LA MISERICORDIA DI FRONTE AI LEGAMI LIQUIDI
MICHELE ILLICETO
Misericordia e postmodernità. Che cosa ha da dire oggi la cosiddetta “Parabola del Padre misericordioso” (Lc 15,11-32) , meglio conosciuta come “Parabola del figliol prodigo”? Essa può essere riletta alla luce delle numerose sfide della postmodernità, da più parti definita anche come post-metafisica (Heidegger e Habermas) e ultimamente anche postumana (Pepperell e Braidotti), caratterizzata dalla “crisi delle grandi narrazioni” (Lyotard) e dal “venire meno dei fondamenti” (Heidegger), dall’avvento della “società liquida” (Bauman), i cui caratteri sono incertezza e insicurezza, rischio (Beck) e complessità (Luhmann), strettamente legati ai tre grandi eventi epocali del nostro tempo: la “morte di Dio” (Nietzsche), la “morte dell’uomo” (Foucault) e la “morte del prossimo” (cfr. L. ZOJA, La morte del prossimo, Einaudi, Milano 2009). A fronte dei legami diventati liquidi (Bauman) la parabola a nostro avviso propone la misericordia come prassi per ricongiungere i tre registri della paternità, della figliolanza e della fraternità oggi fortemente scissi e in crisi.
La misericordia è la grazia alla prova della fragilità. P. Ricoeur diceva che l’uomo è fallibile. E lo è perché non è governato dalla pura necessità, ma dalla possibilità. La parabola si pone quindi come un “elogio della possibilità”. Un canto elevato alla Dualità quale luogo della libertà che apre a tutte le possibilità. Qui l’uomo-padre (simbolo dell’Uno) resta al suo posto e accetta la sfida della libertà, cioè della Dualità (l’alterità del figlio) e del Terzo (la fraternità). Non è una parabola sull’errore già consumato, ma una parabola sull’amore che postula una libertà che prevede l’errore. Una libertà che rimanda al suo fondamento che è l’amore. Perché solo l’amore giustifica la libertà come spazio dato all’altro per costituirsi e istituirsi. Amore che è dono e che per questo sa farsi anche per-dono. Infatti, la parabola ci fa capire che il per-dono non sta alla fine, come rimedio all’errore, ma all’Inizio, quasi come premessa dello stesso errore: nel dono come Inizio e nell’Inizio come dono.
Qui, però, l’amore è inteso come “fondamento sospeso”. Cioè fondamento perso nella s-fondante libertà in cui si gioca l’esser-Uno del padre. Fondamento sottratto alla possibilità rassicurante di autodisporre di sè. Chi ama non dispone di nulla (il padre non dis-pone dei figli), ma si es-pone al nulla, non disponendo neanche dell’amore con cui ama. Più che disporre, tale fondamento si trova es-posto. Quindi aperto alla ferita della negazione. Allo stesso modo il padre della parabola (già aperto alla misericordia) non dispone dei figli, ma amandoli si espone ad essi. Egli è già donato e, in quanto donato, è già es-posto. Non un padre dato ma donato. Il padre è il dono che innesca circuiti di reciproca donazione. Ha scelto di donarsi e in tal modo fonda la libertà che dovrebbe rispondere con la logica di questo stesso dono.
Solo l’amore fa incontrare la necessità con la libertà, ciò che è dovuto con la scelta responsabile di ciò che non è stato imposto. Esso, da un lato, rende necessario ciò che è puramente possibile, dall’altro trasforma il possibile in necessario.
In questa prospettiva, questa parabola potrebbe educare, (come ha scritto Rosaria Gasparro in un suo breve testo apparso sul web ma erroneamente attribuito a Pasolini), “le nuove generazioni al valore della sconfitta. Alla sua gestione. All’umanità che ne scaturisce. A costruire un’identità capace di avvertire una comunanza di destino, dove si può fallire e ricominciare senza che il valore e la dignità ne siano intaccati. A non divenire uno sgomitatore sociale, a non passare sul corpo degli altri per arrivare primo. In questo mondo di vincitori volgari e disonesti, di prevaricatori falsi e opportunisti, della gente che conta, che occupa il potere, che scippa il presente, figuriamoci il futuro, a tutti i nevrotici del successo, dell’apparire, del diventare. A questa antropologia del vincente preferisco di gran lunga chi perde. È un esercizio che mi riesce bene. E mi riconcilia con il mio sacro poco”.
La misericordia ha occhi su sagome fatte di niente. “Quando era ancora lontano il padre lo vide” (Lc 15,20a). Il giovane, andando via, era uscito fuori di casa, fuori dal perimetro dello sguardo del padre. Dal canto suo, il padre, da quando il figlio era andato via, aveva occhi poggiati sul niente. A rincorrere una sagoma senza forma che si perdeva dietro l’orizzonte del mondo. Eppure da allora non aveva smesso di salire sul terrazzo nella speranza che lui tornasse. Due sguardi che non si incontrano. Troppo distanti per incrociarsi. La grammatica dei corpi persi esige che non siano gli occhi i primi ad incontrarsi, ma le ombre. Quello che il padre vide da lontano era proprio un’ombra, zona neutra di un’assenza senza più alcuna essenza. Da lontano le ombre sono tutte uguali. Eppure in quell’ora del tramonto il padre intuì qualcosa di nuovo. Quella figura era l’ombra di se stessa, si reggeva appena in piedi. Si confondeva con la polvere che alzava camminando. Lo riconobbe dalla sua fragilità, da quel lezzo di morte che si portava dietro. Non era un viandante. Il passo era diverso, incespicava e tentennava.
L’andatura sapeva già di invocazione. Vide le sue braccia alzate al cielo come a chiedere già da lontano un perdono insperato. Il cielo si aprì su di lui, e quando era ancora lontano, il padre lo vide, mentre egli a sua volta non ancora riusciva a vederlo. Non vedeva lo sguardo da cui era visto. Non vedere chi invece ti vede, ti rende figlio di uno sguardo che alla fine ti sorprende. Quelli del padre sono gli occhi della tenerezza, sguardo in cui il figlio inizia la sua rinascita. Tornare allo sguardo, quando il volto è ancora lontano, è accendere la luce su quel volto spento, senza forma. Volto sospeso nelle mille figure anonime, che fino ad allora avevano attraversato quella strada. È a partire dagli occhi, dal padre posati sulla sua ombra sfuocata, che il figlio torna a riprendere forma. Se gli occhi sono le mani del volto, allora questo figlio è come vaso di argilla nelle mani del suo vasaio, che dopo essersi frantumato ora viene rimodellato (cfr. Ger 19, 10). Per tale motivo, quando la parabola dice che “il padre da lontano lo vide”, vuol dire “lo riconobbe”. L’amore ti fa riconoscere anche chi più non ti conosce.
La misericordia annulla le distanze e ti mette in attesa. Da lontano il padre lo vide. Le distanze non sono mai uguali, anche quando misurano lo stesso percorso. Non ci sono distanze per chi guarda con gli occhi del cuore, per chi lascia che il tempo batta dal lato di quella ferita provocata da chi, andando via, ha portato via con sé una parte di te. La misericordia è l’amore alla prova della libertà. Ma la libertà dell’uomo mette in attesa lo stesso Dio. L’attesa è rendere presente l’assente. Entrare nel tempo della sua lontananza. Nel suo ritardo e nel suo rifiuto a tornare. È vegliare sulla soglia della mancanza. Non è semplice nostalgia, ma nuova creazione. “L’attesa è un incantesimo” che rende prezioso ciò che manca. È patire il tempo in cui ciò che ami ritarda a venire. Ma nel ritardo l’amore lo sostiene come esistente anche quando non è evidente. L’amore fa esistere anche ciò che non c’è. Forza l’inesistente a venire fuori dalla forma del niente. È patire l’assenza oltre il puro dato della semplice presenza. L’attesa trafigge il tempo quando si chiude sul già dato, che si offre come puro disponibile. Non un patire che è un subire, ma un patire che è un agire soffrendo. È l’impotenza di determinare una libertà che sfugge ad ogni forma di necessità. L’attesa è il prezzo che paghi nel rincorrere la libertà altrui. In fondo, questo padre che attende, si comporta sempre meno da padre e molto più da madre, perché “la maternità è la grande figura dell’attesa” (M. Recalcati, Le mani della madre. Desiderio, fantasia ed eredità del materno, Feltrinelli, Milano 2015, p. 24). L’Attesa, scrive ancora Recalcati, non è “mai padrona di ciò che attende. Ogni vera attesa è, infatti, attraversata da un’incognita […] L’attesa scompagina il già conosciuto, il già saputo. Una quota di incertezza attraversa sempre l’attesa” (ivi, p. 25).
L’Attesa è veglia e preghiera. Esperienza di una trascendenza che rompe il circuito chiuso di qualsiasi forma di immanenza ripiegata su di sé. Essa apre a ciò che è fuori, ciò che è oltre. Attesa è lo spazio del dono che non ti aspetti e che pertanto ti sorprende. Qui la Trascendenza pura tratta l’immanenza come un’altra forma di Trascendenza. Dio, il Trascendente, trascende se stesso. La misericordia è la caduta di Do nella miseria umana. Con essa si contagia e con essa si sposa. In essa si incarna: “il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. (Gv 1, 14)
Misericordia come gratuità, tenerezza e fedeltà. La misericordia è la grammatica del cuore che contagia anche il corpo e la ragione. Non è fredda prestazione o cinico rimedio. Non è una strategia che usa il compromesso per ricucire legami di cui si sente semplicemente la mancanza, né una soluzione dettata da un’accorta diplomazia. A tutte queste pratiche manca la partecipazione empatica di chi deve perdonare e il dolore che esso comporta. Il perdono è ben altra cosa: è una perdita che ti fa entrare nella tua ferita per costruire un riparo a chi l’ha provocata.
Nel gesto del perdono ciò che conta non è il risultato, né l’intenzione, ma la vita in gioco che bisogna salvare: “Questo figlio era morto ed è tornato in vita” dirà il padre alla fine della parabola (Lc 15,32). La posta in gioco è l’altro da ritrovare. Non è una prestazione, o una funzione, o un ruolo, ma la vita in tutta la sua fragilità, in tutta la sua “nudità”, la “nuda vita” come direbbe Agamben, intesa come vita esclusa, fuori da ogni perimetro e forma di appartenenza. Non si perdona senza provare dolore, ma neanche senza che si provi amore. La ragione pensa, il cuore sente e il corpo vibra. Solo alcuni sentimenti – come la misericordia – riescono a unire questi tre registri in un’unica sinfonia. La misericordia è lasciarsi trascinare dalla miseria di chi ti sta di fronte e viverla come se fosse la tua. Sentire che il dolore che l’altro prova per il male commesso è più grande del tuo per il male ricevuto.
È lasciarsi coinvolgere da un appello che viene da lontano (Lèvinas), dalla vita che è sempre più grande di qualsiasi errore. La misericordia ti fa ripercorrere le tracce che l’altro ha lasciato nel grembo in cui lo hai ospitato. Dentro al tuo seno (réhèm), rimasto vuoto e segnato dalla sua partenza, ferito a causa della sua stessa nascita.
Come è noto ci sono tre parole per dire misericordia in ebraico: Hesed (Os 11,4) Hemet (Sal 89,2 e Ger 31,3) Rahamim (Is 49,15 e 54,10). Tutte e tre dicono che la misericordia è un amore che unisce in sé corpo, cuore e anima. Un atto totale, intero, che non lascia nulla fuori. Ogni lato della persona è coinvolto. Il vertice incontra l’abisso, ogni altezza raccoglie il fondo che la regge. C’è la hesed (nella versione greca dell’A. T. tradotto con Èléos) che indica fedeltà. Si riferisce ad un “amore immeritato”. Indica bontà originaria e costitutiva, l’amore sorgivo, puro e gratuito: l’amore paterno nel senso del “Dio è amore” (1Gv 4,8.16), che “ci ama per primo” (1Gv 4,19). Poi c’è “emet”, vocabolo che deriva dalla stessa radice delle parole come “aman” (fu sostenuto), “omnah” (solido) e “amon” (costruttore); essa indica solidità, qualcosa di stabile e sicuro a cui l’uomo può aggrapparsi senza pericolo. Infine c’è la radice rhm, la quale evoca il seno materno (réhèm), e il plurale rahamin descrive quel sentimento ricco di emotività che è l’amore materno inteso come tenerezza: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se ci fosse una madre che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, ti ho disegnato sul palmo delle mia mano” (Is. 49,15-16).
Misericordia è empatia. “Commosso gli corse incontro” (Lc 15, 20b) Quando ciò che vedi ti commuove, allora vuol dire che non vedi più solo con gli occhi ma vedi con il cuore. E il cuore vede cose che altri non vedono. Va oltre quello che si vede con i soli occhi. Disarma ogni sguardo legato alla fisicità di ciò che appare. Penetra dentro e sfora ogni misura, travalica ogni confine e tracima ogni argine eretto a difesa. La commozione è più che semplice emozione, è immedesimazione e compartecipazione. È empatia (Einfühlung), cioè un sentire-soffrire l’altro dentro, fino a fare tuo il dolore suo. L’empatia si ha quando il dolore incontra l’amore, dove l’amore doloroso si fa allo stesso tempo dolore amato. È movimento delle viscere che fa esplodere l’interiorità che non si sente più al riparo da nulla. È l’esultanza del grembo che si ridesta dal sonno e dal vuoto, per raccogliere colui che un tempo è stato portato dentro. Per questo riferimento al grembo e all’utero materno tale espressione è più adatta alle donne. Dio qui è presentato come padre e come madre.
La misericordia mette le ali ai piedi. C’è chi corre e chi semplicemente cammina. Chi invece comincia ad amare, smette di camminare e comincia a correre, a volare. La commozione rende agile il corpo e fa correre a perdifiato, fino a rischiare di inciampare. Commosso, il padre corre incontro al figlio il quale era andato via in fretta: “Dopo non molti giorni raccolte le sue cose, il figlio più giovane partì per un paese lontano” (Lc 15,13). Alla fretta del figlio di scappare via di casa, il padre oppone la fretta di abbracciarlo e di incontrarlo per riportarlo a casa. Oppone la fretta dell’amore alla fretta dell’incomprensione. La fragilità (dell’altro) non può aspettare, non conosce tempo. Mette fretta, perché quando la scopri è già troppo tardi. Aristotele diceva che le cose si muovono perché attratte da Dio, prese dal loro amore per Dio, dal fatto che tendono a Lui. Quello dei greci non è un Dio che ama, ma un Dio oggetto di amore. Il cristianesimo invece ci parla non di creature che si muovono verso Dio, che corrono verso di lui per amore, ma di un Dio che corre verso le creature, e che corre verso di loro per amore. Dall’eternità Dio è in corsa verso le creature, amandole.
Misericordia e corpo redento. “Gli si gettò al collo e lo baciò” (Lc 15,20b)Il padre va incontro al figlio da uomo ferito che però è capace di vedere in lui una ferita più grande. Questo fa l’amore: si lascia ferire per guarire la ferita di chi ancora non è capace di elevarsi alle sue altezze. È l’amore che si china per raccogliere e per elevarsi fino a raggiungere le parti alte del corpo ferito: il collo. Dove si getta il Padre? Si getta in una esistenza gettata (Heidegger), sprecata, dimenticata. Egli sa che sta per entrare nell’abisso del niente, nell’abbandono di chi si è abbandonato egli stesso. Guarda i suoi occhi rubati, assenti, persi. Il padre vede un giovane dallo sguardo spento, incapace di guardare in alto. Ha davanti a sé un ragazzo vestito di stracci e dal corpo piagato.
È un abbraccio totale. Indica protezione e sicurezza. È come se si tornasse nel grembo materno che ha fatto da involucro e nel quale per la prima volta siamo stati accolti, ospitati e inclusi. Quando ami l’altro ami tutto di lui. Lo prendi così com’è. Gesto che crea uno spazio sacro entro il quale l’altro trova riparo. Un corpo a corpo, dove il corpo che abbraccia è a sua volta abbracciato. Una tensione verso una unità che vuole essere totale.
“Lo baciò”. Il bacio è il sigillo dell’amore: “Mi baci con i baci della sua bocca! Sì, migliore del vino è il tuo amore” (Ct 1,1). È respiro del cuore dato con le labbra. Per baciare bisogna apporre la bocca sul corpo dell’amato. Il bacio riapre nella carne, chiusa dal peccato, la fessura attraverso cui far ripassare il respiro nuovo della vita ritrovata. Ci troviamo di fronte ad una nuova creazione: e il bacio è il primo gesto che l’annuncia. Col bacio ritorna l’alito divino che si insuffla nella polvere senza più vita. Con il bacio Dio ritorna ad alitare sulla carne ferita e persa di questo corpo che era caduto nella polvere del niente. Finisce la maledizione e il tempo dell’assenza. Il bacio è segno di benedizione come quello di Isacco che baciò Giacobbe (Gn 27,26-27). Il bacio è rito di consacrazione. Rende prezioso ciò che sfiora (cfr.1 Sam 10,1). Il bacio è celebrazione e adorazione. Una liturgia silenziosa che suggella un legame che si rafforza.
Con il bacio il padre, da un lato, riafferma la sua paternità negata, dall’altro, riammette il figlio nell’intimità della casa, nel circuito della familiarità sconfessata. Riconsacra il figlio azzerando tutte le distanze. Gli restituisce la dignità perduta, ridonandogli quel valore che lo rende di nuovo prezioso ai suoi occhi. Il bacio del perdono riconcilia questo figlio anche con il proprio corpo. Mette pace dentro e fuori, riapre la comunicazione e intensifica la relazione. Il padre bacia il figlio prima che cominci a parlare. In tal modo è già oltre tutto quello che il figlio potrà dire o fare. Lo ha sorpreso e spiazzato. Lo ha superato e trasceso.
La misura dell’amore è ben oltre il verificabile e l’esperibile. Suscita stupore ma anche, a volte, spaesamento e sconfinamento. Al figlio non resta che l’abbandono. Un abbandono che ora sa di dono. Ora il corpo del figlio riprende forma e ritrova la sacramentalità perduta. Torna ad essere tempio (cfr. 1 Cr 6,19) in cui tornare ad abitare con dignità. Non è più pura immanenza, ma via che fa esperire di nuovo la trascendenza dimenticata. Tra le braccia del padre e, grazie al sigillo del bacio, il corpo ritrova la propria unità, raccoglie i propri frammenti e la sua fragilità viene rivestita della forza della Grazia.
La misericordia redime il linguaggio. Ritorna il dialogo. E il dialogo non comincia da chi parla, ma da chi sa ascoltare. Dopo anni di silenzio il figlio ritorna a parlare. Parla perché c’è qualcuno che ora lo ascolta. È l’orecchio del padre che accoglie la parola del figlio, il quale sentendosi accolto si raccoglie di nuovo tra le braccia del padre. Egli non si parla più addosso. Non è più autoreferenziale. Il suo dire è un primo modo con cui fa esperienza di una nuova forma del dare. Dicendo si affida e si consegna, si rimette alla volontà del padre che già gli ha donato l’abbraccio e il bacio. Generato da questi due gesti ora comincia a generare parole nuove. Donando la parola, il figlio comincia a sentirsi in debito con l’amore. Dona la parola a colui che gli ha dato la parola e che mai gliel’ha tolta; si consegna a colui che lo ha ascoltato nel tempo del rifiuto, che si è fatto negare e quasi cancellare. La parola nuova che ritrova non è più come la prima, fatta di arroganza e di presunzione tipica di chi pensava di avere ragione, ma la parola capace di far sposare il silenzio dell’invocazione con la consapevolezza della deiezione.
La misericordia: un mantello per la nudità. “Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi” (Lc 15,22). Si può rivestire il niente? Si può ridare bellezza a chi la bellezza, calpestandola, l’ha perduta? Solo colui che della bellezza è custode può ridarla a chi l’ha smarrita. Il vestito da portare non è quello vecchio che il figlio ha lasciato a casa. Ci vuole un vestito nuovo. Il vestito non solo copre e riscalda, ma conferisce dignità, mi restituisce un luogo in cui nel mio intimo posso stare con me stesso. Il vestito mi nasconde da occhi indiscreti, mi sottrae ad ogni forma di estraneità, mi dona un luogo in cui ritirarmi, mi offre un rifugio in cui trovare riparo. Il padre, rivestendo, il figlio lo ricopre e lo riscalda, gli ridona intimità e spessore, gli restituisce lo spazio della sua interiorità.
La Bibbia è ricca di situazioni di nudità. Il figlio minore le rappresenta tutte e le ricapitola tutte insieme nella sua condizione di uomo denudato e spogliato. C’è la nudità di Adamo che viene rivestito dopo che si è scoperto nudo: “Adamo dove sei? […] chi ti ha fatto sapere che eri nudo?” (Gn 3,9.11). Poi c’è la nudità del popolo che viene paragonato ad una bambina che appena nata viene gettata in aperta campagna: “Passai vicino a te e ti vidi. Ecco: la tua età era l’età dell’amore. Io stesi il lembo del mio mantello su di te e coprii la tua nudità” (Ez 16,8).
La dignità ritrovata. I calzari ai piedi. La vestizione continua e arriva fino a coprire anche i piedi. Dal collo ai piedi: tutto l’uomo è ritrovato. Torna l’uomo. Altro che postumano! Altro che “morte dell’uomo” preannunciata da Foucault! I sandali sono lo strumento del cammino. Fino ad ora ha camminato scalzo e nudo. Depauperato e solo. I piedi nudi sono segno della fragilità umana esposta alle intemperie del terreno. Ai fondamenti venuti meno. Mettere i sandali ai piedi del figlio equivale a restituirgli la libertà totale su tutta quanta la proprietà sperperata. Gli viene restituita la dignità totale. È pienamente reintegrato e ora potrà camminare da uomo libero al fianco del padre, amato più di prima. Questo figlio. lontano dal porcile dove invidiava i porci perché avevano le carrube da mangiare, ora può di nuovo tornare a celebrare la grandezza dell’uomo evocata dal Salmo 8: “che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi? Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi; tutti i greggi e gli armenti, tutte le bestie della campagna; Gli uccelli del cielo e i pesci del mare, che percorrono le vie del mare” (Sal 8,5-9)
Misericordia: oltre i legami liquidi. “Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa” (Lc 15,23) La misericordia ci fa risposare chi non meritava di essere amato. Ricuce i legami sfilacciati della paternità, della figliolanza e della fraternità. E lo fa con il linguaggio della sponsalità. Ma non c’è sposalizio senza banchetto, la mensa dell’abbondanza che ricuce la figliolanza in un’appartenenza suggellata dai beni messianici. La mensa unisce i membri della famiglia in un crocevia di reciproche relazioni verticali ed orizzontali. Luogo dove la sponsalità rivela tutta la sua fecondità, dove la paternità è riconosciuta, la figliolanza è accolta e la fraternità rinsaldata: “La tua sposa come vite feconda nell’intimità della tua casa; i tuoi figli come virgulti d’ulivo intorno alla tua mensa” (Sal 128,3). “Ecco, com’è bello e com’è dolce che i fratelli vivano insieme!” (Sal 133,1). La tavola è il luogo dove gli affetti si consolidano, dove ci si scambiano le parole calde dell’amore, dove il pane spezzato unisce le differenze nel rispetto e nella festosa convivialità.
E quando il fratello maggiore si rifiuta di accettare il fratello minore che è tornato e di entrare in casa per partecipare alla festa, il padre è come se gli dicesse: “I legami miei sono anche i tuoi. Questo che tu chiami ‘mio figlio’ in fondo è anche ‘tuo fratello’. È ‘mio’ ed è ‘tuo’. Non separare ciò che io ho unito. Se vuoi essere davvero con me devi condividere anche il dolore per questo figlio perso e la gioia che ora provo per averlo ritrovato. Ti ho reso suo custode. Avresti dovuto vegliare su di lui. Ho messo la sua vita nelle tue mani. Non separare mai figliolanza e fraternità altrimenti laceri la mia paternità. Egli è il tuo prossimo: approssimati a lui”.
E così la misericordia si fa prossimità. Legame sociale, linfa e via per ricostruire lo spazio leso della comunità.
ENDOXA - BIMESTRALE MITO STORIA DELLE IDEE TEOLOGIA Bauman dialogo Endoxa fedeltà gratuità Heidegger Luhmann Lyotard misericordia Nietzsche novembre 2016 Pasolini Recalcati Ricoeur tenerezza
Ciao Michele…. complimenti!
Come sempre rigoroso e comprensibile….
pz
"Mi piace""Mi piace"