TRADIMENTO

PIER MARRONE

 

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“Non fare giungere alla lingua i pensieri che hai in testa” dice Polonio nel monologo che Shakespeare gli fa recitare nell’Amleto, dove sembra enunciare minimalistiche regole di cortesia. Ma Polonio è anche consigliere di Stato nel regno di Danimarca. Il suo nome deriva da “polus”, che in latino indica il bastone del comando e forse il suo personaggio è modellato su William Cecil, consigliere di Elisabetta I, soprannominato “la volpe”. Viene da pensare che il suo monologo non enunci solo banali regole di buon vivere.

Occultare i propri pensieri al pubblico è la prima pratica del tradimento e condividerli unicamente con chi è proprio complice è la seconda.

Questo mi viene in mente mentre osservo una riproduzione di un dipinto di Jack Vettriano, l’artista scozzese di origini italiane, che ha introdotto il genere noir nell’immaginazione pittorica assieme a una inquietudine erotica che sembra il preludio di un losco affare. Il titolo di questo dipinto è Contemplation of a Betrayal.

Vettriano è stato talvolta accusato di dipingere delle cartoline che sollecitano l’immaginario soprattutto maschile per le numerose scene cariche di erotismo. Non sono un critico d’arte e non ho le competenze per addentrarmi in una analisi pittorica della sua produzione. Però questo dipinto è tutt’altro che scontato e mostra una coerenza di intenti molto precisa. Vi sono raffigurati un uomo e una donna. L’uomo è alla nostra destra e la donna alla nostra sinistra (e quindi alla sua destra). Entrambi sono vestiti elegantemente. La donna ha in mano un calice di vino. Si intravede una vetrata sullo sfondo. Si immagina che siano a una festa circondati da altre persone. L’uomo è chino verso di lei e le dice qualcosa all’orecchio. Lei ha il viso leggermente inclinato alla propria destra. La parte destra del volto è completamente invisibile per l’uomo e per la donna la sinistra è celata dai capelli che le cadono in avanti. Si tratta di un indizio importante.

Il nostro cervello è asimmetrico. La parte sinistra è deputata ad alcuni compiti e quella destra ad altri, sebbene la plasticità cerebrale possa supplire efficacemente a carenze in uno dei due emisferi cerebrali, se necessario. Questa asimmetria ha delle conseguenze per come interpretiamo gli indici corporei dei nostri interlocutori che veicolano le emozioni. Esistono esperimenti nei quali vengono presentate a dei soggetti le due metà di due volti accostate l’una all’altra, una metà con un’espressione triste e una metà con un’espressione sorridente. Sono volti che sono nel medesimo tempo tristi (sinistra) e felici (destra) oppure felici (sinistra) e tristi (destra). Per la maggior parte degli osservatori le emozioni dominanti sono quelle espresse dalla parte sinistra del volto, perché il loro riconoscimento è governato dalla parte destra del cervello che presiede sia all’interpretazione delle emozioni sia al riconoscimento dei volti. Infatti, una maggioranza dei ritratti presenti nei musei occidentali presenta un orientamento dei volti verso sinistra, che è considerato quello maggiormente espressivo. Nelle scene della crocifissione del Cristo il suo volto è sbilanciato verso sinistra circa il 90% delle volte. Se la scelta fosse casuale, lo sarebbe circa il 30%. Anche le eccezioni sono però rivelatrici. I ritratti degli scienziati che sono esposti nella sede londinese della Royal Society hanno quasi tutti il volto esposto a destra, forse per rispondere allo stereotipo che vuole lo scienziato non dominato dalle emozioni.

In questo dipinto di Vettriano i due soggetti stanno progettando un tradimento, forse a danno dei propri partner – questa è la prima cosa che ci verrebbe in mente, penso – ma forse il loro tradimento è di altro genere. Forse sono delle spie e stanno trasmettendosi innominabili segreti tradendo il loro paese; forse stanno pianificando dello spionaggio industriale. La loro razionalità deve essere occultata e per raggiungere i loro obiettivi non essere manifestata a chi certamente è là attorno.

Ciò che li rende liberi non è la manifestazione pubblica della verità, ma la condivisione tra pochi di una verità che non può essere pronunciata. Per le loro orecchie le parole del Cristo (“Se rimanete nella mia parola, siete realmente miei discepoli, e conoscerete la verità, e la verità vi renderà liberi”, Giovanni 8:31, 32) non hanno molto significato. Per loro la pubblicità della verità non è affine alla virtù, bensì alla debolezza.

Anche Antonio Gramsci sembrava pensare che la verità dovesse essere detta. “Dire la verità, arrivare insieme alla verità, è compiere azione comunista e rivoluzionaria.” Sono parole ipocrite, perché il rivoluzionario di professione sa benissimo che operare nella menzogna è necessario per raggiungere il potere e conservarlo. La verità della storia per Gramsci si sarebbe compiuta nella vittoria rivoluzionaria del proletariato, che avrebbe liberato anche l’essere umano e manifestato la parzialità di ogni verità contenuta nelle epoche antecedenti, perché è chiaro che per Gramsci la verità non è tanto una proprietà degli enunciati, ma qualcosa che si compie nella storia della lotta di classe. Questo noi fatichiamo ad accettarlo oramai, perché quella prospettiva filosofica e politica ci appare molto distante e figlia di un’altra epoca, così come fatichiamo anche ad accettare che la verità possa manifestarsi nel confronto pubblico.

La menzogna è tanto più comprensiva e diffusa quanto più appare chiaro che noi viviamo nell’epoca del cinismo di massa. In questa epoca di disincanto diffuso nessuno si attende che venga detta la verità nell’arena della competizione politica, che è il luogo di esercizio di ambizioni di potere. Nelle relazioni affettive, poi, il minimo che si possa dire è che le occasioni per esercitare la menzogna sono state esponenzialmente moltiplicate dalla diffusione dei social. La stessa competizione sociale, alla quale ci viene detto non esserci alternativa, impone la menzogna e la dissimulazione all’ordine del giorno.

C’è un legame analitico tra menzogna e tradimento, nel senso che non pare essere possibile tradire senza una qualche espressione menzognera, che non rende manifesto quanto abbiamo intenzione di fare. Non bisogna nascondersi che desiderare avere accesso a tutta la verità disponibile potrebbe non essere sempre razionale. Noi siamo vittime del pregiudizio che una maggiore quantità di verità sia meglio di una quantità minore. E per quanto riguarda il tradimento sentimentale, che è il prima caso  che a ciascuno di noi viene in mente, quando pensiamo alla rottura del vincolo fiduciario, non è forse vero che spesso riconosciamo dei segnali che nella loro ambiguità trasmettono la possibilità del tradimento, ma scegliamo di non tenerne conto? Preferiamo pensarli come sintomi di una malattia stagionale e non come una malattia terminale. Potremmo avere ragione.

Il tradimento potrebbe contribuire a farci ridisegnare le nostre consuete categorie di interpretazione dell’azione, pur essendo un comportamento con il quale abbiamo familiarità? Il tradimento ferisce che cosa innanzitutto? È la rottura di un legame, certamente, o almeno la possibilità che questo legame si rompa. Ma i legami che noi stabiliamo, i legami di cui noi siamo fatti sono di diverso genere. Si pensi al motto della rivoluzione francese, che Robespierre pensava dovesse essere cucito sulla bandiera: “liberté, égalité, fraternité”. La fraternité è il lato debole di questo triangolo per noi che viviamo nelle società liberal-democratiche. Pensiamo che sia sufficiente il nostro accordo sulle regole della convivenza civile che tutelano il maggior sistema totale di libertà compatibilmente con il godimento di un eguale sistema per ciascun altro cittadino. Pensiamo che questo accordo basti a garantirci la tranquillità e la pace e a tutelare la nostra individualità. Questa individualità potrebbe essere parte dell’idea stessa di eguaglianza in un certo senso, poiché se la libertà tutela la nostra individualità, allora saremo egualmente liberi. L’eguaglianza è, cioè, da noi concepita come un eguale accesso ad opportunità grosso modo simili.

Ma bastano queste virtù politiche fredde per consolidare la nostra convivenza? Sono sufficienti gli accordi sulle procedure da rispettare per mantenere la coesione in una situazione dove la liquidità – ossia l’instabilità – dei legami sociali pare essere la nostra cifra attuale? Molti sono convinti di no. Senza la fratellanza la motivazione necessaria per costruire libertà e eguaglianza sarebbe estremamente labile per alcuni (ad esempio per tutti quei filosofi che appartengono al filone comunitario, che ha i suoi antecedenti tanto in Rousseau quanto in Hegel). Le nostre battaglie politiche, quelle poche che ancora in questo momento ha forse un senso combattere, sono esperienze di condivisione. Questa condivisione non si esaurisce nel risultato, ma continua come un processo che ha una precisa funzione di coesione. Quest’ultima idea ha una sua attrattività, perché ci fa immaginare una situazione sociale dove i rapporti di giustizia siano anche rapporti solidaristici, ma l’equivoco è in agguato, a mio parere. Questo equivoco è ritenere che le situazioni di giustizia siano una situazione di tutto o niente al modo dei rapporti modellati sulla fratellanza. La fratellanza è infatti un rapporto di tutto o niente. Con il fratello e con l’amico, che può essere una sorta di fratello, puoi litigare, ma sin tanto che non si giunge a una definitiva rottura (che può essere tanto dolorosa quanto la rottura di coinvolgenti rapporti sentimentali) il fratello  rimane sempre tale. Non è un caso che le amicizie più coinvolgenti vengono da noi spesso descritte come amicizie fraterne, a voler sottolineare un legame profondo che si avvicina ai rapporti di sangue.

La giustizia non è una questione di tutto o niente, a meno che non implichi un coinvolgimento nella comunanza di valori che descrivono un significato condiviso attribuito all’esistenza umana. Questa prospettiva è però quasi sempre legata alla religione e alle utopie rivoluzionarie e millenaristiche, e quindi, non può essere accettabile per società laiche, che presuppongono invece un pluralismo dei significati attribuibili all’esistenza da ciascuno dei suoi cittadini.  La giustizia riguarda più gli atti giusti che una prospettiva completa di giustizia. Alcuni atti possono essere solo parzialmente giusti, ad esempio le azioni compensative. Se ti viene proposto un risarcimento per quello che un tribunale ritiene un ingiusto licenziamento, il compenso realmente sana i danni che hai subito, ad esempio lo stress di trovarti senza lavoro, la perdita della tua professionalità, la fatica di cercare di rientrare nel mercato del lavoro? Potrebbe essere che tu non riesca a vedere le cose in questo modo, perché il tempo che è stato sottratto al tuo benessere non è recuperabile dal passato. Ma la situazione sarebbe identica se non ti fosse stato riconosciuto un risarcimento? Naturalmente no, ma questo risarcimento si avvicina realmente a un atto di fratellanza? Io ne dubito. Ciò  che è stato colpito dal  tuo ingiusto licenziamento ha recato un danno, magari grave e profondo, alle tue prospettive esistenziali, ma non rappresenta di solito un tradimento e una rottura di vincoli di fratellanza.

Allora dove collocare la giustizia? Il filosofo israeliano Avishai Margalit pensa che riflettere sul tradimento aiuti a ridisegnare la distinzione tra etica e morale. Si tratta di una distinzione che ha già una sua storia e di solito viene spiegata dicendo che la morale riguarda i comportamenti privati e l’etica ha a che fare invece con i comportamenti pubblici. È una prima e insoddisfacente approssimazione, perché è realmente difficile esemplificare degli atti che non abbiano potenzialmente una dimensione pubblica. Per Margalit, invece, l’etica è la sede dei rapporti umani forti e la morale quella dei rapporti umani deboli. Il tradimento riguarda la rottura dei vincoli forti. Quali sono questi rapporti forti? Le esemplificazioni sono numerose: i rapporti che si intrattengono con i propri familiari, con la cerchia più stretta dei propri amici, con il proprio paese, con la propria fede politica.

In alcune situazioni, poiché le relazioni forti possono essere molteplici, questi insiemi di rapporti forti possono entrare in conflitto tra di loro. Si prenda il film del 1984 Another Country, che drammatizza e si ispira alla vicenda  di Guy Burgess, uno dei Cinque di Cambridge, il gruppo di spie doppiogiochiste britanniche che tradì a favore dell’Unione Sovietica. Nel film ad un certo punto viene chiesto al protagonista, impersonato da Rupert Everett, oramai rifugiatosi in Unione Sovietica, se quanto ha fatto sia stato giusto. La risposta è “Giusto o sbagliato: che importa?”. Ci sono almeno due interpretazioni possibili di questa risposta. La prima la vede come la cinica risposta di un uomo anziano oramai posseduto dal disincanto sul finire della propria vita. La seconda, secondo me più interessante, è una risposta giustificativa della propria attività spionistica e di quanto agli altri è sembrato un tradimento, ma non lo è stato per lui. Il giusto e lo sbagliato devono essere interpretati all’interno di un sistema di vincoli deboli, ossia dentro a quanto Margalit chiama morale. Questi vincoli per il protagonista riguardano anche le relazioni con la propria nazione, che sono meno forti delle relazioni con la classe progressiva, rappresentata per il protagonista dall’Unione Sovietica. Non si può non pensare che se le parole del protagonista rispecchiano convinzioni profonde, allora il suo non può essere considerato un tradimento, dal suo punto di vista e relativamente ai legami forti, che rientrano per Margalit nell’etica.

Il tradimento deve essere sempre considerato come qualcosa che può essere qualificato come tale solo da parte di colui che lo subisce? La questione è complessa e ci sono casi nei quali il tradimento pare emergere con connotati di oggettività, per così dire. Un esempio è ricordato dallo stesso Margalit. Si tratta del massacro compiuto da polacchi su istigazione dei nazisti a Jedwabne un piccolo paese di 2500 abitanti. Metà della popolazione maschile polacca partecipò al rastrellamento e alla cattura degli ebrei che vivevano nel paese. Riuniti in un fienile, vennero arsi vivi nel luglio del 1941. La vicenda è narrata in un volume di Jan Gross che ha un titolo significativo sia in polacco (Sąsiedzi  “i vicini di casa”) sia in italiano (I carnefici della porta accanto). Ma che cosa è stato tradito in questa orribile vicenda? I polacchi avrebbero potuto dire che hanno solo che liberato il loro paese dall’infezione giudaica, mentre introiettavano la propaganda nazista, secondo la quale loro stessi erano dei subumani. Noi pensiamo che sia stato consumato un tradimento nei confronti della prossimità.

Quando si vuole sottolineare una condivisione emotiva con un amico o un’amica si dice che li si sente vicini. Il vicino è il prossimo. Per questo in certe circostanze appare perfettamente sensato il precetto di amare il prossimo come se stessi. Ma chi è il nostro prossimo? Come è noto, la parabola del buon samaritano offre una risposta. Un uomo è derubato e picchiato e viene soccorso da un estraneo. Il samaritano e l’uomo derubato non si conoscevano, ma una vicinanza diretta stabilisce l’occasione di un comportamento di amicizia. Ma la prossimità può essere tanto beata, come nella parabola del buon samaritano, quando minacciosa, quando lo sciovinismo si amplifica e si moltiplica, con la sua enorme forza regressiva, dall’odio per le altre nazioni al fastidio per chi abita un’altra regione del proprio paese o a chi viene percepito come diverso nel nostro piccolo borgo.

Si tradisce, allora, solo quello che è prossimo e familiare nel vincolo fiduciario? Da un certo punto di vista è così, a vedere le cose dalla prospettiva di coloro che si sentono traditi, ed effettivamente si piò sostenere che chi con le sue azioni scioglie il vincolo forte della fiducia e della prossimità (che non sono certo la stessa cosa) tradisce. Tuttavia, a vedere le cose dalla prospettiva di chi non ritiene più questo vincolo fondante una parte della sua dimensione etica si deve concludere in maniera diversa. La nostra comprensione intuitiva del tradimento si complica e si rivela inadeguata quando guardiamo le questioni in maniera più dettagliata e non è detto che chi si sente tradito provi l’esperienza di una semplice sottrazione di fiducia, poiché potrebbe sperimentare piuttosto un mancato riconoscimento che riteneva invece naturale. Questo accade nel cosiddetto tradimento di classe. Ci sono due aneddoti su Zhou Enlai, che lo illustrano bene. Nikita Chruščëv, che soffriva di un complesso di inferiorità per la raffinatezza di Zhou Enlai, e lo vedeva come l’uomo di mondo che lui non era, cercò di provocarlo dicendo: “È interessante, no? Io sono di origine operaia, mentre tu sei nato in una famiglia di proprietari terrieri”. La risposta di Zhou Enlai: “È vero, ed entrambi abbiamo tradito la nostra classe”. Il secondo racconta di quando chiesero a Zhou Enlai se la Rivoluzione francese fosse una buona cosa: “È troppo presto per dirlo”.

Questi due aneddoti parlano di potere. Ci dicono che la prospettiva della giustizia è uno sguardo lontano dalla lotta, che questa lotta è fatta di compromessi e errori che possono anche apparire fatali nel presente, ma che riveleranno la loro natura quando coloro che commisero quelle azioni che magari ora ci appaiono ingiuste e censurabili non ci saranno più. È questa una prospettiva assolutoria? In fondo, dire che tutto deve essere osservato in prospettiva, non equivale a dire che tutto deve essere giustificato in una prospettiva più ampia? “Tout comprendre c’est tout pardonner” secondo la sentenza attribuita a Madame de Staël. Ma dobbiamo attendere così a lungo come ironicamente indicava Zhou Enlai? Di fatto lui non aveva atteso, perché si era dotato della filosofia della storia marxista-leninista e già sapeva che nella rivoluzione francese e in quello che ad altri era apparso come il suo tradimento di classe semplicemente si palesava la razionalità della storia nel primo caso e il suo collocarsi accanto alla classe progressiva, come Marx chiamava il proletariato, nel secondo. Insomma il suo tradimento per lui non era affatto tale, come non lo era per i Cinque di Cambridge, come non lo è per chi chiamiamo apostata, ma che semplicemente si vede come un credente migliore di noi.

Ma ci sono casi dove il tradimento è effettivamente percepito come tale da tutti coloro che vi sono coinvolti, anche se chi viene tradito non ne è attualmente a conoscenza e forse mai saprà di essere stato tradito? Io penso che in questa categoria rientri solo il tradimento sentimentale-sessuale. Chi tradisce, poi, molto spesso non intende affatto rompere il vincolo fiduciario che ritiene meritevole di continuare a conservare con il proprio partner ufficiale. Chi lo accompagna nella realizzazione del suo tradimento molto spesso non si attende affatto di sostituire quel vincolo. Perché dovrebbe razionalmente desiderarlo, del resto? Chi ha mostrato di essere capace di tradire, prima o poi tradirà anche te. Non è una regola universale, ma è un comportamento generale. Per questo motivo ci sono numerose persone che preferiscono avere relazioni con persone già impegnate, anche se spesso attribuiscono questa circostanza al caso. Ne sono rassicurate sia nel proprio giudizio negativo nei confronti dell’altra metà del cielo sia nei confronti della propria autostima, di solito scarsa. Per questi motivi molto semplici ritengo che il caso paradigmatico di tradimento sia quello sentimentale. Molto spesso in quel caso l’idea del tradimento è effettivamente condivisa. Chi tradisce pensa effettivamente che lo sta facendo e una parte importante dell’eccitazione e del piacere di questo gioco deriva proprio da questo. Sa che sta mettendo a rischio un legame forte del quale magari non intende provocare lo scioglimento. Ma condivide qualcosa, a me sembra, con gli altri esempi della fenomenologia del tradimento come rottura di vincoli ed è quanto sottolineava il personaggio, oramai anziano, interpretato da Rupert Everett: “Giusto o sbagliato: che importa?”.

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