PREDAZIONE, SESSUALITÀ, SOCIALITÀ
VOLFANGO LUSETTI

Per poter parlare dell’amore è necessario parlare della sessualità, e farlo in una maniera contro-intuitiva che a taluni risulterà deludente se non provocatoria. Infatti, per potere davvero afferrare l’essenza dell’amore occorre anzitutto coglierne il significato biologico: tuttavia a questo fine occorre esaminare non solo gli aspetti meno romantici ed edificanti di questo sentimento, ma anche i lati più negletti di quella sessualità umana che, lo si voglia o no, dell’amore è alla base. Ora la sessualità, in una specie così psichicizzata e comunicativa come la nostra, rappresenta anzitutto un potentissimo canale di rapporto “globale” con l’altro: esso non si limita allo scambio fra strutture biologiche diverse con mere finalità riproduttive, poiché in questo caso, come in tutti gli altri animali sessuati, sarebbe circoscritto alle gonadi dei partner e a porzioni ristrettissime del loro comportamento; nell’uomo invece, il rapporto di scambio promosso dalla sessualità non solo si verifica fra individui molto complessi i quali ne vengono presi nella loro totalità psichica e comportamentale, ma occupa larga parte della vita individuale (l’uomo è l’unico animale dotato di sessualità perenne), e per di più intercorre fra individui parlanti un linguaggio simbolico, che in quanto tali usano codici di comunicazione riferentisi ad una realtà che essi aspirano a cogliere, per via simbolica, nella sua totalità. Di più, all’interno di ciascun individuo e di ciascun codice comunicativo, il rapporto di scambio si instaura anche fra istinti differenti e contrapposti, quali l’istinto predatorio e l’istinto sociale: ora, il punto è che sono proprio questi due istinti, negli esseri umani, a servirsi della sessualità perenne, ed essi lo fanno alla stregua d’un “binario” rigido ma allo stesso tempo destrutturante, il quale li costringe, per la prima volta in natura, ad incontrarsi ed a modificarsi fra di loro, quindi, trasformandosi in senso simbolico, a rappresentare l’intera realtà. E infatti, come vedremo, proprio nella nostra specie e non in altre predazione e socialità, nel loro confliggere, tendono a mescolarsi ed a tramutarsi in quelle formazioni post-istintuali, plastiche ed in larga parte culturali che ci caratterizzano in quanto esseri umani e che ci differenziano dagli altri animali.
Un esempio della dialettica istintuale fra predazione e socialità promossa dalla sessualità umana è costituito dalle Perversioni sessuali e dalle Psicopatie criminali. Si tratta di due fenomeni caratterizzati da una mescolanza, anzi da un vero e proprio impasto, di predazione e di socialità, seppure con diverse prevalenze: nelle Psicopatie criminali prevale la predazione e nelle Perversioni sessuali prevale la socialità, anche se la pedofilia, nel suo collocarsi a metà strada fra le due categorie, conferma come esse siano apparentate.
Cominciando dalle Perversioni sessuali, esse sono un caso davvero paradigmatico di mescolanza di predazione e socialità e di prevalenza della socialità, o di infiltrazione predatoria in una socialità che resta pur sempre tale e che finisce per neutralizzarla. Le Perversioni, visibili anche in molti comportamenti sessuali non finalizzati alla riproduzione diffusi nel regno animale a scopi auto-difensivi, rappresentano essenzialmente una tecnica di socializzazione e di ammansimento rituale della predazione per mezzo della sessualità: questo aspetto pacificante, socializzante ed anti-predatorio, è particolarmente evidente nel sado-masochismo e nella pedofilia, ove aspetti predatori evidenti vengono domati dalla sessualità; tuttavia lo è anche in altre innumerevoli forme di perversione umana: travestitismo, feticismo, voyeurismo/esibizionismo, necrofilia, e se si osa fare un’incursione al di fuori del “politically correct”, transessualismo su base non organica e omosessualità, sono forme di comportamento sessuale basate sul patteggiamento sessuale con un predatore occulto ma ben presente, a livello fantasmatico. In questa sede non è possibile soffermarsi su ciò; basti dire che un insigne studioso della materia, R. J. Stoller, in “Perversioni”, ed. Feltrinelli, 1978, significativamente le definisce già nel sottotitolo “La forma erotica dell’odio”.
Quanto alla presenza della socialità nelle Psicopatie, essa a prima vista è un po’ meno intuitiva; tuttavia diviene evidente, come ben sanno gli psichiatri forensi (cfr. Bruno F., Ohanian L., “Stalking, cronaca di un abuso”, Curcio, 2010, oppure Mastronardi V., De Luca R., “I serial killer”, ed. Newton Compton 2011.), ove si consideri che parte essenziale del comportamento psicopatico-predatorio è la seduzione preliminare dell’altro: una seduzione giocosa, sessualizzata e sociale, accompagnata da un influenzamento della vittima ugualmente socializzante e condotto dal predatore per suggestionarla, prima di assoggettarla o distruggerla.
In definitiva, si può dire che mentre nelle Perversioni sessuali la socialità consegue effettivamente il fine di arginare e circoscrivere la predazione, nelle Psicopatie criminali finisce al contrario per veicolarla.
Ora, il punto che ci interessa in relazione al tema dell’amore, è che questa mescolanza di socialità e predazione, sia nelle Perversioni sessuali che nelle Psicopatie criminali, si produce tramite lo “stampo” di quella sessualità che dell’amore costituisce la base biologica. La sessualità infatti, non solo in virtù del piacere che veicola, ma anche del suo potere destrutturante su altri istinti nonché di abbassamento delle difese, rappresenta un potente strumento di ammansimento della predazione, ed al contempo un battistrada per l’invasione predatoria del soggetto: ciò al punto che le forme psicopatologiche perverse possono essere viste nei termini di un patteggiamento sessualizzato fra predatore e vittima condotto al fine di preservare la vita di quest’ultima. Quanto poi alle Psicopatie criminali, l’esempio della Pedofilia quale via di mezzo fra Perversioni sessuali e Psicopatie criminali appare particolarmente appropriato per comprendere il ruolo che anche in queste ultime gioca la sessualità: e infatti, in moltissime Psicopatie criminali “pure” la sessualità funge da innesco della seduzione e della socializzazione della vittima al fine di assoggettarla e di depredarla. Attraverso la sessualità, dunque, transitano impulsi ad aprirsi ed a socializzare con l’altro, ma anche a lasciare campo libero all’invasione di elementi predatori. Più in generale poi, tramite il varco seduttivo aperto dalla sessualità, e in particolare da una sessualità perenne quale quella umana, possono giungere al soggetto elementi tossici ed escretori, aggressivi e predatori d’ogni tipo: e qui non ci si riferisce solo a quegli aspetti predatori che sono così ingenti da generare reazioni sessuali perverse, ma a tutti gli aspetti potenzialmente tossici, e comunque estranei, che la sessualità veicola a livello sub-liminare, in quanto induce i protagonisti dell’incontro ad abbassare le difese. Per un altro verso, poi, possono giungere al soggetto elementi anti-predatori, pacificatori e sociali i quali sembrano modellarsi sullo stampo delle ben note proprietà pacificanti e socializzanti della sessualità e che ne implementano potentemente l’“io sociale”, donde l’idea dell’amore. Aspetti istintuali o para-istintuali predatori e bisognosi di contro-bilanciamento sessuale e/o sociale possono poi provenire anche dall’interno del soggetto. A riprova, infine, di quanto complesso ed in gran aperte occulto e indecifrabile sia lo scambio biologico e mentale che transita attraverso la sessualità umana, è la comune esperienza che talora, anziché pacificati e alleggeriti dall’atto sessuale, i partner ne escono stremati ed irritati, gelosi e più paranoici che mai.
Ma c’è ancora un punto fondamentale da considerare: questa funzione di tramite che la sessualità umana sembra possedere verso la predazione e la socialità, quindi di promozione del loro reciproco incontrarsi, modificarsi e compensarsi reciprocamente, è tale da far sospettare che l’essere la sessualità divenuta perenne e fortemente implementata proprio nella nostra specie e non in altre, sia stato causato dell’esigenza di controbilanciare un fattore predatorio che era divenuto a sua volta particolarmente pericoloso in quanto si esplicava all’interno della specie stessa (forse una forma di cannibalismo, o semplicemente di predazione finalizzata alla riproduzione?). Questo sospetto, per la verità, è venuto assai prima che a chi scrive ad una illustre primatologa, Sarah Hrdy, la quale aveva osservato in alcuni primati maschi un comportamento fortemente aggressivo e predatorio verso i piccoli di femmine a loro estranee, al semplice scopo di liberarle dalla prole che le impacciava e di renderle così disponibili al coito. La studiosa, dunque, aveva dedotto da tale comportamento la possibilità che la misteriosa abolizione nella nostra specie dell’estro femminile, e di conseguenza l’insorgere in essa di una sessualità perenne (ovvero, di una perenne disponibilità sia femminile che maschile al coito), fossero derivati dalla presenza nei nostri progenitori maschi di una attitudine predatoria primaria nei confronti dei piccoli. La Hrdy dunque, ipotizzò che la sessualità perenne, all’origine, non fosse stata altro che una “moneta di scambio” con la quale la femmina umana, visto il pericolo mortale corso dai suoi piccoli ad opera di erratici maschi predatori, avrebbe tentato di rabbonire questi ultimi scambiando con loro “sesso-contro-carne” (cfr. la stessa autrice in “istinto materno fra natura e cultura”, ed. Sperling & Kupfer, 2001). E del resto, esistono dati di etologia animale e di filogenesi umana che sembrano avvalorare l’ipotesi della Hardy, e sono quelli inerenti la correlazione generale esistente in natura fra comportamenti aggressivi e letali verso i piccoli e crescita della loro dipendenza dagli adulti nonché della correlativa encefalizzazione: ciò in quanto la dipendenza è vantaggiosa per la protezione dei piccoli dalla predazione e quindi per la loro sopravvivenza, e forse produce come effetto collaterale incidentale ma decisivo anche l’aumento dell’encefalizzazione. Ora, come ben si sa, per coincidenza la nostra è una delle specie in cui i piccoli sono più a lungo dipendenti dagli adulti, ed è anche in assoluto la più sessualizzata nonché quella che più si sviluppa sul piano encefalico al di fuori dell’utero materno (si veda a quest’ultimo proposito il concetto di “neotenia” in Bolk L., “Il problema dell’ominazione”, ed. Derive Approdi, 2006). Perciò si potrebbe ipotizzare che non sia tanto la complessità dell’essere umano a rendere peculiare ed iper-implementata la sua sessualità, ma che sia stata la sua estrema sessualizzazione, conseguita forse sotto la spinta di un fattore predatorio, a rendere complesso e assai encefalizzato l’essere umano.
Al di là di queste affascinanti speculazioni, comunque, occorre ribadire che una caratteristica oggettiva della sessualità umana perenne è il suo andare molto oltre la riproduzione: essa infatti, affinché un incontro sessuale così impegnativo e continuativo si renda possibile, deve possedere la capacità di armonizzare fra loro individui complessi quali noi siamo, quindi di mescolare in essi sfere istintuali molto diverse, come quella predatoria e sociale, che in altre specie non dotate di una sessualità perenne, non entrano mai in un rapporto reciproco così stretto (la predazione, ordinariamente, è rivolta alle altre specie e la socialità alla propria, ma in una specie, come quella umana, che interagisce così continuativamente al proprio interno in ragione della sua prolungata vita sessuale, la predazione non può ad un certo punto non rivolgersi alla propria stessa specie e chiamare in causa la socialità quale contro-bilanciamento). Entrambi questi due elementi istintuali poi, nell’incontro sessuale provengono sia dall’interno che dall’esterno, ovvero dal proprio Sé e dall’altro-da-sé, ovvero dal partner e dalla potenziale fonte di pericolo che quest’ultimo rappresenta: un pericolo che in un rapporto sessuale continuativo come quello innescato dalla sessualità perenne può divenire assai rilevante. Ma proprio in virtù di questo loro rappresentare, attraverso il modellarsi sulla sessualità, l’intero rapporto con la realtà, gli istinti predatorio e sociale prendono a veicolare l’intero mondo, sia interiore che esterno, e quest’ultimo transita proprio attraverso la partnership sessuale. E’ l’incontro con l’altro e la sua caratteristica “globalità”, dunque, ciò che nella nostra specie rende fatale il convogliarsi, attraverso di esso, dei più svariati aspetti della realtà.
Ora, questa capacità della sessualità umana, e con essa del rapporto con l’altro, di “far da battistrada” al rapporto con il mondo mobilitando ed intrecciando predazione e socialità, oltre a spiegare l’estrema mentalizzazione dell’uomo e fornire delle possibili basi oggettive alla teoria freudiana della cultura come “eros sublimato”, spiega anche la tendenza umana a vedere la morte paranoicamente, ossia come risultato non già del caso o delle leggi della natura, bensì della “cattiva volontà” di qualcuno. A controprova di come attraverso la sessualità all’uomo giunga il mondo intero in tutta la sua grandezza e terribilità, c’è poi il fatto che questo istinto viene universalmente avvertito non solo come semplice strumento della riproduzione, e neppure solo come bilanciamento fra spinte e contro-spinte istintuali predatorie e sociali (concettualizzazione che poi è alla base dell’idea stessa dell’amore), ma anche come canale di comunicazione con un mondo che potenzialmente è molto pericoloso: perciò alla fine la sessualità stessa può venire percepita come pericolosa, e la conseguenza di ciò è il suo facile divenire oggetto di rifiuto (il che è sempre capitato e tuttora capita sotto forma di “tabù”), oltre che, all’opposto, il suo venir praticata intensivamente a mo’ di “sfida”, o di padroneggiamento del pericolo.
In ragione di tutto quanto sopra, raramente in ambito sessuale, per lo meno a livello psichico, la questione che si pone è davvero lo scambio fra elementi diversi finalizzato alla creazione, a partire da essi, di qualcosa di nuovo (come spesso, nel riferirci all’amore e nel paragonarlo alle sole basi biologico-riproduttive della sessualità, ci si illude che sia): molto più spesso la posta in gioco riguarda, molto più prosaicamente, la neutralizzazione tramite il piacere sessuale di aspetti dell’altro o di se stessi avvertiti come pericolosi e/o predatori, o ancora più di frequente, la loro neutralizzazione tramite l’istinto sociale preso nelle sue svariate forme e chiamato in causa dalla stessa sessualità. Ciononostante la sessualità, nell’ambito del rapporto di coppia ed anche nelle ideologie collettive, viene assai spesso proposta come “amore”, ovvero contrabbandata proprio sul modello di quella sessualità biologica che è finalizzata alla creazione di qualcosa di nuovo e di diverso da sé nonché di funzionale all’interesse per l’altro, alla sua cura, al suo accudimento, alla sua protezione: ciò anche tramite il sacrificio di se stessi, e dunque in un modo che è perfettamente in linea a quei cliché sull’amore romantico che sono paradossalmente modellati sulla biologia della riproduzione non umana. Non c’è dunque da meravigliarsi, data la divaricazione esistente fra le reali connotazioni biologiche della sessualità nella nostra specie e la gigantesca sovrastruttura con cui si tenta di occultarle, se gli aspetti predatori, negati nella prima fase (quella dell’innamoramento e delle smisurate promesse volte a giustificare la richiesta a se stessi e all’altro di dismettere le proprie difese), alla fine riemergano di prepotenza, sotto forma ad esempio di “omicidi di amore”, di gelosia patologica, e quant’altro.
Questo collegamento stretto ed insieme questa grande divaricazione fra spetti biologici ed aspetti idealizzati dell’amore, comunque, spinge a sospettare che la sessualità umana sia proprio quel potentissimo motore dell’evoluzione psichica che Freud con geniale intuizione postulava, ma che lo sia attraverso un meccanismo tutt’affatto differente dalla sublimazione di se stessa da lui ipotizzata (cfr. Freud S., “Tre saggi sulla teoria sessuale”, B.U.R. 2015). Se infatti la sessualità in quanto forza più potente per combattere la morte, così come Freud la intendeva, avesse davvero il potere di sublimarsi in intelligenza, in coscienza e in cultura (un concetto perfettamente congeniale ai cultori dell’amore perché la dipinge come qualcosa che trascende la biologia, la morte e perfino se stessa), per un verso la cultura, l’intelligenza e la coscienza avrebbero il potere di svincolarsi da quella biologia e da quella predazione da cui provengono, e per un altro avrebbero, al pari della sessualità, un potere per lo meno pari a quello della morte: ora, ambedue le cose sembrano francamente irrealistiche. Ma guardiamo la questione più da vicino: è così vero, dal punto di vista biologico, che la sessualità sia la forza principale e più potente a disposizione della vita? Intanto, occorre dire che sia il termine sessualità che quello di “meiosi” (che della sessualità è la base biologico-cellulare) significano letteralmente “dimezzamento”: un dimezzamento più o meno traumatico e mortale della cellula sessuale finalizzato all’unione con un’altra. Questo fenomeno di auto-mutilazione fu dapprima intuito da August Weissmann e poi dimostrato da altri ricercatori ai primi del novecento (cfr. Sutton W. S., 1902, “Chromosome in heredity”, Biol. Bull. 4: 231-251,1903). La sessualità poi, dal punto di vista evoluzionistico, non è affatto quella forza primaria e universale di difesa della vita che Freud immaginava, ovvero una sorta di sempiterno Eros/vita che si contrapporrebbe quasi alla pari ad un altrettanto sempiterno Thanathos/morte: la sessualità-meiosi è stata infatti abbondantemente preceduta, nella difesa della vita, dalla mìtosi, una forma di riproduzione altrettanto se non più efficiente, che strutturalmente le assomiglia perché si basa anch’essa su una scissione della cellula, ma che a differenza della meiosi produce cellule sempre uguali a se stesse (cfr. Flemming W., “Zur Kentnisse der Zelle Und Ihrer Theilungs Erscheinungen, in “Schriften des Naturwissenschafttlichen Vereins fur Schleswig-Holstein”, 3 (1878), 23-27), e dunque sul piano della produzione di gruppi cellulari solidali e collaboranti in un gruppo, assomiglia alla socialità ed è, a differnza della sessualità, relativamente esente da fenomeni predatori. Del resto in natura, com’è noto, esistono moltissime specie che non conoscono la sessualità appunto perché sono mitotiche, e che nella scala del tempo evolutivo non solo hanno preceduto di gran lunga quelle sessuate, ma sono tuttora viventi e prospere. E ancora: la meiosi, sul piano evoluzionistico, nella funzione di proteggere la vita è stata preceduta, oltre che dalla mìtosi, anche dall’apoptosi (che Freud ai suoi tempi non poteva conoscere!), ovvero da una forma d’innovazione biologica distruttiva basata non solo sull’auto-soppressione cellulare, com’è universalmente noto, ma anche sulla predazione, quindi sulla difesa della propria vita, come dimostrato da alcuni esperimenti di biologia cellulare i quali mostrano come l’apoptosi sia spesso innescata da taluni gruppi cellulari ai danni di altri e a proprio vantaggio (cfr. Ameisen J. C., “The origins of programmed cell death””, Science, 1996, September 1996, 272: 1278-79). Insomma, così come la sessualità non può essere assimilata alla “vita” perché è preceduta ed affiancata dalla mìtosi, allo stesso modo l’apoptosi non può essere considerata equivalente a quel principio di Thanatos/morte, o d’entropia, che Freud ha postulato sotto il nome di istinto o pulsione di morte: essa infatti tende, allo stesso modo di quella predazione che tanto le assomiglia, alla preservazione, alla selezione ed alla differenziazione della vita assai più che alla morte, all’entropia ed all’inorganico di cui parla Freud.
In definitiva, questi due fenomeni biologici di base che sono la mìtosi e l’apoptosi, rispetto alla sessualità o meiosi sono filogeneticamente assai più antichi, e quanto ad efficacia ed efficienza nel preservare la vita non sembrano aver nulla da invidiarle. La sessualità dunque, lungi dall’essere quella polarità biologica positiva ed universale che si contrapporrebbe in esclusiva alla morte e che fu a suo tempo ipotizzata da Freud e da molti filosofi prima di lui, sembra essere semplicemente qualcosa che funge da tramite fra due ben più antichi, diversi ed opposti modi di preservare la vita e di innovarla: ciò in quanto unisce in sé entrambi i loro meccanismi di base e li fa divenire potenzialmente sinergici. In questo senso la sessualità contiene sia una parte innovativa, distruttiva ed apoptotica (la quale è implicita nella sua elevata capacità di mescolanza anche traumatica con il diverso, capacità che nella sessualità è certo meno pericolosa e distruttiva che non nell’apoptosi ma è pur sempre presente), sia una parte conservativa, socializzante e mitotica (che risiede nella capacità di trasmettere inalterato parte del patrimonio genetico di partenza alla posterità e nel carattere relativamente incruento, rispetto all’apoptosi, del suo incontro con il diverso).
Ora, il punto saliente di questa situazione per quanto riguarda la questione dell’amore, è che la sessualità si avvale delle sue componenti mitotica ed apoptotica non solo per difendere la vita, ma anche per costruire organismi sempre più complessi e differenziati, quindi nuovi ed apparentemente svincolati dalle forme di vita precedenti: ebbene, è forse proprio questa sua duplice caratteristica, allo stesso tempo conservativa e differenziante (o fortemente innovativa), ciò che ha tanto acceso le speranze degli innamorati e dei poeti, oltre che di qualche biologo, facendola immaginare come qualcosa che, se non più forte della morte, le è almeno pari, e che sarebbe anche priva di implicazioni mortifere. La sessualità invece, come si è visto a proposito di Perversioni e Psicopatie, facendo da tramite fra aspetti mitotici ed apoptotici, sociali e predatori, nel mescolarli e nell’indurre la loro reciproca neutralizzazione non può fare a meno, allo stesso tempo, di veicolarli e diffonderli: per fare un esempio, essa non si limita a rendere in parte sociale ciò che sarebbe predatorio, ma rende anche predatorio ciò che sarebbe sociale, ed è perciò, letteralmente, “contagiosa di predazione”. E soprattutto, la sessualità non è quella forza in sé plastica e capace di sublimarsi, ossia di alleggerirsi (significato letterale del termine “sublimazione”) dai propri contenuti istintuali cui pensava Freud: né, tanto meno, è in grado di trasformarsi lei stessa in articolati simbolici (o almeno, non senza attivare i derivati comunicativi della socialità), dal momento che, come già detto, costituisce solo un tramite fra elementi biologici diversi, seppure finalizzato alla loro unione, modifica strutturale e differenziazione. Anzi, è proprio in virtù di questa sua delicatissima funzione di mediazione fra elementi biologici ed istintuali “altri”, in sé estremamente pesanti e da lei chiamati a destrutturarsi nonché ad unirsi in qualcosa di nuovo, che la sessualità non può assolutamente permettersi di alleggerirsi e/o snaturarsi più di tanto nei suo aspetti biologici di base: essa è piuttosto portata a caricarsi, ad appesantirsi, talora addirittura ad infarcirsi di quegli stessi elementi estranei, mortiferi, predatori o aggressivi, ed anche sociali, con cui viene continuamente in contatto nell’ambito della sua funzione di mediazione, per cui nel corso della sua attività fisiologica tende essenzialmente ad irrigidirsi (come del resto ben si vede, a lungo andare, nella stessa vita sessuale normale). La controprova di ciò, del resto, ancora una volta, è costituita dalle Perversioni sessuali/Psicopatie criminali, ossia da comportamenti che normali non sono affatto, e che presentano una spaventosa rigidità rituale.
In conclusione, sulla base di semplici considerazioni biologiche come quelle sopra richiamate, alla dialettica Eros-Thanatos postulata da Freud (e a quella gigantesca sovrastruttura idealistico-romantica ad essa parallela, imperniata sul concetto di amore come antidoto universale alla morte, la quale è di millenni antecedente al pensiero freudiano ma gli si conforma perfettamente), occorrerebbe sostituirne un’altra: la dialettica fra predazione e socialità, ossia fra due forze biologiche entrambe vitali ed ugualmente impegnate nel combattere la morte; e si tratta di una dialettica nella quale la sessualità, anziché svolgere il ruolo di protagonista anti-mortifero, si limita a fare da mediatrice e da innesco. Del resto, solo una considerazione siffatta, la quale chiama in causa la funzione non già freudianamente “sublimata” bensì “sublimante” della sessualità umana in quanto veicolo e fattore trasformativo sia della socialità che della predazione, è in grado di spiegare due fenomeni paralleli e molto strani: da un lato il passo brevissimo che esiste nelle relazioni umane fra “amore” proclamato e “morte” reale, almeno in un certo numero di casi (omicidi sessuali, cosiddetti femminicidi “per amore”, ecc.). Dall’altro lato, l’enorme capacità che la sessualità ha avuto ed ha tuttora di indurre la costruzione di sovrastrutture ideologiche volte a mascherare i propri reali connotati biologici, che sono al 50% predatori: ad esempio, accendendo illusioni smisurate su se stessa e presentandosi come “amore”, ossia come qualcosa che per definizione vincerebbe o quanto meno terrebbe testa alla morte, addirittura smaterializzando o sublimando la propria stessa biologia (e questo, per inciso, forse spiega l’enorme successo riscosso dalla Psicoanalisi, a dispetto delle pretese “resistenze collettive” che essa avrebbe dovuto suscitare); ciò laddove la sessualità, nel ben più concreto tentativo di neutralizzare quella morte che maggiormente conosciamo e che ci interessa da vicino perché più passibile di essere arginata (la morte che deriva dalla predazione inter-umana), non fa altro che sovrapporle provvisoriamente se stessa ed il proprio piacere, per poi spingerle contro quella socialità che fatalmente, pur attenuando la predazione stessa e in gran parte padroneggiandola, finisce per assorbirla e veicolarla ovunque, riproponendola in forme diverse, ovvero simboliche e ritualizzate (quindi non solo sotto forma di odio individuale d’origine affettivo-sessuale, ma anche di guerre e di sopraffazioni collettive di ogni genere, spesso o quasi sempre portate avanti in nome della socialità, dell’amore, di una “vita migliore”, ecc.).
Per ultimo, riporto un toccante esempio clinico di come attraverso la veicolazione della predazione e la sua tendenziale socializzazione, la sessualità ci induca ad incontrarci con la morte intesa nel suo senso anche più generale e non strettamente predatorio nonché a mascherarla, talora proficuamente, come “amore che tutto vince”: un mio paziente irriducibilmente ateo, ma sposato con una donna religiosa e da lui molto amata malgrado una vita intera passata nei più aspri e feroci contrasti con lei, in punto di morte confessò ai suoi più intimi amici e conoscenti, a me, e naturalmente a sua moglie, come pur non credendo affatto nell’al di là, avesse l’irrefrenabile fantasia che la sua donna, con lui sorridente e rassicurante come sempre, anche in punto di morte lo prendesse in giro per il suo terrore del nulla e lo rassicurasse circa il fatto che la loro separazione sarebbe stata solo temporanea; al più presto “dall’altra parte”, ossia al suo risveglio dalla morte, egli avrebbe incontrato ancora una volta il suo volto, malgrado tutto sorridente, poiché ogni cosa continuava come prima, ovvero nell’”amore”. Lei in sostanza, nella fantasia del paziente, avrebbe dovuto dirgli che era un solo fifone, e che se avesse avuto la forza di vincere quella assurda paura dell’annullamento e di credere che la morte era solo una breve parentesi seguita da un immancabile risveglio, si sarebbe subito sentito meglio. Il mio paziente, in effetti, se ne rassicurò alquanto e morì rasserenato, nella visione di ritrovarla “di là”, sorridente, a braccia aperte e pronta come sempre ad accoglierlo.