MEA CULPA, SACRIFICIO E REDENZIONE DELL’INTELLETTUALE CONTEMPORANEO

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EMANUELE AMBROSIO

Tra l’Illuminismo e l’età contemporanea, tra modernità e post-modernità, si è verificato un importante cambiamento nell’atteggiamento dell’intellettuale nei confronti della ragione e delle sue potenzialità. Nel testo La decadenza degli intellettuali, Zygmunt Bauman descrive in maniera efficace la dinamica di questa trasformazione, la quale ha modificato il ruolo dell’intellettuale da legislatore ad interprete. Bauman chiama legislatore la tipica figura del pensatore illuminista, fortemente convinto delle capacità della ragione di riuscire a scorgere nel mondo un ordine e di potervi attingere le leggi intrinseche, non soltanto per progredire nella conoscenza, ma anche per migliorare le condizioni di vita dell’umanità in generale. Tale fede nella ragione e nella possibilità, grazie ad essa, di raggiungere un tipo di conoscenza e di benessere universali ha implicato la volontà e la tendenza a classificare e a controllare gli eventi per fini ordinatori. Pertanto l’atteggiamento moderno ha alimentato un tipo di discorso e di pratiche che, forti della convinzione di essere mossi da criteri universali e fini non contingenti, miravano a dirigere la conoscenza e le attività umane verso tali scopi per il bene dell’umanità, principalmente tramite l’istruzione e l’educazione degli individui. Secondo Bauman, la costrizione alla libertà, parafrasando Rousseau, non era l’espressione di una forma di radicalismo marginale, ma il progetto stesso dell’Illuminismo.

Per spiegare il cambiamento nel ruolo dell’intellettuale, il sociologo polacco utilizza un’interessante metafora: quella del guardiacaccia e del giardiniere. Nell’epoca pre-moderna l’uomo era un guardiacaccia nei confronti del mondo, perché, trovandosi in presenza di un ordine naturale e divino, pensava di non dover far altro che agire per preservarlo, impedendo trasformazioni che ne avrebbero potuto compromettere il funzionamento. Ma, con l’avvento dell’epoca moderna, lo stato di natura diventa una condizione da superare, e Hobbes impersona perfettamente questo nuovo tipo di atteggiamento. L’uomo moderno diventa quindi giardiniere, cioè colui che non si limita più a prendersi cura del mondo, ma che lo modifica, in quanto si persuade del fatto che può ambire a raggiungere una situazione ideale, conoscendo ed intervenendo sulla realtà per piegarla ai propri scopi. L’intellettuale moderno cioè “legifera” nella realtà seguendo i criteri della Ragione, secondo il noto inestricabile binomio sapere-potere ben analizzato da Foucault.

Tuttavia le nuove conoscenze e la tecnica, nate dal progresso sviluppato da questo nuovo atteggiamento nei confronti del mondo, si emancipano dai fini posti originariamente dall’uomo per acquisire una propria direzione autonoma. L’uso della ragione e l’accumulo di conoscenze voluti dai moderni hanno cioè determinato l’impatto della ragione con una pluralità di prospettive che rivendicano la propria validità, col conseguente affiorare della consapevolezza, di fronte alla crisi delle certezze e al crollo dei fondamenti, che ogni visione del mondo, da quella che professa di essere razionalmente fondata e quindi universale, alla tradizione locale, è dotata in realtà di presupposti e di fini parziali, sostanzialmente autolegittimanti. Ogni sistema è cioè fondato su principi e criteri che risultano validi e sensati se calati nel contesto delle pratiche che li convalidano. In questo contesto alla Ragione si sostituisce la Comunità, sul cui chiarimento Gadamer con la sua ermeneutica ha dedicato pressoché tutto il suo lavoro intellettuale. Gli intellettuali, da legislatori che erano, con la post-modernità possono tutt’al più ambire al ruolo di interpreti. Per usare le parole di Bauman: «La strategia tipicamente moderna del lavoro intellettuale è quella caratterizzata nel modo migliore dalla metafora del “legislatore”. Esso consiste nel fare affermazioni autorevoli che arbitrano controversie di opinioni e selezionano quelle opinioni che, una volta prescelte, diventano corrette e vincolanti. […] La strategia tipicamente postmoderna del lavoro intellettuale è quella caratterizzata nel modo migliore dalla metafora del ruolo d’”interprete”. Esso consiste nel tradurre affermazioni, fatte all’interno di una tradizione fondata sulla comunità, in modo tale che possano essere capite all’interno del sistema di conoscenza basato su di un’altra tradizione» (La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti, 1992).

Il punto di passaggio quindi è la decaduta pretesa della ragione di poter attribuire validità universale a pratiche che invece hanno senso solo all’interno dei percorsi che li hanno prodotti. Il relativismo, quindi, da spauracchio della conoscenza, diventa un elemento apparentemente ineliminabile del pensiero e della realtà. Una delle conseguenze è l’assenza di forme di conoscenza non ideologiche, perché ogni sistema può tutt’al più essere più o meno consapevole di avere presupposti scelti arbitrariamente (e spesso irrazionalmente), di essere cioè locale e situato in una tradizione di pensiero che è l’unica cosa che gli conferisce validità. Un ulteriore effetto è che non esiste una sede privilegiata di attribuzione dello statuto di verità (o di bellezza estetica o del giusto), passato dall’essere appannaggio degli intellettuali ad altre forze, tra cui, secondo Bauman, domina quello del mercato, «nel quale prezzo e “domanda effettiva” detengono il potere di distinguere tra il vero e il falso, il bene e il male, il bello e il brutto». Questo stato di cose implica che lo status dell’intellettuale, pur mantenendo un certo valore culturale, ha perduto completamente ogni rilevanza politica, quindi ogni possibilità di poter agire nella società. Anzi, ciò all’intellettuale non è nemmeno più richiesto, perché a fronte dell’iper-specializzazione e della settorializzazione, i professionisti della cultura possono tranquillamente mantenersi al largo dal dibattito pubblico sulle problematiche sociali e politiche, o addirittura anche solo dal dibattito interdisciplinare.

Nonostante il quadro non lieto, a quest’autoaccusa, a questa lucidissima ammissione di irrilevanza dell’intellettuale nel mondo contemporaneo, non deve fare riscontro la nostalgia per i bei tempi andati, quando l’intellettuale pretendeva di conoscere le leggi della storia e della società, i cui fili potevano essere scientemente manipolati per raggiungere un obiettivo ritenuto teleologicamente necessario. Pensatori come Karl Popper e Friedrich von Hayek hanno chiaramente argomentato che la complessità umana, della cultura e della società impediscono la riuscita di previsioni a largo raggio e a lungo termine, interdicendo quindi qualsiasi possibilità di pianificazione totale. Il modus pensandi storicistico, con un vero e proprio bias della profezia, proviene da una tradizione di pensiero che va da Platone a Marx e anche oltre, passando trasversalmente dall’idealista Hegel al positivista Comte e ad altri. Nello stesso modo in cui la scoperta dei processi della selezione naturale e dell’evoluzione biologica hanno mostrato l’estrema e controintuitiva complessità della vita, il mondo e la storia si manifestano e procedono dimostrandoci, con la loro stessa esistenza, quanto le nostre previsioni su di essi possano essere sbagliate. Il metodo storicistico è intrinsecamente limitato, in quanto pretende di riuscire, sulla base delle capacità della ragione e della conoscenza del passato, a scorgere nella storia e nella società delle leggi universali che permetterebbero di fondare una visione universale, dalla quale scaturiscono concetti e pratiche la cui validità viene garantita dall’aderenza ai presupposti ritenuti veri, in un circolo autolegittimante.

Se il successo della cultura ha determinato la crisi della cultura stessa, per cui l’intellettuale deve riconoscere la propria sostanziale impotenza, dalla crisi della cultura, l’intellettuale contemporaneo può ottenere la redenzione riscoprendo la propria funzione, oltre a quella baumaniana di interprete, anche di vigile nei confronti dei sistemi profetici e totalizzanti. Questi ultimi, agendo nella dimensione sociale e politica, sono caratterizzati da un’idea strumentale dell’uomo, pensato come un mezzo e non come fine. Ciò è pericoloso anzitutto per la libertà individuale, ma anche per l’ordine spontaneo (anche se certamente non perfetto) che sorprendentemente e controintuitivamente emerge dall’incontro tra gli individui. Il dibattito tra fondazionalisti e antifondazionalisti, ossia tra coloro che pensano esistano elementi della conoscenza o della morale autoevidenti e coloro che invece pensano non esistano, è aperto e si suppone lo resterà ancora a lungo. Ma il pericolo del fondazionalismo storicistico è tale che dovrebbe convincere gli intellettuali della necessità di affrancarsi dalla nostalgica volontà di ambire alla costruzione di sistemi di pensiero totalizzanti da cui trarre elementi per pianificazioni miracolose per il presunto bene dell’umanità.

Storicamente il rituale dell’autodafè, cioè dell’atto di fede del penitente nei confronti dell’ortodossia cattolica, era imposto e la confessione estorta, attraverso un preciso rituale comprendente la proclamazione della pena e il sacrificio del condannato. L’onestà intellettuale e la definizione stessa di filosofia  (intesa come atteggiamento critico mosso dall’amore per il sapere e non dalla presunzione di sapere), richiedono invece uno spontaneo, sincero e autentico atto di fede degli intellettuali, i quali, oltre all’ammissione e alla proclamazione del fatto che la cultura e il pensiero hanno modificato il loro ruolo, dovrebbero soprattutto compiere un sacrificio di sé nei confronti della stessa filosofia e del pensiero. Questo perché la libertà di pensiero e l’argomentazione critica dei presupposti di ogni prospettiva garantiscono e si spera continueranno sempre a garantire, una difesa nei confronti delle visioni totalizzanti capaci di oscurare la meravigliosa, sfaccettata e sorprendentemente controintuitiva varietà di eventi, fenomeni e processi che il mondo ci offre.

Endoxa ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA Senza categoria SOCIOLOGIA

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