OBLIVISCERE MORI
PEE GEE DANIEL
Come compendiava (cripto-hegelianamente) il compianto Giovanni Falcone: «Tutto ciò che è umano finisce.» Sebbene l’espressione dell’eroico giudice contenesse un’intonazione fortemente consolatoria, riferendosi in origine al fenomeno mafioso e alla sua naturale caducità, essa si tinge di un ben più mesto significato e sortisce ben altri effetti sul nostro animo, qualora, com’è legittimo, la si estenda a legge universale.
L’uomo, ciò che egli fa e ciò di cui si circonda sembrerebbero tutti egualmente destinati a un’ineluttabile finitudine.
È ciò che accade anche a tutti gli altri organismi viventi, obietterete precipitosamente voialtri. Ma questo, anziché lenire la nostra angoscia – secondo il vecchio adagio “mal comune, mezzo gaudio” – rischia invece di aggravare un tale dato di fatto, visto che gli umani, al contrario del ficus beniaminus, dell’organismo monocellulare, del moscerino della frutta, dell’orangutan e, in generale, della gran parte degli altri esseri senzienti, sono consci di questo destino, perlomeno fin da quando il primo ominide dotato di una piena contezza di sé inferì la propria mortalità dall’estremo spiro di un proprio affine.
Una tragica consapevolezza come questa grava perciò sul cranio dei viventi per ogni singola ora della loro esistenza e tutti gli sforzi che essi profondono per imporsi, creare, condurre esperienze vecchie e nuove, divertirsi forsennatamente all’apericena o in un centro di massaggi cinese altro non sembra, per un occhio scettico e disincantato, che il continuo tentativo di rifuggire il più possibile non solo tale evento, ma anche solo il pensiero di esso. Poiché in realtà, sotto sotto, presago di morte e annichilimento per l’uomo, in qualche maniera, è qualunque gesto o episodio puntelli la sua vita, dall’annidamento endometriale in avanti.
Non è forse proprio questo tremendo, colossale spauracchio ad aver suscitato il sentimento religioso, con tutte le sue multiformi variazioni successive? Nel disperato tentativo di rintracciare un conforto che spostasse la prospettiva dalla vita presente a una altra e postuma, magari più beata e verace – come assicurano i ministri dei vari culti – e però ipotetica e di certo meno fragrante.
Peraltro, anche ammettendo una prosecuzione extra-mondana di questo nostro laborioso campare, il timore per la morte e la cessazione delle nostre funzioni organiche non verrebbe di fatto ovviato, dacché comunque, anche per accedere alla vita eterna (a meno che non si sia la Beata Vergine o il semidivino Eracle, colà assunti per apoteosi), sempre da quel varco necessita passare, rinunciando per forza di cose a questo mondo fisico e tangibile che, per quanto millantiamo, tanto ci piace. Fino a spingerci, segretamente, all’ossessione materialistica di Mazzarò, che quando gli venne comunicato che era lì lì per tirare le cuoia, uscì nell’aia a bastonare a morte le sue anatre e i suoi tacchini, pur di portare anche all’altro mondo quel che possedeva in questo.
«Roba mia, vientene con me!» verrà da gridare a noi pure, sentendo scapparci via la vita, e in quel momento non basteranno le estreme unzioni di tutti i preti o i mullah a disposizione per farci credere che abbandoniamo una valle lacrimosa in favore di una terra migliore, impalpabile ai sensi, laddove sempre ruscellano il latte ed il miele.
«Panzane!» ci verrà allora presumibilmente da obiettare, perché – confessiamocelo – alla nostra coscienza più schietta e profonda, così pigramente legata alle blandizie delle “cose sensibili”, nulla importa di un’esistenza alterodimensionale fatta di beatitudine perenne e puro spirito.
«Tutto è già qui!» griderà anzi, con l’ultimo filo di voce concessole, per poi aggiungere: «Perché mai ci dovrebbe spettare qualcos’altro oltre a ciò? Il paradiso? È averla spuntata al tempo del nostro concepimento sui milioni di quegli altri cigliati homunculi che ci contendevano ad armi pari una scorciatoia per l’ovocellula, e aver vinto, grazie a quello sprint finale, il biglietto per questo splendido spettacolo che è la vita. L’inferno? Be’, sono le sofferenze e le disgrazie, la scomparsa dei nostri cari, i pensieri più oscuri, i soprusi altrui, i nostri personali autolesionismi, quando ci si smorza quella luce negli occhi che ci permetteva di godere a tutto tondo della superba forza degli esistenti. Tutto, dunque vedete, è già qua, ora, in questa materica immanenza.»
E dunque?
Come sconfiggere questa nostra connaturata limitatezza guastafeste?
In altre parole, c’è per caso una via di scampo dalla labilità del nostro vivere?
Non una, signori miei, bensì due sono le vie di fatto accordateci per perseguire l’immortalità (e nessuna di loro trascende questo mondo).
Ci si rende imperituri: a) nel dare prosecuzione alla stirpe, b) nella perpetuità delle tracce che lasciamo di noi su questo pianeta, nel più o meno fugace passaggio che sulla faccia di esso ci è consentito di fare.
Nel primo caso si tratterà di una immortalità tutta affidata alla bruta inconsapevolezza delle carni: figliando c’è qualcosa di nostra appartenenza che lasciamo scivolare nel nascituro, e da lui ai suoi eventuali epigoni e così via, e così via, fino a quando il ceppo persisterà. E questa nostra particella che, reduplicandosi, si stacca da noi per avanzare lungo i secoli a cavallo di questa inarrestabile trasmissione, sarà sempiterna testimone di noi, redivivi in quel pacchetto di corpuscoli, ben oltre i tracciati che delimiteranno le nostre sepolture.
Quel che abbiamo operato nella vita, invece, ci restituirà un’immortalità sempre precaria e ballerina, che potrà sussistere solo sino al giorno in cui qualcheduno ancora rammenterà azioni da noi eseguite o pensieri che avemmo a nostro tempo espresso, e quel tale deciderà di comunicarli a un terzo, che sarà da allora coinvolto anch’egli nella procrastinazione della nostra effettiva scomparsa finale da questa valle di lacrime e risa.
Tuttavia, anche ponendo l’improbabile caso che il nostro seme o che l’eredità mitocondriale dei nostri cromosomi riesca a trasmettersi imperitura nei secoli, o che la gloria accumulata in vita prosegua post mortem all’infinito, alcune obiezioni sorgono spontanee.
Prima di tutto, come già sapeva quel vecchio trombone, cattedratico a Jena, l’immortalità genetica non è realmente nostra, è piuttosto la continuazione e preservazione della specie cui apparteniamo che attraverso di noi si attua. L’unica soddisfazione che personalmente se ne può trarre è nel presente e del tutto cerebrale, quale prefigurazione egotica di quelle generazioni a venire in qualche maniera debitrici ai nostri lombi.
Ma anche l’immortalità nelle opere, a ben guardare, si risolve (agostinianamente) in un futuro previssuto nelle speranze presenti, quando cioè, nei nostri pensieri più oziosi, ci immaginiamo i plausi che il nostro nome riceverà dai posteri, e che noi non saremo tuttavia più capaci di recepire. Anche questa, detta così, appare come una ben magra gratificazione, del tutto simile al tributo di un Bergotte morente al Wermeer proustiano: «un’ammirazione così poco importante per il suo corpo divorato dai vermi.»
Ricorriamo allora al più classico dei ragionamenti: tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo onde per cui Socrate è mortale.
Ma… è veramente così?
Le cose stanno veramente come le sillogizza lo Stagirita?
In altre parole, Socrate era (ed è) davvero come tutti gli altri uomini?
Socrate, al contrario di un’infinita pletora di suoi contemporanei morti, sepolti e ricaduti quasi immediatamente nella più assoluta dimenticanza collettiva, vive e respira tra noi, oggi, ora. È sopravvissuto brillantemente alla propria morte attraverso un’infilata di secoli e millenni, passando per il platoaristotelismo, i socratici minori, giù giù per Erasmo, Montaigne, Voltaire, Kierkegaard, fino al film Matrix. Il suo ghigno satiresco si nasconde dietro ogni traccia di ironia, dietro ogni tentativo euristico che ancora l’Occidente si prende la briga di condurre. Socrate, come “marchio di fabbrica”, è effettivamente immortale. Ma questa è un’immortalità sotto un certo punto di vista un po’ farlocca. È un’immortalità che non premia le sue membra, ormai disfatte dall’erosione meccanica degli elementi, né i suoi vividi pensieri, che nella concrezione di quel suo corpo, ora ridotto ad ancor meno di una manciata di pulviscoli, erano intrappolati.
Vi sconfinfera un’immortalità del genere, o pensavate a tutt’altro?
In questo caso, tenete sempre a mente il mito di Sisifo, re di Corinto.
Zeus, adirato per i brutti scherzi che il sovrano non mancava di tirare agli immortali abitanti dell’Olimpo, decise di mandargli in città la Morte personificata, affinché vi facesse un’ecatombe.
Ma Sisifo, con un ulteriore colpo di genio, intercettò Tanato per tempo, lo invitò a fare bagordi insieme a lui e, una volta che lo ebbe ubriacato sodo, lo incatenò a triplo giro. Da quel momento in poi non morì più nessuno, a Corinto e nelle regioni finitime.
Questo però, dopo i primissimi momenti di euforia, apparve piuttosto come una condanna che come un dono: le guerre ormai si limitavano a scaramucce in cui le schiere nemiche riportavano al massimo contusioni e fratture guaribili in un paio di settimane, le mogli non potevano rimanere vedove e vivere così una seconda giovinezza nelle balere e nei circoli per pensionati, il figlio fannullone non aveva più da attendere trepidante il trapasso di babbino per scialacquarne i beni tra night e casinò, tiranni e prepotenti non potevano più essere eliminati in alcun modo. Ma soprattutto, nessuno riusciva più a ridere, visto che il riso altro non è, in fondo in fondo, che il principale contravveleno (morale e psicologico) ai mali che la vita naturalmente porta con sé (primo fra tutti la morte, appunto, e la paura preventiva di essa)…
[A Sisifo fu poi anche donata la famosa vita eterna, laggiù nell’Ade, dove era costretto a spingere per punizione, in saecula saeculorum, un grande masso su per il versante d’un monte, da cui, giunto in cima, esso riscivolava giù, obbligando il dannato a ricominciare daccapo. E anche quest’epilogo non può non farci meditare sull’opportunità per l’uomo di divenire o meno immortale, in qualunque forma ciò venga inteso].