RIPE(N)SARE LE PAROLE PER SUPERARE I DUALISMI
EMANUELE AMBROSIO

Nell’ambito del problema della definizione di cos’è l’uomo, della sua essenza e di cosa lo contraddistinguerebbe rispetto agli altri animali, tra gli elementi precipui, il linguaggio è quello che ha goduto e che gode tutt’oggi di una considerazione particolare, cioè quella di essere tra gli elementi più rilevanti che costituiscono specificamente l’ontologia umana. Se il peso del linguaggio per l’uomo e per la società umana è fuori di dubbio, tuttavia non si è ancora giunti scientificamente a definirne l’origine (esso nasce dalla gestualità o dalla vocalizzazione?) né a chiarire i suoi rapporti con l’ominizzazione, con l’uso della tecnica e con la nascita della società e della cultura (ne è l’effetto o la causa?). Non va meglio in ambito filosofico, visto che non vi è concordanza tra i filosofi nel ritenerlo il fattore che caratterizzerebbe effettivamente la distanza dell’uomo dall’animale (come ad esempio sosteneva Heidegger nei Concetti fondamentali della metafisica, 1929), ossia la specialità ontologica umana. Insomma, mentre per alcuni il linguaggio è ciò da cui si sarebbe originata o quantomeno ciò che costituirebbe la dicotomia natura-cultura, per altri, soprattutto per coloro che hanno fatto proprio l’insegnamento di Darwin, il problema ha un vizio di fondo, visto che porre il quesito in termini di ciò che caratterizzerebbe il passaggio dalla natura alla cultura è problematico.
Tenendo aperto questo dibattito, ci si può contemporaneamente focalizzarsi su un altro versante, quello della teoria della conoscenza, in particolare osservando ciò che ha sostenuto Ernst Cassirer. Il neocriticismo, in cui si inserisce la speculazione di Cassirer, cercando di dissipare la nebbia a tratti non poco aporetica dell’idealismo, ha operato un ritorno a Kant in virtù della necessità di fondare la conoscenza attraverso la conoscenza della conoscenza, ossia assegnando alla filosofia il compito di stabilire la validità della conoscenza umana. L’originalità di Cassirer risiede nel fatto che egli ha visto nelle forme simboliche, e soprattutto proprio nel linguaggio, non l’elemento ontologicamente discriminante, ma l’a priori dell’esperienza umana, cioè l’elemento che la struttura e che rende valida la conoscenza: «il simbolo non è il rivestimento meramente accidentale del pensiero, ma il suo organo necessario ed essenziale. Esso non serve solamente allo scopo di comunicare un contenuto concettuale già bello e pronto, ma è lo strumento in virtù del quale si costituisce questo stesso contenuto e in virtù del quale esso acquista la sua compiuta determinatezza» (Filosofia delle forme simboliche. Il linguaggio, 1923). Se già con Kant si era capito, contro qualsiasi ingenuo realismo, che la nostra conoscenza del mondo è in qualche modo “filtrata” ed ordinata dalle funzioni trascendentali, Cassirer ritiene che l’elemento caratterizzante la conoscenza dell’uomo sia, tra gli altri, proprio il linguaggio. In base a questo è facile capire quanto il peso delle parole condizioni l’esperienza dell’uomo e della sua conoscenza della realtà.
Stando a quest’ipotesi, il linguaggio comune può pertanto, almeno fino ad un certo grado, condizionare la percezione del mondo e l’organizzazione dell’esperienza degli individui. Se da un lato il linguaggio riveste indubbiamente un ruolo di comunicazione efficace ed un utile strumento del pensiero, dall’altro lato l’uso di certe espressioni e di certi termini possono far introiettare e far reiterare visioni del mondo inadeguate o fallaci, o anche addirittura apertamente in contraddizione con le nuove conoscenze scientifiche. Qui infatti si ritorna al problema filosofico dei dualismi uomo-animale, natura-cultura, corpo-mente, etc., i quali in realtà, facendo capo alla stessa presupposta diversità ontologica dei due elementi che costituiscono i vari binomi, possono ridursi ad un unico dualismo ontologico, quello sistematizzato da Cartesio in res extensa e res cogitans. Tale modus pensandi condiziona il lessico filosofico, non immune alle problematiche e ai rischi del linguaggio comune, perché, in quanto linguaggio, è “cassirerianamente” strutturante l’esperienza e la conoscenza umana. Le strutture mentali umane ordinano tassonomicamente la realtà, ma, oltre riconoscerne validità gnoseologica, l’errore sta nel supporre un corrispettivo ontologico dei contenuti della conoscenza nella realtà fuori dall’esperienza. Ciò risulta in evidente contraddizione con la teoria dell’evoluzione, la quale, affermando che l’uomo e le sue funzioni cognitive sono il prodotto dell’evoluzione, lo “condanna” ad una situazione di «parzialità epistemica filogenetica», secondo l’espressione del filosofo postumanista italiano Roberto Marchesini (Così parlò il postumano, 2014). Ciò significa che le capacità cognitive umane hanno uno specifico dominio di validità sviluppatosi sulla base della selezione nel corso della storia evolutiva. Ridimensionata l’universalità e riassegnato così il valore delle funzioni intellettive dell’uomo, risulta chiaro che le polarità dicotomiche del dualismo filosofico ne risultano sfumate, perché è possibile che in realtà i due termini (res extensa e res cogitans, materia e spirito, corpo e mente, natura e cultura, uomo e animale, etc.) presentino una differenza di grado e non di ordine.
Ciononostante il linguaggio, cristallizzatosi storicamente nelle forme del dualismo più o meno dall’Umanesimo in poi, continua ad esprimersi per dicotomie ontologicamente oppositive, ordinando tassonomicamente e spesso anche gerarchicamente il mondo e la realtà. Per questo motivo ancora oggi è più facile sentire qualcuno dire di “avere un corpo” piuttosto che “essere un corpo”, o anche “è solo un animale”, riferendosi magari alla cattiva sorte capitata ad un animale non umano (attribuendogli implicitamente un grado ontologico inferiore), e in generale quelle forme espressive che polarizzano essenze ontologiche e svalutano le alterità. Ciò rinnova uno specifico modo di pensare la realtà – sia in una certa filosofia incline ad ignorare la rivoluzione darwiniana sia nel linguaggio comune, elemento fondamentale della vita sociale e politica – con tutte le conseguenze, spesso anche negative, che ciò comporta.
Abbandonando la prospettiva ontologica essenzialista, che postula l’esistenza di un’essenza umana fissa e ontologicamente distinta dall’alterità, quando non addirittura superiore ad essa, e il dualismo, si può ragionare sulla cultura e sullo stesso accumulo di conoscenze come di un processo di continua coniugazione dell’uomo col mondo, coerentemente con la teoria dell’evoluzione. Ciò palesa in modo ancora più chiaro non solo il debito umano nei confronti dell’alterità per la formazione della cultura, ma anche che l’accumulo di conoscenze, aumentando ulteriormente tale coniugazione, rende sempre più obsoleta la visione antropocentrica sul mondo. In altre parole l’uomo è un “raccoglitore epistemico“, pertanto più conosciamo il mondo più ci rendiamo conto che dovremmo ridimensionare la nostra idea d’essere ontologicamente speciali. Contrariamente a quanto affermava Cassirer, per cui «non già nella vicinanza al dato immediato ma nel progressivo allontanamento da esso risiedono il valore e la natura specifica del linguaggio» – cioè sostenendo un’assoluta differenza tra la realtà e il simbolo, conoscere il mondo in realtà ci avvicina e ci lega sempre più inestricabilmente ad esso, pertanto l’uso del linguaggio dovrebbe farsi carico di tale antropodecentramento e rispecchiarlo (cfr. Roberto Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, 2002, e Il tramonto dell’uomo. La prospettiva post-umanista, 2009).
In conclusione, il linguaggio ha un ruolo fondamentale per l’uomo, soprattutto come struttura gnoseologica, ma, lungi dal doverne subire il peso, la riflessione e l’uso delle parole dovrebbero rifletterne l’origine filogenetica. Apprezzare la parzialità epistemica dell’uomo potrebbe consentire di alleggerire le forme del linguaggio dall’ipostatizzazione filosofica tradizionale, garantendo una maggiore flessibilità, una maggiore aderenza alla realtà e una rinnovata capacità di osservare e magari anche di risolvere più efficacemente i problemi causati dai presupposti, come si è visto non innocui e certamente problematici, di certi modi di pensare e quindi di parlare, in particolare del dualismo.
Endoxa ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA dualismo Emanuele Ambrosio Endoxa maggio 2018 ontologia