BARBIE A ROTELLE
FABIO POLIDORI
È notizia relativamente recente: «Barbie unveils line of inclusive dolls with disabilities», ovvero «Barbie presenta la linea inclusiva di bambole con disabilità». Forse siamo in presenza di un mutamento epocale, dato che sino a poco fa le «linee» di maggiore successo si qualificavano soprattutto come esclusive, e non inclusive; ma tant’è. Dunque Barbie annovererà un altro prodotto, un’altra figura tipica, ad ampliare il range all’interno del quale un certo tipo estetico, una certa fisionomia può ottenere il marchio della (sua) bellezza. Si tratta di una Barbie disabile, anzi, più di una Barbie disabile, che presenta più forme di disabilità, le quali vengono affrontate con altrettante adeguate protesi, dalla sedia a rotelle all’arto artificiale. Mattel, la ditta produttrice, ha dichiarato che il marchio può «elevare il discorso sulle disabilità fisiche includendole nella linea di bambole alla moda per presentare e promuovere una visione multidimensionale della bellezza e della moda».
La dichiarazione ufficiale dell’azienda è certamente ispirata a uno dei più nobili propositi, quello appunto che mira a non discriminare gli individui sulla base delle loro prestazioni attitudinali o delle prestazioni estetiche dei loro corpi. È insomma venuto il momento di segnalare ai principali utilizzatori delle Barbie – ossia genitori e figli sparsi per tutto il pianeta – che la bellezza non va più cercata nella perfezione somatica o nell’eccellenza delle performance consentite da organismi intatti, ma nell’accoglienza di individui meno fortunati, imperfetti, diversamente capaci.
Inutile sottolineare quanto sia difficile impedirci di pensare che tale iniziativa, assolutamente benemerita da un punto di vista psicosociale, sia altrettanto benemerita e del tutto in linea dal un punto di vista dell’incremento e della crescita dei profitti aziendali; in tal senso, la Mattel dimostra grande creatività imprenditoriale e di marketing; al punto da intravedere una grande opportunità impegnandosi non già nella produzione di nuovi tipi di bambole – magari sempre più sofisticate nell’aspetto, nei materiali e negli accessori – ma nella produzione di nuovi elementi di dignità da applicarsi tipi umani, perciò a loro volta degni di diventare bambole tra le bambole più famose al mondo. Da qui, ci si potrebbe facilmente aspettare – suppergiù tra qualche decennio, qualora la grande e attuale questione della regolamentazione dei flussi migratori si fosse non dico risolta ma parecchio raffreddata – una Barbie rigorosamente accessoriata di salvagente e coperta isotermica. Non va dimenticato che produrre nuovi tipi umani degni di diventare bambole significa soprattutto, per l’azienda, sollecitare ulteriori stimoli alla fantasia ludica dei bambini e di conseguenza ulteriori mete per i loro desideri, con conseguenze commerciali facilmente prevedibili.
In questo caso, dunque, una operazione di marketing volta a inglobare differenze sino a pochi decenni prima fonte di discriminazione all’interno di una sensibilità comune, con l’effetto di modificare e rendere più accogliente tale sensibilità, si rivela virtuosa a più livelli: socioculturale, industriale, commerciale, comprovando oltretutto come una pratica di inclusione possa produrre effetti positivi senza contropartite penalizzanti per nessuno, fatta eccezione per genitori non sufficiente benestanti da riuscire ad accontentare una prole particolarmente ghiotta dei prodotti del marchio e assai determinata ad acquisirli.
Qualcuno, a questo punto, potrebbe tuttavia obiettare che, in fondo, si tratta di giocattoli e di giochi; si tratta di un’operazione industriale e commerciale non priva di una certa spregiudicatezza; si tratta di un ambito – quello dell’infanzia – che può essere dotato di un valore esemplare solo parzialmente trasferibile su un piano universale e soltanto a determinate condizioni. A condizione, per dirne una in questo caso, che l’inclusione del diverso e del sino ad allora discriminato non rimanga confinato su un piano esclusivamente ludico o sul piano di una traduzione edulcorata a uso dell’infanzia di ciò che si incontra nel mondo degli adulti. E in tal senso questo esempio può forse diventare istruttivo. Anche perché l’inclusione in questione avviene si piani che non coinvolgono solo i bimbi. Ed è una inclusione che avviene anzitutto nel segno di una certa coerenza: coerenza in primo luogo estetica, in questo caso, dato che le Barbie con protesi sono riconoscibili in quanto Barbie e il loro aspetto complessivo non va minimamente a turbare o a intaccare i canoni di quella che, necessariamente, deve restare una linea, tanto più riconoscibile quanto più vuole essere desiderabile.
Anche da questo punto di vista, dunque, c’è da imparare da una operazione di marketing destinata al mondo dell’infanzia. Per farla breve: non è tanto il discriminato o handicappato, come più spesso una volta si diceva, a essere incluso dai giovanissimi, non è il disagio dell’individuo svantaggiato a essere accolto e addirittura desiderato da bambine e bambini, ma, molto più semplicemente e banalmente, è la nuova linea di un marchio prestigioso: è il brand, è la griffe Barbie. Qualunque cosa ne venga toccata, ne viene anche elevata, impreziosita, viene desiderata, non importa se decisamente orribile, come ad esempio è possibile talora constatare in occasione di talune sfilate di moda nelle quali, al riparo da un marchio prestigioso, vengono presentati modelli del tutto improbabili e privi di senso, oltre che di gusto. E da questo punto di vista i bambini non si differenziano affatto dagli adulti, sono sensibili al prestigio, alla riconoscibilità dell’oggetto posseduto e al potere quasi magico che questo detiene, quello di elevare di rango chi lo possiede.
Credo che da questo piccolo esempio, che ci ha dato modo di gettare uno sguardo un poco più attento a certi meccanismi e a certe componenti che concorrono a motivare e a rendere effettuali certe pratiche di inclusione, si possa prendere spunto per ulteriori considerazioni di carattere più generale. La prima di queste considerazioni riguarda la nostra capacità di accoglienza e di inclusione, la quale si riconferma essere un tratto piuttosto accentuato di una civiltà che, non a caso, si riflette in una storia (e probabilmente in un futuro) di espansione: una espansione che è anche inclusione. È in effetti difficile pensare che una civiltà, un organismo culturalmente e spiritualmente omogeneo possa via via ampliare la propria consistenza e la propria estensione senza capacità di includere, il che implica anche la capacità di tollerare o addirittura di nutrirsi di un certo tasso di disomogeneità interna. L’inclusione, nella linea del brand Barbie con protesi esibite e non nascoste, indica con chiarezza che inclusione non significa soltanto omologazione coatta, ma anche capacità di apprezzamento di ciò che si differenzi. Questo però non significa – seconda considerazione – che tale capacità possa essere illimitata e aprirsi in qualunque direzione: la condizione imprescindibile in virtù della quale una simile operazione di inclusione possa essere vantaggiosamente effettuata consiste nella capacità di valorizzare in ciò che è diverso quegli elementi che andranno a rafforzare, e non a indebolire, la linea stilistica (in ciò spiritualmente contrassegnata) che accoglie e include il diverso. Ovviamente, tale considerazione va posta anche sul piano storico, della storia del gusto e dello spirito: non tutto può essere accolto in qualunque momento indistintamente. Se, nel 1959, la ditta Mattel avesse tentato di lanciare sul mercato una linea di bambole mutilate o paraplegiche difficilmente l’intrapresa avrebbe avuto successo: le sensibilità di sessant’anni fa erano molto diverse e di certo non staremmo qui a parlare di Barbie.
Non si tratta perciò di un canone esclusivamente estetico. Si tratta però pur sempre di un canone, ovvero del modo in cui un canone si storicizza, si afferma attraverso processi di evoluzione che ne impediscono l’irrigidimento all’interno di una identità assoluta con se stesso. Anzi, la storicizzazione di un canone è fattore indispensabile affinché possa darsi appunto un canone; il quale, se non avesse la capacità di storicizzarsi, ossia di modificarsi, di acquisire al proprio interno anche (e soprattutto) ciò che in certa misura lo contraddice o lo nega, non si darebbe nemmeno e si ridurrebbe a una semplice imposizione, a un imperativo, a un elemento di forza sempre esposto alle aggressioni esterne e incapace di rafforzarsi, di aumentare le proprie difese immunitarie. E sono proprio tali difese immunitarie a costituire la fortuna, per così dire, dell’incluso. Se infatti non ci fossero difese immunitarie non ci sarebbe canone e non ci sarebbe inclusione. Già – si potrebbe replicare – ma non ci sarebbe nemmeno esclusione. Vero. Ma vero solo in apparenza e sul piano di una piatta logica, giacché l’escluso non desidera semplicemente la non esclusione – la quale potrebbe verificarsi anche all’interno del puro nulla, di un nulla di rapporti di esclusione/inclusione e dunque anche del suo stesso essere nullificato – e desidera bensì l’inclusione.
Siamo così passati sul versante di ciò che – di colui il quale – si trova dalla parte dell’escluso. Poiché stiamo parlando di bambole possiamo anche consentirci la licenza di fingere desideri e aspirazioni senza incorrere in gravi scorrettezze. E dunque immaginare che la Barbie costretta sulla sedia a rotelle aspiri a quella inclusione che le consentirebbe di interagire con quelle che ella ritiene le sue simili; altrimenti, che senso avrebbe un tale desiderio? Dicendo questo, dunque, possiamo vedere come l’inclusione abbia un preciso senso, una precisa e unica direzione: mai infatti verrebbe in mente alla Barbie diversamente abile di includersi includendo le sue simili e trasformandole in diversamente abili. E questo punto, ancorché piuttosto banale e scontato nella sua definizione, è decisamente rilevante. È il punto per il quale ne va di cosa sia il simile, il somigliante, la somiglianza, l’assimilazione. In altri termini, in ogni caso di somiglianza o assimilazione, è implicato un modello (che non necessariamente coincide con il canone di cui sopra) il quale detta le condizioni alle quali è possibile una assimilazione. E la prima di queste è che il modello sia riconosciuto come tale, sia cioè non solo imitato ma anche introiettato. Che sia assimilato, potremmo dire: l’assimilazione comporta un doppio versante o una doppia valenza: assimilarsi (a un modello, a una linea, a uno stile) è bensì, all’esterno, un agire in conformità al modello cui si vuole o deve corrispondere, ma è pure, all’interno, un assimilare quel modello, interiorizzarlo, farlo proprio, trasformarsi in esso. Il che non significa necessariamente non metterlo in discussione, ma significa metterlo in discussione solo dopo che lo si è interiorizzato, significa metterlo in discussione dall’interno, contribuendo magari a modificarlo ma dall’interno, da una posizione se non proprio amica perlomeno non nemica e non ostile, ma critica.
Cosa implica dunque l’assimilazione intesa nel senso dell’interiorizzazione e dell’appropriazione? Credo che, nonostante le menomazioni e le protesi, nessuno abbia grosse difficoltà a riconoscere nella peculiare esilità della figura, nello sguardo sempre po’ malinconico e accattivante, nell’incondizionato e composto sorriso, nella cura delle acconciature, nella selezione dei capi di vestiario e degli indumenti, nella ricercatezza degli accessori, proprio quel tratto che costituisce ciò che contraddistingue il brand. Certo che la diversità è evidente, macroscopica, anche drammatica; eppure quel tratto di diversità, di alterità che potrebbe mettere in discussione un paradigma di bellezza di per sé non poco longevo ha la possibilità di essere ospitato, di essere accolto, di essere a sua volta assimilato e persino valorizzato. È una valorizzazione della differenza, come si potrebbe dire. La quale però, come abbiamo visto, non può essere (né deve venire intesa come) incondizionata. Nonostante la traumatica drammaticità delle loro storie individuali, le Barbie menomate hanno costruito le premesse della loro inclusione proprio con la precisa consapevolezza di dovere essere degne dei loro modelli o del loro modello, di dovere in certa parte rinunciare a quel tratto di diversità, di alterità assoluta che è custodito nelle vicende della loro vita e in particolare nell’episodio traumatico che, per sempre, le ha rese diverse. Senza tuttavia impedire loro di mantenere una certa linea, un certo stile, una inclinazione all’appartenenza, che sono le condizioni necessarie, irrinunciabili – anche perché vantaggiose per tutti – di ogni assimilazione, di ogni inclusione.
Endoxa ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA POLITICA endoxa marzo 2019 fabio polidori FILOSOFIA società
Sembra qualcosa di innocuo, di innocente e persino positivo; e lo sarebbe se non si nascondesse dietro un giocattolo per bambine – che da oltre mezzo secolo è diventato un simbolo – l’insidia del manovranento. In realtà, dietro la “pensata” di una Barbie su una carrozzina per infermi, si cela NON una sensibilizzazione – che per inciso, nessuno può dare a un altro che non sia autonomamente disposto nell’animo – ma si tratta invece di un “ordine”, una persuasione subdola, occulta, per il cui contenuto alla bambina DEVE giungere il messaggio,che non ha niente a che vedere con l’inculcamento di buone visioni della socialità e del prossimo meno agile ma una sostituzione della capacità di avere un proprio pensiero,di come deve comportarsi;e non su una base educativa ma appunto coercitiva, allineativa, non esente da speculazioni e business di infimo livello. Per questo, la “novità” non ha nulla di nuovo,riguardo a certa inclinazione dell’umano a fare affari con sempre meno scrupoli.
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