“SOLO IL SANGUE SECCO DELLE SUE VENE”: L’INSENSATEZZA DEL SACRIFICIO

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IVAN CORRADO

Cosa accomuna un fondamentalista islamico che si fa esplodere nel centro di una piazza, un uomo che uccide sua madre e poi se stesso su ordine della donna amata ed un monaco cristiano del Duecento che si flagella a sangue il dorso? Risposta: una dedizione assoluta verso un concetto distorto di sacrificio.

Intendiamoci: ovviamente non tutti i sacrifici sono deleteri e condannabili. Quando, in situazioni estreme, la via della sofferenza personale e della morte sono le uniche percorribili per far sì che si produca il minor danno per tutti, il sacrificio di sé acquisisce senso e rappresenta un esempio di comportamento encomiabile. Al contrario, se, in un ventaglio di diverse opportunità, si sceglie deliberatamente il dolore, l’annichilimento e l’umiliazione fisica e psicologica solo al fine di diventare un santo, un martire o un eroe, si cadrà vittima di una visione deformata ed estremamente pericolosa del sacrificio.

Com’è noto, in Al di là del bene e del male (1886) e nella Genealogia della morale (1887), Friedrich Nietzsche manifesta tutto il proprio disprezzo per la cosiddetta morale degli schiavi, i quali, trascinati dai sacerdoti e dalla loro invidia nei confronti della superiorità dei signori, elaborano una tavola di valori opposti impregnata di risentimento. Anteponendo al corpo lo spirito, al sesso la castità e alla forza l’umiltà, essi imperniano il loro agire sul sacrificio di sé e sull’invenzione del peccato originale come assurdo espediente per cercare di dare un senso alla sofferenza del mondo, tenendola sotto controllo. Secondo Nietzsche, l’umanità ha sempre conosciuto il sacrificio che in origine era fatto nascere dal “forte e divino egoismo” umano, ossia dall’autoaffermazione di sé e dall’aspirazione a signoreggiare, mentre con la degenerazione cristiana, il sacrificio si è trasformato in abbandono di sé, in rinuncia alla vita, in manifestazione di timore e vigliaccheria.

Bisogna però ricordare che la critica nietzscheana nei confronti dell’Imitatio Christi, ovvero di tutto quell’insieme di pratiche volte ad esperire le stesse sofferenze provate da Cristo nel corso del suo calvario, non si dirige verso la figura stessa di Gesù, nei confronti del quale Nietzsche ha sempre nutrito profonda ammirazione, al punto da ritenere che “non c’è nulla di più contrario al Vangelo del sacrificio”. Questa affermazione sembra essere condivisa anche da José Saramago, il quale ne Il Vangelo secondo Gesù Cristo (1997), immagina un Gesù estremamente umano e carnale, schiacciato da un destino impostogli fin dalla nascita. Durante un mirabile dialogo, Dio Padre afferma con raggelante cinismo che grazie al sacrificio di suo Figlio, “si edificherà l’assemblea di cui ti ho parlato, ma le sue fosse, per essere ben salde, dovranno essere scavate nella carne, e le sua fondamenta composte da un cemento di rinunce, lacrime, dolori, torture, di tutte le morti oggi immaginabili e di altre che solo nel futuro si conosceranno”. Gesù è annichilito e orripilato di fronte alla “storia interminabile di ferro e sangue, di fuoco e ceneri” e al “mare infinito di sofferenza e lacrime” che l’implacabile Padre gli prefigura come esito della sua morte in Croce. Davanti alla brutale disumanità di Dio, Saramago fa risaltare la figura del Diavolo, il quale fa notare a Gesù come in quel terrificante futuro vi saranno due maniere per perdere la vita, “una con il martirio, l’altra con la rinuncia perché non basta che debbano morire quando arriva l’ora, c’è bisogno che le corrano pure incontro castigandosi per essere nati con il corpo che Dio ha dato loro e senza il quale non saprebbero dove porre l’anima”, sottolineando che “tormenti simili non li ha inventati questo Diavolo che ti sta parlando”.

Nella storia, anche al di fuori della cristianità, sono stati infatti gli uomini ad inventare la narrazione politica, religiosa o ideologica che ammanta e permea il sacrificio, al fine di innescare un meccanismo psicologico tale da spingere le persone a compiere le peggiori nefandezze. Come afferma Yuval Noah Harari nel suo ultimo saggio, “se volete davvero convincere la gente di una fantasia, costringetela a fare un sacrificio per quella fantasia. Una volta che avrete sofferto per una storia, sarete convinti della sua realtà” (21 lezioni per il XXI secolo, 2018). Poiché alla maggior parte degli individui non piace ammettere di essere sciocchi e di aver sofferto per niente, nel momento in cui si è deciso di rinunciare a qualcosa per un fine superiore, si farà di tutto per autoconvincersi dell’assoluta verità di quel fine. In tal modo, per sottometterci al suo potere, colui che ci spinge al sacrificio “non ha bisogno di darci alcunché, né pioggia, né denaro, né vittoria in guerra. Piuttosto ha bisogno di portarci via qualcosa. Una volta che ci abbia convinti a fare qualche doloroso sacrificio siamo in trappola”.

Questo perverso meccanismo psicologico pare essere alla base anche di relazioni umane malate, di cui Fabrizio De André ci fornì un chiarissimo esempio ne La ballata dell’amore cieco (o della vanità), incisa nel 1966. Il protagonista del brano è “un uomo onesto e probo”, reso a tal punto schiavo dall’amore provato nei confronti di una donna che invece non lo amava affatto, da accettare le sue richieste più atroci. Mossa solo dall’oscena vanità di vedere un uomo disposto a tutto per lei, la donna ordina al protagonista di portargli il cuore di sua madre da dare in pasto ai cani, di tagliarsi i polsi e infine di uccidersi per lei (“l’ultima tua prova sarà la morte”).

A questo punto viene da chiedersi cosa concretamente resti nelle mani del Dio di Saramago, della donna della canzone e di ogni sacerdote, politico o ideologo che soggioga le menti altrui attraverso il sacrificio e la sofferenza. Cosa ottengono di tangibile gli speculatori, gli esperti del marketing del dolore? La risposta, forse, la fornisce De André quando mostra la reazione della protagonista del suo brano davanti all’estremo sacrificio dell’amato, allorché “fu presa da sgomento quando lo vide morir contento e innamorato, mentre a lei niente era restato, non il suo amore non il suo bene, ma solo il sangue secco delle sue vene”.

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