THE MONSTER OF LOVE
MONICA VISINTIN
C’è qualcosa di normale nell’amore? A sentire l’opinione di molti, non c’è nulla di più normale che provare, almeno una volta della vita, un sentimento di irresistibile attrazione verso una persona che ci regala l’illusione di reciproco appagamento e il desiderio di volerne il bene. La credenza è così diffusa che tutti i comportamenti di indifferenza ai nostri sogni d’amore sono definiti mostruosi: è un mostro chi esalta il bisogno di un altro corpo nel suo abuso, chi confonde la lealtà con la sottomissione, ma anche chi viene meno alla promessa di reciprocità nell’amore o sembra sottrarsi alle responsabilità verso una persona amata (un classico caso è quello dell’adultero).
Pochi sembrano invece rendersi conto che l’immagine dell’amore risponde alla perfezione alle comuni definizioni di “mostro”, come ad esempio quella dell’inappuntabile Enciclopedia Treccani: “Essere che si presenta con caratteristiche estranee al consueto ordine naturale e come tale induce stupore e paura; è per lo più formato di membra e di parti eterogenee, appartenenti a generi e specie differenti, con aspetto deforme e dimensioni anormali”.
Agli analisti più superficiali sembra che sfuggano a questa definizione le rappresentazioni idealizzate dell’amore: quelle che si trovano quasi in massa nel meraviglioso mondo dell’arte e della letteratura, la cui funzione disciplinatrice nei confronti di un’umanità potenzialmente mostruosa risulta evidente dalla centralità che ancora oggi occupa nella formazione scolastica. Impegnati com’eravate da ragazzi nella vana distinzione fra polvere dei libri e polvere di stelle, mortificazione nello studio e trasgressione con la carne, amanti seriali e seriosi secchioni, vi è forse sfuggito che nell’istituzione più antierotica della nostra società, la scuola il 70% delle lezioni di letteratura italiana verteva sull’eterno problema dell’accesso alla fica: questo prima che, con l’ascesa della borghesia e l’avvento della cultura romantica, si profilasse quello ben meno erotico delle pari opportunità e dell’accesso ai redditi di sussistenza.
Che c’è di tanto mostruoso nell’amore, sia nell’arte che nella vita reale? In entrambi i casi di offrirsi come un frutto della nostra fantasia. L’amore si nutre di fantasie, com’è noto, e conosce l’apice dei piaceri nella dimensione immaginaria. Lo dimostra il fatto che frequentemente si associa il pensiero dell’amore a quello della felicità, dove per felicità si intende il piacere narcisistico della presenza, della stima e della devozione di una persona che ci piace.
Quanto siamo disposti a fare per la sua felicità? Nella dimensione più convenzionale dell’amore, che è quella della coppia, ancora oggi si intende per “Vero Amore” la capacità di rinunciare a qualche cosa cui teniamo molto per testimoniare il nostro affetto per un altro. Ciò è accaduto alle donne di molti secoli con la realizzazione intellettuale e l’emancipazione economica; per gli uomini si è trattato (e si tratta) spesso di rinunciare alle attività di predazione – donne incluse; in entrambi casi, limitatamente a non poche relazioni perverse, il Vero Amore può includere la negligenza nella cura dell’aspetto e del benessere psicofisico (per cui praticare un hobby o un’attività fisica viene visto come una sottrazione letale di attenzioni al partner), o semplicemente l’oblazione di tempo da spendere con il proprio partner.
Pronunciando invano la parola “amore”, spesso ci immaginiamo di poter dare all’oggetto di una nostra attrazione sessuale attenzioni che hanno poco a che vedere con il piacere di essere scelti per un atto riproduttivo e che molto hanno a che fare con le cure parentali, in particolare quelle materne. Motivo per cui sembrano fortunatissimi gli uomini che possono affidarsi a donne che condividono talenti e virtù con la propria mamma, sventuratissime le donne che tentano di risolvere nel rapporto di coppia inghippi e problemi originatisi nel rapporto con il padre. Lo sanno bene quelli che hanno contribuito alla fortuna economica dei loro analisti: la creatura nata per ibridazione fra queste istanze così diverse è in ogni caso una creatura mostruosa, il cui corpo si articola in parti che appartengono realmente a specie diverse di affetto e cura. Una possibile felicità nell’amore, se mai può nascere, esige la priorità della cura di sé prima di quella dell’altro: senza diventare le mamme o i papà di noi stessi, perché altrimenti sono guai.
Ciononostante, quello che noi aspiriamo ad amare è qualcosa che si sottrae alla definizione di fenomeno naturale. Lo dimostrano dei celeberrimi versi di Omero, alla cui lettura e apprendimento pressoché mnemonico non è dato di sottrarsi neanche agli studenti dei corsi professionali.
Davanti alle Porte Scee, l’eroina troiana Andromaca parla così al marito che sta per tornare a combattere:
“Ettore, tu sei per me padre e nobile madre
e fratello, tu sei il mio sposo fiorente”.
Dice bene Vittorino Andreoli – e forse non solo lui per primo – che con questi versi la moglie Andromaca inventa per Ettore l’icona del padre; sarebbe il caso di ricordare che sono i versi di fondazione della figura del marito, ovvero l’agognata metamorfosi di ogni uomo dei sogni. Ma Ettore, come si sa, non regge a questa dichiarazione d’amore che del mostruoso condivide anche la dimensione positiva del portento: più che all’amore della moglie, pensa alla sua buona reputazione presso i Troiani e quindi parte per la missione impossibile di salvare la patria – con la certezza di farsi ammazzare.
Il figlio di Priamo non è certo un uomo moderno, ma la sua vicenda mostra un aspetto struggente dell’amore: che al contrario di quanto sosteneva Virgilio (omnia vincit Amor), l’amore è un mostro spesso impotente di fronte alla forza delle convenzioni sociali.
Molti secoli dopo, abbiamo modo di capire che l’amore totale, quello che va anche oltre la barriera della morte, è qualcosa di mostruoso perché supera la banalità della relazione biunivoca. Rompe lo schema della simmetria, così come riescono a fare certi corpi sovrumani. E manifesta, come in un prodigio – un monstrum per l’appunto -, la realizzazione dell’impossibile: amare una persona sul presupposto che essa incarni la perfezione morale, come se fosse una proiezione totale degli ideali collettivi – vale a dire Dio. Lo dimostra, nella resa finale, l’amante più monomaniaco e indeciso della storia – il più indeciso al punto di essere individuato, suo malgrado, come prestanome di quella mostruosa trovata cinquecentesca che prende il nome di amore platonico: Francesco Petrarca.
Per una vita intera – e 346 su 366 componimenti del Rerum Vulgarium Fragmenta, più noto come Canzoniere – Petrarca si consumò nel dissidio fra l’aspirazione ad una vita di beatitudine nella contemplazione religiosa e la tentazione delle passioni terrene che egli fece convergere nella figura di una donna chiamata Laura. Ma, ad un certo punto, la peste nera del 1348 sottrae al Poeta la causa di tanti turbamenti: Petrarca si sente finalmente libero di rimettere tutti i suoi ardori nella devozione a Dio, senza dimenticare che un cuore gentile non rinnega mai la dedizione alla donna un tempo amata:
Donna che lieta col Principio nostro
ti stai, come tua vita alma rechiede,
assisa in alta et glorïosa sede,
et d’altro ornata che di perle o d’ostro,
o de le donne altero et raro mostro,
or nel volto di Lui che tutto vede
vedi ‘l mio amore, et quella pura fede
per ch’io tante versai lagrime e ‘nchiostro;
et senti che vèr te ‘l mio core in terra
tal fu, qual ora è in cielo, et mai non volsi
altro da te che ‘l sol de li occhi tuoi:
dunque per amendar la lunga guerra
per cui dal mondo a te sola mi volsi,
prega ch’i’ venga tosto a star con voi.
Libero anche dalla preoccupazione di doversi ricredere – Laura è morta -, Francesco dichiara alla sua donna che il suo amore per lei è riflesso nel suo amore per Dio, di cui lei, nella sua perfezione, è un chiaro segno: tant’è che la chiama de le donne altero e chiaro mostro. È chiaro che con cotanto prodigio non si può vivere neanche un’ora, in nessun luogo della terra: tant’è che nel verso finale del sonetto la prega di sottrarlo alle pastoie della vita terrena per fargli godere la beatitudine di una vita eterna in compagnia di lei – e di Dio: ch’io venga tosto a star con voi.
La donna perfetta è un mostro e l’amante ideale è quello morto. Che ci si trovi davanti ad un’altra mostruosa verità?
Due film mostrano che le idealizzazioni dell’amore – ovvero l’incapacità di accettare che nessuno di noi, anche se amato, diventa Dio – possono complicare le relazioni fino a farle diventare mostruose, sempre che non sia vero che la mostruosità fa parte della loro natura.
Il primo è Gone Girl, il cui titolo è stato per una volta ben tradotto in italiano nel poco seducente L’amore bugiardo, un ossimoro che rende alla perfezione la natura mostruosa e illusoria degli amori sfortunati. Un idillio fra un giovanotto in ottima salute del Missouri e una sofisticata scrittrice newyorchese rivela i suoi piedi di creta allorché lui, giornalista, viene licenziato e lei lo informa di aver restituito ai suoi genitori una cospicua somma che il principe azzurro si era convinto essere il corredo della sua angelica bellezza. A questo si aggiunge la decisione di lui di tornare nel paese d’origine per assistere invano la madre vittima di un male incurabile, scatenando i primi rancori di lei; poi, le poco convenienti decisioni da parte di lui di aprire un bar e di avviare una relazione con una studentessa di poco più di vent’anni. Lei, l’angelo privato della sua aura di portatrice di felicità assoluta, diventa un mostro (ma sarebbe il caso di dire: si mostra per quel che è): una creatura glaciale che gode nel far sprofondare le sue vittime nella disperazione, illudendole di poter riassumere sembianze umane soltanto con il sacrificio della dedizione assoluta.
Non c’è niente di più mostruoso dell’interpretazione che il regista Saverio Costanzo è riuscito a dare della straordinaria vicenda da lui raccontata in Hungry Hearts: “Questa è la storia estrema di un’ossessione d’amore che una madre non riesce a gestire. [lei] non sa che fare di tutto l’amore da dare al bambino“. Anche le trame in testa alle recensioni del film si limitano a rimarcare questo aspetto, per me quasi secondario, di una storia di mostrificazione dell’amore, un amore pervertito con il vecchio giochetto dell’affermazione del potere maschile nello scassatissimo marchingegno di una coppia pseudo-moderna.
Lei e lui fanno la conoscenza nella molto metaforica anticamera di un cesso di un ristorante cinese di New York, dove lui ha appena scaricato da lo tristo sacco i resti pestilenziali di un pesce andato a male. Gli spasmi intestinali non impediscono a lui di rimanere incantato dall’idea di salvare una complicata working girl già evidentemente in grane con i disturbi alimentari; lei non riesce a sottrarsi alla fantasticheria di cambiargli i pannolini per sempre. Questo il film non lo dice esplicitamente, ma molto del prosieguo sembra confermarlo: siamo in piena mostrificazione del rapporto di coppia, secondo schemi che ormai fanno sbadigliare tutti i professionisti che ingrassano il proprio conto in banca grazie agli insegnamenti del dottor Freud.
Scoppia l’amore, e con esso una frenetica attività sessuale che si combina, come nel migliore degli idilli, a inusitati progressi sul lavoro. Finché lei non riceve una telefonata: promossa sul lavoro, deve trasferirsi. Prima che lei abbia tempo di pronunciarsi, lui le ricorda che lei gli aveva detto che al mondo non c’era altro che loro due. Calato in padella il primo uovo della frittata, lui non conosce più limiti: un giorno che stanno scopando con ragionevoli dubbi sull’eventualità di una reciproca soddisfazione, lei lo prega di non venire. Invano, lui la ama troppo: inutile ricordare che l’amore è cieco, ma la sfiga ci vede benissimo, e da quell’unica eiaculazione inopinata nasce un bimbo. Così amato da entrambi che in tutto il film non se ne sente pronunciare mai il nome.
Il resto l’avete letto sui giornali. I due si sposano, lei è vegana e anche un attimo anoressica, i genitori di entrambi latitano alla grande – fatta eccezione per l’ineliminabile madre di lui -; tutti quanti hanno dimenticato che lei per amore ha rinunciato a realizzarsi sul lavoro e non c’è da stupirsi se nel giro di una tristissima gravidanza si trasformi in una Medea affamata e affamatrice di un incolpevole Bambino. Al quale nega anche il conforto della luce del sole e dell’aria fresca, ossessionata com’è non di amore, bensì dall’idea di giustificare l’infanticidio perfetto con il pretesto di preservare il pupo dalle aggressioni dell’inquinamento.
Una storia di odio totale, in cui tutti sono vittime e persecutori – meno il bambino che non vuole ancora male a nessuno. Lui odia lei, la mamma di lui anche ed è inutile dirlo, lei odia tutti e forse un po’ meno se stessa. Finale tragico: la suocera ammazza la Medea vegetariana. Ma il Figlio sopravvive per amore della sua impronta nel Mondo, nonché fallace promessa di eternità: il pupo, splendidamente anonimo anche quando tiene la manina al paparone finalmente libero da ogni femmina isterica.
Non a tutti va così male, lo sappiamo – e per fortuna. Ma resta che anche quando siamo travolti da una maliosa brama di amore, quando siamo troppo giovani per assumere l’aspetto e i pensieri dei mostri, sentiamo la forza straniante di questo sentimento che fa a brani la nostra unità originaria, perverte la nostra identità e ci fa avanzare nella vita con i palpiti dell’inquietudine. Qualche volta tutto rientra o prende un’altra forma, e ne nascono persino belle cose. Talvolta – molto spesso, come mostrano le statistiche sulla moribonda istituzione della famiglia – no.
L’amore fa paura. Ricordiamolo con The Monster of Love, una canzone della dimenticata band “Sparks” tratta da un album assai notevole se non altro per il suo titolo anglotedesco: Angst in My Pants (“Angoscia nei miei pantaloni”, 1982)
Don’t let it get me, don’t let it get me
Don’t let it get me, don’t let it get me
Don’t let it get me, don’t let it get me
Well, it’s Saturday night and I’m still free
And I ain’t never gonna be
Eaten by the monster of love
(“Non lasciare che mi prenda, non lasciare che mi prenda
Non lasciare che mi prenda, non lasciare che mi prenda
Non lasciare che mi prenda, non lasciare che mi prenda
Bene, è sabato sera e sono ancora libero
E non succederà mai che io sia
Mangiato dal mostro dell’amore”)
CINEMA ENDOXA - BIMESTRALE LETTERATURA Senza categoria STORIA DELLE IDEE Canzoniere Francesco Petrarca Gone Girl Hungry Hearts mostro Omero Publio Virgilio Marone Saverio Costanzo settembre 2017 Sparks Vittorino Andreoli