italia una delibazione formale da parte del giudice statale, ma, tutt’al contrario, la pervasività della necessaria verifica di rispondenza ai principi di ordine pubblico/costituzionale ha portato nel 2021 la Corte di Cassazione a ritenere non delibabile – cioè non avente efficacia nello Stato – una sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale intervenuta dopo tre anni di convivenza, è proprio il consenso a strutturarsi in modo diverso nei due ordinamenti, laddove il concreto rapporto matrimoniale, la sua esistenza reale, il cosiddetto “matrimonio-fatto”, risulta indifferente al diritto canonico, che valuta solo la presenza, oppure no, del mero “matrimonio-atto”, cioè l’avvenuto perfezionamento della celebrazione nuziale e della consumazione (anche, per ipotesi, una volta soltanto) dell’unione coniugale.
Di chi è, teologicamente, sposo dunque il prete sposato? Ma prima ancora: chi è, teologicamente, lo Sposo o la Sposa nel contesto del matrimonio sacramentale? In una matura teologia del matrimonio, di chi sono pur sempre “innamorati” – diciamo così – i due coniugi, del tutto a prescindere dalle naturali evoluzioni sentimentali? Potremmo sintetizzare, forse, ricorrendo all’ausilio suggestivo della lingua ebraica: in un matrimonio sacramentale, necessariamente eterosessuale per dottrina cattolica, Gesù il Cristo assume volto ed identità di “Yeshua/Dabar” (“Gesù/Parola”, ove il secondo termine è di genere maschile) per la moglie e di “Yeshua/Ruah” (“Gesù/Spirito”, ove il secondo sostantivo è invece di genere femminile) per il marito, mentre la concreta storicità cristologica è sempre quella di “Yeshua-ha-Nozri”, “Gesù di Nazaret”. Tutti i sacramenti hanno infatti una fondazione cristologica.
Si potrebbe allora pensare che il conferimento del presbiterato ad un uomo sposato sia semplice associazione di una “sponsalità comunitaria” alla “sponsalità personale”, come peraltro sottintende il titolo dell’Esortazione apostolica post-sinodale Pastores dabo vobis di Giovanni Paolo II, sottoscritta da quel Pontefice il 25 marzo 1992, con un dinamismo in qualche molto capovolto rispetto a PO 16, che parla, invece, di un “gregge affidato” al prete e non di “pastori assegnati” alla comunità. Dunque, è piuttosto – sempre in chiave teologica – l’inesauribilità del mistero di Cristo ad essere confermata nell’associazione del presbiterato al matrimonio. Ogni sacramento, infatti, potrebbe essere amministrato assieme ad un altro anche quasi simultaneamente, così come avviene per Eucarestia e Confermazione, per Eucarestia e Battesimo, per Eucarestia ed Ordinazione, per Eucarestia, Battesimo e Confermazione celebrati tutti assieme nel caso di iniziazione di catecumeni adulti. Il matrimonio, pertanto, traduce la nuzialità effettiva del rapporto primigenio e fondativo del Battesimo. E tuttavia, per così dire, il cerchio non si chiude ed anche tale traduzione sacramentale in senso nuziale del rapporto originario con Cristo si rivela, da un lato, inadeguata e, dall’altro, aperta comunque ad una necessaria inesauribilità, ad una insopprimibile ulteriorità.
La riflessione diventa irta ma di grande interesse: cosa significa, infatti, “matrimonio”, se il can. 1148 § 1 CIC, occupandosi dei matrimoni poligamici e poliandrici non cristiani, si riferisce esplicitamente comunque a “uxores” e “maritos”, “mogli” e “mariti”, al plurale, che però solo l’assenza del Battesimo rende presenze effettivamente possibile nella loro pluralità? E la domanda diventa allora: il matrimonio poligamico e/o poliandrico di chi non sia battezzato/a è un matrimonio comunque valido per la dottrina cattolica? La risposta pare dover essere senz’altro positiva. Ma allora – se anche un matrimonio poligamico e/ poliandrico non cristiano, ma eterosessuale, deve ritenersi comunque valido per dottrina cattolica – “Yeshua/Dabar” e “Yeshua/Ruah” sono forse presenza teologicamente identificativa di più mogli e più mariti?
In altri termini: anche l’effettiva – con un ossimoro si potrebbe dire “pneumaticamente concreta” – realtà di Gesù di Nazaret, divenuto contemporaneo della nostra storia attuale, non si esaurisce in sé: perché, da un lato, è presenza priva di un preciso volto definito una volta per sempre, com’era, invece, indubitabilmente il volto di “Yeshua-ha-Nozri”, “Gesù di Nazaret”, reso oggi vivo nello Spirito, ma, dall’altro può assumere il volto preciso, “concreto” non solo “pneumaticamente”, ma proprio fisicamente, corporalmente, dei “Fratelli tutti” (come s’intitola la terza Enciclica, del 3 ottobre 2020, dell’attuale Papa, Francesco), ricomprendenti l’intera umanità redenta dal Cristo.
DIRITTO ENDOXA - BIMESTRALE TEOLOGIA Endoxa novembre 2023 Monogamia Stefano Sodaro
