L’IMMORTALITÀ FRA DESIDERIO E FRUSTRAZIONE
ELENA BETTINELLI
“Del sindaco di un villaggio della Moravia, dove da ragazzo andavo spesso in gita, si diceva che a casa avesse una bara pronta per il suo funerale, e nei momenti felici, quando si sentiva eccezionalmente soddisfatto di sé, vi si coricava dentro e immaginava il suo funerale. In vita sua non conosceva niente di più bello di quei momenti trascorsi a sognare nella bara: era assorto nella sua immortalità” (Milan Kundera, L’immortalità, 1990, p. 62).
IL FASCINO DELLA MORTALITA’
Gli esseri umani, specie unica all’interno del mondo animale, hanno la capacità non soltanto di esprimersi verbalmente secondo linguaggi articolati ed estremamente complessi, ma possiedono la voluttuosa tendenza (almeno alcuni) ad elaborare pensieri astratti, rappresentazioni simboliche, del tutto sganciate da contesti concreti e in assenza di referenti fisici.
L’uomo immagina se stesso, si rappresenta in mondi alternativi, in situazioni che egli stesso costruisce. Pianifica il proprio futuro, ricorda, elabora e deforma il proprio passato, colloca se stesso in una dimensione temporale le cui coordinate esistenziali non gli possono essere note o tantomeno svelate.
Ogni gruppo umano, ogni comunità, arcaica o moderna, insediata nei contesti geografici e climatici più diversi, rappresentata dai più svariati fenotipi, ha dovuto fronteggiare l’evento ultimo, la morte, orizzonte della propria esistenza, attribuendole senso e intellegibilità, costruendo ponti di relazione fra vita e non-vita oppure, al contrario, relegandola sempre più lontano dalla consapevolezza.
L’uomo è dunque capace di immaginare la propria fine e progettare, intuire, costruire un “dopo” dotato di senso o non-senso. Ovviamente questo genere di proiezione non può prescindere dall’acquisizione di un bagaglio culturale, religioso, filosofico, etico. Rimuovere l’angoscia che la morte comporta rappresenta in ogni caso una sfida comune.
Numerose sono le possibilità di trasfigurare un evento tanto disorientante, così da mettere costantemente in gioco la poderosa intensità dell’immaginazione umana. La fine irreversibile è stata variamente declinata in ambito religioso e filosofico in qualità di “attesa”, “liberazione”, “ricongiungimento”, reincarnazione, “sonno”, “passaggio”, “espiazione”.
La morte è una esperienza che tutti gli esseri viventi condividono, ma è altrettanto vero, se ci atteniamo scrupolosamente a criteri scientifici, che questa stessa è “inenarrabile”, non può essere descritta o resa nota, nonostante i molti resoconti post-mortem resi da coloro che sono sopravvissuti ad eventi potenzialmente fatali, narrazioni che soltanto intimamente possiamo accogliere o rigettare, poiché inerenti il piano della fede e delle personali convinzioni. A ciascuno di noi la libertà dunque di percepire il racconto di tali esperienze come verosimile e affine ad un sentire ancestrale.
Molte sono le strategie elaborate al fine di riempire di senso il buco nero dell’incognita “morte”, conferendole almeno una intellegibilità su cui poter ragionare. Un metodo è consistito nel separare la materia, visibile, sensibile, fatiscente, da ciò che è invisibile, soggetto a deterioramento non fisico, ma eventualmente morale: il corpo, quindi da una parte, e il “soffio” che rende ragione dell’Essere – si dica pure “anima”, “intelletto”, “coscienza”, “spirito”.
Un film del 1993, “L’uomo bicentenario” interpretato da Robin Williams, narra le vicende di un robot positronico destinato ad avere un ruolo unico nell’asserzione del concetto di “uomo” nei suoi tratti biologici, cognitivi ed etici.
Inizialmente viene chiamato “Uno”.
Assegnare un nome significa classificare e “uno” non riflette alcuna identità specifica, è pertanto la replicazione anonima di qualsiasi essere. Egli è “Uno”, nel senso di unico, soltanto all’interno della cerchia relazionale e affettiva della famiglia per cui lavora. E’ nondimeno un numero, testimonianza, nella società ipertecnologica che funge da sfondo alla vicenda, del privilegio conferito a quantità e calcolo, nell’illusione che tali strumenti garantiscano il controllo dell’alea e la gestione di eventi futuri.
Uno, dunque, acquistato in qualità di maggiordomo tuttofare, a dispetto di ogni possibile futurologia, “evolve”, apprende, inizia a leggere, ma soprattutto elabora, a partire dalla realtà relazionale circostante, una famiglia incline a dialogare con lui, il concetto di libertà.
Una libertà che non significa “ribellione”; egli infatti continua a comportarsi secondo le celebri tre leggi della robotica e a servire devotamente gli esseri umani con cui convive, ma acquisisce consapevolezza della propria unicità e qualità, attitudini che sempre più lo spingeranno ad ingaggiare una battaglia con se stesso prima, con la società poi, al fine di essere riconosciuto parte integrante del genere umano.
Alla fine del percorso durato ben due secoli entro i quali gli viene negato tale status, Uno, il cui nome ben presto verrà convertito in Andrew, sperimenterà un percorso di natura interiore ed esteriore: diverrà fisicamente indistinguibile rispetto ad un comune essere vivente grazie a particolari ed avveniristici rivestimenti dermici e tutta una serie di organi artificiali da lui stesso inventati e in grado di essere impiantati in chiunque, in sostituzione di un organo malato. La poderosa conoscenza che ha acquisito sia sulle macchine sia sulla fisiologia umana è infatti ancora devoluta in favore degli uomini che possono beneficiare delle sue sofisticate invenzioni in campo bio-tecnologico.
L’istanza gli viene negata sulla base di considerazioni che inducono alla riflessione: Andrew non può accedere alla qualifica di essere umano, non tanto perché generato a partire da un processo che esclude il bacino genetico dell’umanità. Mai infatti viene menzionato il pericolo insito nel rendere ad una macchina una dignità etica pari al creatore, causa possibili rivolte e assunzione di potere da parte di esseri così poco senzienti ma infinitamente potenti – tema ricorrente del filone fantascientifico –.
No, il problema è di tutt’altro genere. Andrew non rappresenta un pericolo in quanto macchina, ma a causa del cervello positronico che lo rende immortale.
Emblematica è la sentenza che a questo riguardo rigetta l’istanza: è possibile tollerare l’immortalità di una macchina, mai quella di un essere umano.
Andrew allora decide per la mortalità e la progressiva consunzione negli anni facendosi impiantare un comune apparato circolatorio, provvisto di sangue, che inevitabilmente ne deteriorerà le parti interne.
Appena pochi istanti dopo il suo decesso, l’assemblea mondiale lo decreta membro della comunità umana e quindi accoglie la richiesta di poter sposare a pieno diritto la sua compagna mortale, Portia, che spira, volutamente, pochi minuti dopo di lui.
Uno intende, in virtù di un sofferto percorso di incorporazione dell’umano, ambire alla mortalità, per poter essere riconosciuto come parte di una comunità più grande, più solida.
Si potrebbe quasi affermare che Uno, il robot positronico, descrive perfettamente lo spirito della comunità; è risoluto a rinunciare a privilegi unici inumani (è immune alla malattia, alla caducità) per ottenere la sicurezza, il “cerchio caldo” della comunità umana.
E’ possibile, dunque, concludere che l’uomo, almeno in questa narrazione, rigetta l’immortalità in quanto proprietà che negherebbe lo status e gli attributi di “essere umano”. L’umanità è indissolubilmente legata alla mortalità.
ETERNITA’
L’immortalità è quindi ontologicamente incompatibile con l’essere umano e con tutti gli esseri viventi. La morte è sì temuta ma allo stesso tempo celebrata, innalzata attraverso la gloria e il sacrificio, emblema e simbolo dell’eternità, della vittoria dell’eterno sul caduco.
Ciò che realmente spaventa è il degrado, la malattia, il decadimento: non porta nessun valore aggiunto, nessun canto epico che compensi la fine del nostro apparato biologico e mentale come invece accade per la morte.
Si può o si ritiene di avere una alternativa all’annullamento che la morte comporta: “ingannare” la morte attraverso ciò che rimane, la continuità, il ricordo, le generazioni successive. Al contrario, il degrado fisico rimane un dazio inaccettabile contro cui poter opporre una resistenza solo vana. La rinuncia all’immortalità a cui Andrew si sottopone non solo di buon grado, ma con entusiasmo.
L’umanità pare anelare all’eternità in quanto imprinting simbolico, più che ad una vita imperitura. Ciò a cui tributa valore è il ricordo di ciò che ha prodotto e ideato: il perdurare nelle menti e nell’ammirazione dei posteri di visioni geniali e lungimiranti, fantasticherie divenute realtà, marchingegni tecnici, vaccini salvifici, opere grandiose che sopravvivranno al loro creatore.
Essere immortali in mondo popolato da mortali, in cui la sabbia della clessidra scorre incessantemente, rappresenta un destino segnato dalla perdita e dalla scomparsa: di ciò che si ama, di ogni forma di attaccamento. Una sorta di divinità al contrario in un Olimpo disabitato che, suo malgrado, è costretta a custodire la memoria e celebrare la vita, le parole, i gesti, le azioni di tutti coloro che l’hanno preceduta. Immortalità è oblio di sé, una vita/non-vita adagiata su un eterno presente e celebrazione ipertrofica di un passato che non avrà mai termine.
OBLIO E DESIDERIO
La celebrazione che la morte conferisce, unico genere di immortalità ammessa, è una rivincita cui difficilmente la cultura rinuncia.
Anche la morte, la guerra, portano con sé una prospettiva celebrativa che non può essere disattesa.
L’attentato suicida, cupo protagonista di uno scenario politico e religioso disfunzionale, di cui non è possibile scorgere una ragionevole ricomposizione, si è imposto con ferocia crescente. L’azione terrorista è portatrice di un ethos inaccettabile per il pensiero occidentale e europeo.
La guerra, in sé, non può che evocare orrore, tuttavia vi sono modalità di “condurre la guerra” metabolizzate e inquadrate in una sorta di memoria storica legittimante. La missione suicida altera considerevolmente i rapporti di forza e valore che intercorrono fra aggressore e vittima: coloro che vengono colpiti da un attentato vanno incontro a morte casuale, anonima, insensata, intrisa della banalità del quotidiano.
Materialmente, il bersaglio dell’attentatore è un luogo, uno spazio selezionato come bersaglio e condiviso casualmente da un certo numero di persone che passeggiano, vi lavorano, si divertono, persone che in quel preciso momento hanno ben poco in comune.
La morte vi si affaccia con la sua maschera più terribile, quella della banalità. Le identità delle vittime rimangono trasparenti, accessori non indispensabili alla coreografia del terrore. Il tutto è tanto più intollerabile quanto più la vittima viene depredata di quell’aura di nobiltà e dignità che le spetterebbe di diritto, poiché la sua morte è stata tinta dai caratteri della quotidianità, della contingenza casuale, da una sorta infine di anti-eroismo refrattario all’immortalità.
La fine converge in una azione che ha ben poco di eroico, appare tanto più odiosa e scioccante quanto più riesce ad intercettare la vittima nella piccola azione, routinaria e scontata.
Il terrorismo suicida mina quindi il codice cavalleresco proiettato da secoli di guerre di certo raccapriccianti, ma quasi sempre condotte secondo schemi acclusi ad una narrazione prevista, ad un codice comune sia implicito che esplicito: dichiarazione di ostilità come prologo, commemorazione delle vittime come epilogo, civili innocenti fagocitati dal crudele ingranaggio statuale o combattenti immolati alla causa nazionale, protagonisti di commoventi cerimonie celebrative, regalati insomma all’immortalità.
La retorica del terrorismo e in particolare quella dell’attacco suicida possiede una sceneggiatura ambigua, i ruoli dell’aggressore e della vittima sono sfocati e poco convincenti: l’attentatore rimane vittima del suo atto, spregevole e vigliacco, tuttavia va incontro alla morte come fosse un eroe, suggestionato dall’accesso all’immortalità, appagato dalla promesse di una radiosa vita futura. Le reali vittime, d’altronde, i bersagli innocenti, non vantano uno status eroico in quanto coinvolte in una dimensione in cui non c’è presagio di pericolo. Non combattono, non si oppongono, non ostentano bandiere, non solidarizzano, non condividono insomma un’ideale simbolico per il quale essere celebrate. Sono numeri che attestano la riuscita dell’attentato, testimoniano al mondo che assiste la barbarie di un atto condotto con successo. Rappresentano parte del messaggio che la strategia del terrore esibisce al pubblico.
Immortalità è d’altronde essere esclusi dal ciclo naturale che caratterizza ogni essere vivente: nascita, crescita, riproduzione e morte. A ben vedere infatti, gli esseri immortali non invecchiano, non si modificano dunque, cristallizzati in un dato stadio biologico, punti fissi sulla linea del tempo.
Ed è proprio questo il dramma della piccola Claudia del romanzo “Intervista col vampiro” di Anne Rice: la rivelazione che, essendo stata resa immortale, non potrà mai essere donna e rimarrà, a dispetto di una mente e di un intelletto che evolve verso forme raffinate e sadiche di ematofagia, prigioniera di un corpo di cinque anni, una “forma impotente”, una “sembianza inetta”, come lei stessa si definisce. A Claudia sono precluse le passioni della donna, la sensualità di un corpo adulto; potrà desiderare, ma mai e in nessun caso essere desiderata nel suo aspetto acerbo. Ciò scatena la sua ira nei confronti di colui che ha deciso in sua vece. Claudia non ha scelto l’immortalità, le è stata imposta.
L’immortale è inetto alla vita, alla fertilità, al desiderio che questa comporta. E’ Re Mida allorquando scopre che tramutare ogni cosa in oro, dono concesso proprio da Dioniso, dio dell’ebbrezza vitale, non gli procurerà più il piacere agognato, ma costituisce, inversamente, fonte di penosa impotenza e incurabile nostalgia, nonché morte certa data dall’impossibilità di nutrirsi.
Ma forse ciò rappresenta il segreto dell’uomo e della sua mortalità: la compresenza irrisolta è in lui connaturata. Egli è un essere perennemente diviso, attratto dal desiderio e dall’incognito, impavido e allo stesso tempo labile, tremolante di fronte alla caverna oscura in cui egli stesso ha deciso di addentrarsi.
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