IL CACASOTTO
PEE GEE DANIEL

La paura è un istinto primario, fin qui non ci piove. Come tale resta incancellabile, irrefutabile, indispensabile alla sopravvivenza dell’individuo.
Chi la vince non per questo la sopprime, semplicemente la supera (occasionalmente, e mai una volta per tutte).
Nei nostri ancestri doveva essere giocoforza ben più allenata che in noi: ai tempi in cui si gironzolava tutti avvoltolati dentro pellicce mal scuoiate e ancora sgocciolanti di conciatura, portata a termine a punta di chopper, frammenti di osso appesi al collo e una lunga pertica con una selce aguzza legata in cima alla bell’e meglio, gli sguardi scimmiati dei nostri progenitori (riparati dai fitti monocigli aggrottati sotto quelle loro fronti che si estendevano non più di un dito fino all’attaccatura dei capelli irsuti) dovevano ravvivarsi del più febbrile timor panico a ogni scricchiolio, latrato o apparente rumore di fauci dischiuse.
Doveva bastare un nonnulla per far battere i loro denti guasti, far fare giacomo giacomo alle loro gambe tozze e stortignaccole, portar loro un atterrente tuffo al cuore, farli tempestivamente attestare a difesa o approntarli a un rapido fugone, in balia quali erano di una moltitudine di agenti atmosferici, belve feroci, cedimenti strutturali delle palafitte, ammazzamenti eseguiti nottetempo da qualche avversario intenzionato a occupare il villaggio (per non parlare poi di quelli fatti in casa: tra fratricidi, uxoricidi e infanticidi a ogni piè sospinto).
La morte violenta era all’ordine del giorno. È per questo – spiegava già quel vecchio trombone di Hobbes – che si giunse a un corpo sociale sempre meglio organizzato e tutelato legalmente: fu il timore dell’uomo di morire male, in ogni momento della sua corta e tribolata esistenza a suscitare una convivenza civile (ben più di quell’innata socievolezza attribuitaci dall’ottimismo greco).
Del resto la nostra è, tra tutte quante, la schiatta più indifesa (almeno in partenza): la radiazione evolutiva ha scelto per noialtri la stazione eretta, il pollice opponibile, la sempre maggiore irrilevanza dell’apparato istintivo e il progressivo infiacchimento di ogni predisposizione fisica all’autodifesa a favore del tanto decantato dono di una supposta intelligenza superiore, che dovrebbe rivelarsi capace di sopperire a qualsivoglia mancanza naturale.
Questo nostro cervello ipertrofico ha permesso di progettare e costituire accozzaglie di casamenti e poi villaggi e città e megalopoli via via sempre più deprivate delle antiche insidie.
È difficile al giorno d’oggi uscire tutti trullini dai propri condomini e imbattersi in una tigre dai denti a sciabola pronta a papparci in un sol boccone o rimanere sfrittellati dallo zampone peloso di un mammut in fuga.
Eppure… rimane tra noi un numero tutt’altro che esiguo – in certi periodi storici poi addirittura in crescita geometrica – che mostra tutti i retaggi di epoche ormai sepolte dai catrami ribollenti della storia. Un tipo umano che si spaurisce per un’inezia; il più delle volte per dei pericoli in larga misura immaginari.
Costui è quello che qui designeremo come il cacasotto e che andremo di seguito a dettagliare quanto più approfonditamente, considerandolo un soggetto per certi versi dominante nonché particolarmente rappresentativo del milieu culturale e storico entro cui le nostre esistenze si vedono a ora circoscritte.
Dicevamo che il cacasotto è dominante. E questo è già un paradosso della modernità, che è arrivata a un tal grado di curatela e di protezione dei più deboli (che in precedenti contesti avremmo invece visto soccombere come fantolini malnati verticalizzati giù dallo spartano monte Taigeto) da lasciare che essi prosperino placidamente, pur continuando per assurdo a nutrire le loro fisime, perlopiù ingiustificate.
Il cacasotto è colui che, senza un fondato motivo, vive in un continuo stato di strizza, sempre pronta a voltarsi in un più violento accesso di cacarella vera e propria al menomo accenno di minaccia, spesso fantasticata più che aderente alla realtà dei fatti.
È a tal punto soggiogato da fobie e paranoie che sembra quasi goderne. Dà quasi l’idea di crogiolarcisi: quando si sente troppo tranquillo non gli par vero e allora cerca ogni appiglio capace di fomentargli di dentro quel perenne turbamento, o stato ansiogeno, con cui convive da così lungo tempo da crederlo ormai l’unica condizione di vita normale e dunque, in qualche modo, confortante. Accende la tivvì, va in cerca dei notiziari più sensazionalistici, si beve stragi e mattanze e le fa sue. Assiste al conteggio delle vittime e si sente lui la prossima.
Apprende che un kamikaze si è fatto esplodere nella piazza principale di Damasco e subito decide di non andare più a prendere il giornale dall’edicola nella piazzetta di Valdiguggio sul Brandigone, dove vive insieme ad altre ottocentotredici anime, per non rischiare. Ascolta di tutte quelle banche che falliscono svaporando i risparmi di tanti piccoli investitori e decide di ritirare tutto ciò che tiene sul conto (duemilaottanta euro e ventun centesimi) per tesaurizzarlo sotto il materasso, e però subito dopo, come a farglielo apposta, ecco il servizio sulla gang di albanesi che, imbottiti di cocaina, entrano nelle ville isolate e le svaligiano coi residenti dentro, in seguito seviziati per puro diletto. Fa niente che lui abiti in un bilocale al quarto piano di una palazzina che si erge al centro del quartiere-dormitorio più popoloso della metropoli: si sente lo stesso insidiato, lo assale una fifa blu, dal timore perde la saliva dalla bocca: maledetti albanesi, che non vedono l’ora di sgozzarlo per scippargli i suoi 2mila bigliettoni e rotti! Chi li avrà mai fatti entrare in codesta dannata nazione?! Ascolta alla radio di un tornado che si succhia via mezza costa del Pacifico e si chiude in casa per tema che arrivi dritto dritto sin lì da lui in Brianza. Se afferra la notizia di un’ape-killer grossa un pugno che ronza nel centro del centro dell’Amazzonia, per tutta l’estate evita di andare alla piscina comunale dove – ne è certo – verrebbe bersagliato dal letale pungiglione.
È la fortuna dei serramentisti: fa di quel bugigattolo dentro cui è rintanato un fortino catafratto e inaccessibile. Chiavarde, lucchetti, spranghe in carbonio, porte-blindo, serrature a quadrupla mandata, telecamere a circuito chiuso, relativa app sullo smartphone per controllare in diretta stanza per stanza anche quando scende giù a portare la differenziata, finestre allarmate, antifurto a sirena bitonale, cassaforte con sistema gasogeno. Per la botola coi piranha si sta attrezzando.
Gli basta un niente per essere subito sul chi-va-là. Il cacasotto è simile a quei cani che si prendon paura dalle loro stesse flatulenze e a un certo punto li vedi scappar via, messi in fuga dalla salva di peti generata dai loro stessi magri culi che però essi, per difetto cognitivo, misconoscono.
Sono i fantasmi che si agitano incatenati nella sua mente a terrorizzarlo e tenerlo in un perpetuo stato di inquietudine, ben più di ciò che potrebbero fare gli ectoplasmi lenzuolati che infestano i corridoi semibui delle tenute scozzesi.
Egli – non meno del mitico schiavo platonico – permane tuttora mentalmente intrappolato in seno a quella caverna irta di azzardi e agguati che l’umanità ha abbandonato senza rimpianti ai tempi del neolitico.
Un antro zeppo per di più di iscrizioni parietali agitate da ombre e babau (al posto delle solite scene di caccia al cervo) licenziati dalle parti più riposte del tremulo animo di chi lo abita. Ogni piccolo cambiamento, ogni impercettibile variazione non preventivata, anche il più timido imprevisto possono rappresentare per il tapino un’inesauribile fonte di stress.
Ecco perché il cacasotto è non di rado un precisino: mente quadrata, nessuna elasticità, anzi, la necessità primaria che tutto corrisponda a uno schema precostituito, senza possibilità di deroghe. È un conato di controllo a spingerlo: tutto deve essere prevedibile, piatto, noiosissimo, refrattario a sorprese e improvvisate di sorta, giacché solo un ambiente inamovibile e una catena d’eventi calcolati e organizzati con precisione lo fanno dormire in pace.
L’ordine è indispensabile. “Tutto al suo posto!” è il suo grido di battaglia. Fuori da esso non vi è che corruzione e disfacimento. Il sapone nel portasapone, lo spazzolino da denti nel portaspazzolino, il dentifricio strizzato dal fondo alla cima, le scarpe nella scarpiera, le penne nel portapenne, l’utilitaria nel box-auto, gli ombrelli nel portaombrelli, gli abiti sull’appendiabiti, i piatti incolonnati nel mobiletto in alto a destra, i cibi a lunga conservazione dentro la madia attaccata alla finestra, le scope nel ripostiglio, i libri inscaffalati in libreria (magari accostati seconda la tonalità di colori del bordo). Così da contrastare, nel suo piccolo, l’entropia generale, il caos primigenio, la dissolutezza dell’essere.
Al pari di un gnostico antico egli, più o meno segretamente, odia l’universo mondo. Non già come il misantropo che lo schifa e trova il commercio coi proipr simili pesante e privo di stimoli. Anzi, al contrario, il cacasotto vede lo scambio con gli altri, nonché con tutto ciò che è altro da sé, come un’esposizione continua al veneficio dell’esistenza. Il mondo è un colossale trabocchetto sempre pronto a mettere a repentaglio o a tirare brutti scherzi a chi ha la sventura di viverci.
La città ideale del cacasotto è precisa identica a quella tela urbinate dipinta da mano ignota, che rappresenta uno scorcio urbano spoglio, vuoto, disabitato, metafisico, ameno, lindo e pinto. Geometrie esanimi, senza schiamazzi, senza mocciosi a giocare al pallone e spaccare finestre, senza vicini di tranvai sempre lieti di sbirciarti il giornale che tu hai acquistato e pagato, senza barboni a intralciarti il cammino coi loro corpi distesi e fetenti, senza zingaracci a stenderti la mano sotto il naso per campare a spese tue, senza stupide vecchie dietro alle quali dover mettersi in coda all’ufficio postale, senza animali molesti, senza rumori né mali odori né manacce zozze da stringere per le idiote formalità sociali, senza germi.
Eh sì, perché il vero cacasotto è anche uno strenuo igienista. Se teme il macroscopico meteorite che da un momento all’altro potrebbe piovergli sul tetto di casa, altrettanto trepida per ciò che microbi e bacilli sarebbero buoni a procurargli; e anche qui fino al parossismo…
Lava, deterge, forbisce, monda, netta, sterilizza, pulisce, spolvera, rigoverna, lucida a cera, candeggia, lustra, spazzola, smacchia, scopa, ramazza, va di olio di gomito, strofina fino all’abrasione, neutralizza lo sporco, sgrassa, insapona e risciacqua, rassetta senza posa.
Passiamo agli esempi: deve mangiarsi una semplice mela? Che il pomo provenga rigorosamente da agricoltura biologica confermata e vidimata dagli organi preposti, che venga messa a bagno in un composto d’acqua distillata e bicarbonato ben bilanciati, così a lungo da sfiorare la completa dissoluzione del frutto nel liquido disinfettante. Il recipiente dovrà essere stato reso opportunamente asettico tramite l’uso di un apposito aggeggio pastorizzatore da inserire nel forno a microonde previamente tirato a lucido con l’impiego di succo di limone ovvero aceto onde eliminarne la benché minima traccia di nequizie. L’aggeggio atto alla pastorizzazione domestica sarà stato separato per tempo in tutte le sue componenti, le quali saranno state dunque introdotte nella lavastoviglie per un ciclo di lavaggio intensivo a 70° + prelavaggio. La lavastoviglie a sua volta sarà stata prima resa brillante grazie a un attento repulisti e così via e così via, in una regressio ad infinitum da paranoide in odore di trattamento sanitario obbligatorio. E il tutto poi con il solo scopo di impedire che anche un’infinitesima parte di quel paventato mondo esterno violi la sua privacy per attentare alla sua integrità psico-fisica sotto forma di quei suoi rappresentanti minuscoli e perciò ancor più infidi che sono microrganismi e batteri.
Poi magari però aborre i vaccini, fattosi convinto che essi non servano a contrastare virulenti agenti patogeni, bensì a veicolare, sotto sotto, autismo o altri brutti morbi per tutta la società civile (con quale segreto quanto malvagio fine è ancora tutto da intendersi).
Sì perché il cacasotto, per sua indole, tende anche al complottismo, vittima di una gigantesca psicosi che lo porta a credere che dietro ogni manifestazione naturale, ogni decisione di carattere politico-burocratico-amministrativo, ogni riunione della classe dell’istituto magistrale dell”82 si celi un disegno oscuro e machiavellico concepito a detrimento della comunità e, stringi stringi, di lui – povero meschinetto, contrassegnato dal più assoluto anonimato e dal disinteresse generale – in prima persona!
Per lui vocaboli quali omofobo, xenofobo e tutti gli altri che portino il suffisso inerente alla fobia sono i più pertinenti.
Infatti, per capirci, egli non è un razzista, almeno non nel senso più tradizionale del termine: la superiorità della razza d’appartenenza sulle altre non è problema suo. Non ha tempo di teorizzare sciovinismi strutturati, lambiccandosi su specchiate qualità di ingegno e morale possedute da certi umani e sconosciute agli altri: la fifa lo tallona, deve essere pratico…
Lui sa solo che là fuori c’è il diverso, e questo lo sprofonda in un inarrestabile, costante stato di tremarella. Un fottio di terroni, bingobongo, mangiapatate, musi gialli, zingari, figli di Allah che vengon qui a scombussolare tutto. Arrivano coi loro couscous e i loro kebab a rovinarci la dieta mediterranea. Una masnada di disperati, delinquenti, stupratori che riescono nella doppia contraddittoria impresa di rubarci il lavoro e stabilirsi qui a far niente e finire per rapinarci anche gli slippini.
Non per nulla Teofrasto, all’interno del suo trattato sui caratteri umani, accosta argutamente la vigliaccheria (ἡ δειλία) al conservatorismo (più precisamente, nel suo caso, alla nostalgia verso i passati regimi oligarchici), perché il cacasotto è oltretutto ciò che la pedanteria classica definirebbe un laudator temporis acti, ossia uno che i tempi che furono sono sempre i meglio, che si stava meglio quando si stava peggio, che ah ma quando c’era Lui…
Più per fatuo idealismo che per effettiva conoscenza storiografica: egli fantastica di beati trascorsi dell’umano consorzio in cui tutti gli aspetti socio-politici, interpersonali, lavorativi fossero inquadrati e regolati a pennello. Favoleggia in cuor suo di periodi neanche troppo risalenti nel tempo durante i quali non vi fosse ombra di delinquenza o di disordini né tanto meno di disoccupazione e pena di vivere. Nei momenti più trasognati giunge al punto di ricreare a suo proprio piacimento un’antichità, del tutto presunta dai pochi fumosi dati a sua disposizione, dentro la quale avrebbe potuto sguazzare felice e intonso, in una specie di limbo privo di mali, malanni, malori e avversità di qualsivoglia genere. Nemmeno immaginandosi – anima bella qual è – che invece non è poi molto che si crepava la vita a vent’anni d’età anche solo per via d’una carie mal curata.
La decompressione psicologica del cacasotto avviene quasi esclusivamente in sede elettorale. Timoroso com’è per costituzione personale, difficilmente si adopera in prima persona a combattere quel che teme: predilige perciò affidarsi a chi gli promette di pensarci al posto suo.
Consegna le proprie sorti nelle mani lisce e fresche di manicure di chi gli assicura, con tono di voce sufficientemente altisonante, un futuro di ruspe, gogne di piazza, ronde armate, castrazioni chimiche, carcere duro e, se tutto va bene, sedie elettriche ad alto voltaggio per chiunque trasgredisca anche di poco le severe leggi che codesto politicante si ripromette di imporre – incurante dello stato di diritto corrente – una volta creato premier.
Poco importa che costui capeggi una forza politica alternativa e protestataria che in verità, quando per decenni ha stretto il bastone del comando tra i propri palmi, si è guardata bene dal cambiare checché, ben conscia che le molte malversazioni nazionali sarebbero tornate poi utilissime una volta ripiombati tra le fila dell’opposizione, così da poterle imputare per allora, con la più bella faccia di bronzo in circolazione, ai governanti attualmente in carica, e ritornare a furor di popolo ancora una volta in auge. L’importante resta invece che il candidato sia capace di convincere l’elettore che prima o poi saprà restituirgli quel reame incantato, libero da profughi, delinquenti e crisi economiche, che non è mai davvero esistito ma la cui idea il nostro cacasotto ha così spesse volte coccolato nel proprio animo tremebondo da ritenerlo ormai alla stregua di una leibniziana verità di ragione.
ENDOXA - BIMESTRALE NARRATIVA cacasotto marzo 2017 paura Teofrasto
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