LE PAROLE MI DANNO UN PESO: MANGIAMO QUELLO CHE DICIAMO

RICCARDO DAL FERRO

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Una dieta povera di parole corrisponde ad un esile orizzonte del mondo.

Compito del linguaggio, secondo Gilles Deleuze, è quello di “allargare” l’orizzonte entro cui si svolge il mio mondo. Nel suo Abécédaire, il filosofo francese infatti afferma che la spinta letteraria, ovvero la manifestazione più efficace del peso delle parole, è “quella non di schiacciare l’orizzonte all’interno dell’io, ma quella di portare l’io verso l’orizzonte”. In parole povere, le parole e il linguaggio servono ad allargare la prospettiva che io getto sul mondo, in modo tale da abbracciare una porzione più vasta di cosmo.

Le parole insomma sarebbero il vero cibo dell’anima, e l’obesità conseguente non sarebbe di certo qualcosa di cui vergognarsi, quanto piuttosto qualche cosa di cui andare fieri.

1984 di George Orwell descrive perfettamente quella che chiamerei l’anoressia del linguaggio. Il Ministero della Verità, con il suo mortifero compito di ridurre le parole e i vocaboli presenti nel dizionario, produce individui magri di pensieri, privi di spessore esistenziale, piatti nella loro capacità espressiva e di conseguenza scarni nella comprensione del mondo. Una vera e propria anoressia filosofica che non permette all’uomo di vivere liberamente, che riduce la sua dieta linguistica a poche semplici parole, al fine di raggiungere la perfetta indigenza del pensiero, ovvero l’uso di un’unica parola che lo priva dei veri nutrienti della mente: “Sì”.

È la mancanza delle parole che ci ricorda il loro peso reale e il romanzo di Orwell lo dimostra perfettamente. Il luogo comune secondo cui qualcosa non viene davvero apprezzato fintantoché non è perduto vale in modo assoluto per il linguaggio e dovrebbe farci riflettere sul mutamento (e sulla riduzione) che il nostro vocabolario sta vivendo in quest’epoca contemporanea. Se da un lato le metamorfosi del linguaggio sono specchio del proprio tempo, dall’altro non possiamo osservare da passivi spettatori la progressiva e inesorabile distruzione di parole e concetti, la sempre più scarna disponibilità di vocaboli con cui le persone oggi si esprimono.

Secondo il professore di linguistica Tony McEnery, sulle circa quarantamila parole presenti nel dizionario, i giovani americani ne riconoscono appena un centinaio, ma solo quando si analizza il gergo utilizzato più frequentemente nella comunicazione quotidiana la diagnosi è davvero preoccupante: sono solo una ventina le parole utilizzate per esprimere la complessità dell’animo umano, le emozioni, le sensazioni, le paure e le idee. Di certo l’inglese è già di per sé una lingua riduzionista (basti pensare a tutti i significati che la parola “play” sta a rappresentare: giocare, suonare, attaccare (anche bottone), comportarsi in un dato modo, recitare, e almeno un’altra dozzina di significati) che fa della semplicità di utilizzo il veicolo di universalità che la contraddistingue (parliamo ovviamente di un utilizzo quotidiano e informale, non certo l’inglese letterario di Tolkien o Shakespeare, ricco, variegato e meravigliosamente poetico). Ma venti parole per esprimere il ventaglio inesauribile dell’animo umano è un dato decisamente preoccupante.

Così, ogni cosa è “hilarious” anche se non scatena alcuna ilarità. E tutto quanto diventa “awesome” anche quando si tratta di eventi piuttosto normali. In italiano si sente continuamente “devastante” anche quando non c’è alcuna devastazione all’orizzonte, e tutto questo perché il linguaggio tende inevitabilmente alla sua riduzione a mero oggetto inerte.

La verità è che nutrirsi di un vocabolario molto ampio richiede uno sforzo non indifferente. Quando consideriamo il linguaggio come mera “rappresentazione” di una realtà a noi esterna, in quel momento possiamo tranquillamente accontentarci di poche parole, scarni concetti, ridotti fonemi.

Ma il linguaggio non è affatto questo. Come scrive Richard Millet nella Lingua Fantasma, Saggio sulla riduzione in povertà della letteratura: “Questo mi sento di affermare: io non scambio, non comunico, come si dice oggi in maniera del tutto intransitiva, nel linguaggio corrente, lo sfigurato, menzognero e falsificatore linguaggio del giornalismo, questa organizzazione aziendale attraverso la quale si pretende di informare e grazie alla quale, invece, il potere liberale elabora la univocità di un discorso che è specchio e insieme pretensione di verità. La verità come specchio deformato, ingannatore, eccessivo del narcisismo contemporaneo. Ecco una situazione in cui lo scambio è anche uno specchietto per le allodole – giustamente, dunque, si usano intransitivamente i verbi “scambiare” e “comunicare”, a segnalare, inoltre, il dominio assoluto dell’istanza che informa e che definisce l’assoluto di un discorso al quale io mi sottraggo fieramente, non scambiando, non comunicando, non dialogando, non dibattendo. Con la semplice affermazione di quel che sono.”

Quando il linguaggio diventa mero “scambio” o “rappresentazione”, il linguaggio si riduce, viene distrutto, diventa povera dieta di concetti poveri, utile soltanto a confermare una data visione del mondo, a rivestire un’idea consolidata, ma perde il suo carico rivoluzionario e intimo, la sua capacità di mutare radicalmente il corso di un’esistenza. Il linguaggio è prima di tutto espressione di quello che io sono in un dato momento della mia esistenza, e ciò che sono è la voce di un mutamento che nulla ha a che vedere con lo scambio, la comunicazione, la retorica o la rappresentazione: il linguaggio che uso sono io, incontrovertibilmente io, in un dato momento della mia esistenza.

Perciò, non sono io a dare un peso alle parole, sono le parole a dar peso a me. Non sono io a decidere il destino dei discorsi, sono i discorsi a portarmi su un dato binario esistenziale, a interpretare la mia esistenza in un certo momento della vita. Le parole mi posseggono e fanno di me ciò che ritengono più opportuno, e minori parole avrò a disposizione per farmi interpretare, più dimenticabile, scarna e prigioniera sarà la mia esistenza.

Ampliare il linguaggio che utilizzo, variegare la mia capacità espressiva (e non solo attraverso le parole ma, come mi ha insegnato il teatro, anche usando il corpo, la voce, i volumi e i toni) significa interpretare in modo più libero e felice una vita che altrimenti risulterebbe essere un sacco vuoto, privo di peso e sostanza. Più sono le parole con cui riempio la mia esistenza, maggiori possibilità di sopravvivere felicemente avrò in questo mondo.

Quella delle parole è l’unica dieta che va seguita al contrario: più prendiamo peso più saremo agili, veloci, forti e in salute. Ogni libro, ogni discorso, ogni frase o dialogo, ogni articolo scritto o letto, persino ogni messaggio su WhatsApp o post su Facebook è l’occasione giusta per farsi un’abbuffata di vita e libertà. Un libro è un ristorante, un dialogo è un picnic, a teatro trovo un banchetto. E l’obesità diventa una forma desiderabile.

Ora perdonatemi ma devo continuare a mangiare.

Scrivere queste parole ancora non mi ha saziato.

 

Endoxa ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA LETTERATURA

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