IL DEMONE DEL VIZIO: LA RESPONSABILITÀ INDIVIDUALE E IL SORGERE DEL TIRANNO NELL’ANTICHITÀ GRECA
ELENA IRRERA
In un noto frammento della sua opera Sulla natura, Eraclito dichiara: “Il carattere di un uomo è il suo demone.”
Il rapporto tra carattere e demone sembra denotare un vero e proprio rapporto di causalità. Si potrebbe infatti sostenere che il carattere stesso di ogni essere umano, concepito come sviluppo delle proprie inclinazioni di base e come frutto del consolidamento di abitudini acquisite nel corso della vita, finisca con il determinare attivamente gli esiti di quest’ultima, fissandone i connotati entro uno spettro di possibilità che spazi da una pregevole condizione di beatitudine ad una degna di commiserazione.
In questo senso, pur mantenendo un’aura iniziatica e sacrale, il demone eracliteo appare ben lontano dal tinteggiare i connotati della vita umana con i colori offuscati di un impenetrabile mistero. Si configura piuttosto come logica conseguenza di scelte responsabilmente compiute, tanto nel bene quanto nel male. Si potrebbe inoltre intravederci una volontà di affrancamento da una tradizione culturale che è stata spesso rappresentata come propensa ad identificare il “demonico” con l’azione esterna, arbitraria e capricciosa della divinità sull’essere umano Assumendo un simile modo di concepire la rappresentazione tradizionale del demonico, il daimôn eracliteo non apparirebbe più come forza capace di direzionare inflessibilmente le azioni umane dall’esterno, bensì come principio di azione interna e umana condizionato dal carattere del soggetto agente. Se il demone è un’opera di forgiatura del carattere, solo un carattere virtuoso avrà il privilegio di culminare in quella condizione di felicità che è eu-daimonia – ossia la condizione di un’anima posseduta da un buon demone. Al contrario, inclinazioni incapaci di gestire la componente pulsionale della psiche umana apriranno il varco ad una congerie di disposizioni caratteriali etichettabili come viziose, e per questo foriere di infelicità.
Ammettendo che il demone eracliteo costituisca una figura archetipica del potere umano di controllo di ciascuno sulla propria vita, potremmo chiederci se e in che misura la comunità politica entro la quale il demone individuale prende corpo condizioni gli esiti del carattere e la possibilità di una vita autenticamente felice. Può una costituzione ideale, capace di veicolare pubblicamente attraverso i suoi princìpi fondazionali le coordinate per un carattere virtuoso, essere considerata come un potere puramente esterno al demone interiore di ciascuno dei suoi membri? Una città presieduta da un potere permissivo, che lasci spazio al proliferare di desideri lascivi e pulsioni aggressive tra i suoi abitanti e che arrivi perfino ad incentivarne lo sviluppo, può sostituirsi alla responsabilità individuale e discolpare chiunque si astenga dal fornire a se stesso le possibilità di una narrazione differente di sé e dei propri poteri?
Una lezione che è possibile trarre dalla lettura di alcuni testi dell’antichità classica è la seguente: sebbene il carattere – e, di conseguenza, gli esiti della vita – di ciascun individuo non possano evitare di essere condizionati dalla presenza di realtà politiche di per sé penalizzanti, è possibile pervenire all’acquisizione di una consapevolezza che, modificando il carattere stesso, conduca gradualmente alla costruzione di una politica differente. Non solo la felicità individuale, ma la polis stessa sarà il demone buono di caratteri coscientemente responsabili del proprio potere di incidere nella vita politica e nei suoi esiti.
Una simile logica sembra animare anche i meccanismi attraverso i quali il vizio si insinua nell’individuo e, di conseguenza, nella città. Come è possibile evincere da numerose produzioni letterarie di età classica, ad esempio, è all’interno di una realtà democratica già orientata al vizio che prendono corpo poteri dispotici e viziosi. La tirannide si erge all’immaginazione dei più non solo come regime politico contrassegnato dall’esercizio onnipervasivo di un’autorità dispotica, ma anche come esito prevedibile delle debolezze degli stessi governati. La tirannide, in altri termini, può essere interpretata come logica conseguenza di una mancanza di fiducia in se stessi e nelle proprie capacità da parte dei membri della polis. Inizialmente spinti a delegare al potere la loro stessa possibilità di (immagin)azione nella vita pubblica, essi si troveranno a fare i conti con un demone solo apparentemente esterno alle proprie vite. La tirannide, rappresentata e autorappresentata come azione salvifica, si configurerà ben presto come demone individuale, nonché come conclusione ingloriosa di una lotta civica che nessuno dei membri della polis non aveva mai pensato neppure di intraprendere, dato il potere paralizzante del loro pensarsi fragili e non autosufficienti.
Eppure, la tirannide è di fatto presentata nell’antichità come condizione di vita nella quale nessuno dei soggetti sottomessi al potere politico vorrebbe mai trovarsi. Lo spettro della tirannide come forza politica deprecabile aleggia nella vita democratica dei greci antichi del V-IV secolo, e lo fa nelle vesti di un potere percepito come subdolo, capace di insinuarsi impercettibilmente in un terreno di azione e convivenza umana ritenuto altrimenti sano e fertile. Il pensiero della tirannide come male da scongiurare ad ogni costo, per quanto condiviso, non esclude un dissenso su ciò che cosa effettivamente costituisca la tirannide e la natura del potere corrispondente. Per di più, differenti possono essere le posizioni riguardanti il seguente quesito: «i governati sono responsabili per l’insediamento della tirannide in un contesto politico originariamente caratterizzato da ben oliate procedure di funzionamento democratico?». Una risposta indiretta a tale quesito è individuabile nella commedia di Aristofane Le Vespe, rappresentata per la prima volta ad Atene nel 422 a.C.. Il vecchio Filocleone (nome che rivela le simpatie del personaggio per il leader democratico Cleone), maniacalmente smanioso di partecipare come giudice popolare ai processi tenutisi nella Elièa, incontra l’opposizione del figlio Bdelicleone (la cui etimologia esprime un disprezzo profondo per Cleone e il tipo di democrazia che tale personaggio rappresenta), il quale lo raggiunge in un tribunale con due dei suoi servi per afferrarlo a forza e rinchiuderlo in casa. Il coro, rappresentante gli amici democratici di Filocleone, di fronte alla scena esclama: “Ma è una cosa tremenda, una tirannia vera e propria.”
Nelle parole di questi ultimi, la tirannide figura come atteggiamento arrogante ed impositivo, e proprio per questo deprecabile. Dal punto di vista dei servi del vecchio Filocleone, la vera malignità risiede nei democratici, come indica l’immagine del pungiglione velenoso di cui essi sarebbero dotati (da qui il riferimento alle vespe del titolo della commedia). Il loro vizio si esprime verso molti degli imputati da loro giudicati, ma anche verso i servi che non avrebbero né pudore, né rispetto per il loro vecchio padrone Filocleone. Con fare minaccioso e vendicativo, il coro dichiara: “Per tutto questo la pagherete cara, e presto. Saprete allora qual è il carattere di uomini come noi, giusti e iracondi, con la faccia feroce.”
Sorprendentemente, l’auto-rappresentazione dei membri del coro è caratterizzata da un accostamento tra giustizia e iracondia che filosofi come Platone ed Aristotele riterrebbero assolutamente impraticabile tanto dal punto di vista teorico quanto da uno pratico. Nel contrasto stridente tra ferocia – che esclude per definizione la lucidità necessaria ad un giudizio imparziale – e uno stabile tratto caratteriale prende corpo la voce di Aristofane, e l’idea che la vera giustizia non ammetta un’ira indisturbata.
Bdelicleone, ritenuto “nemico del popolo” per la sua azione di contrasto all’attività del padre, tenta di neutralizzare l’accusa di preparare una tirannide soffermandosi sulla profonda confusione che aleggia nei confronti dello stesso termine “tirannide”: “Già, per voi, qualunque sia l’accusa, grande o piccola, tutto è tirannide e tutto è cospirazione. In cinquant’anni non ne ho sentito neppure il nome, e ora è a più buon mercato del pesce in salamoia, tanto la parola circola per la piazza. Metti che qualcuno non voglia sardine, e compri degli scorfani: ecco subito il venditore di sardine, lì accanto, che borbotta: «costui sta facendo provviste per farsi tiranno». E se uno chiede una cipolla da mettere insieme alle alici, l’erbivendola lo guarda di traverso e fa: «Una cipolla, vuoi? Ma allora vuoi farti tiranno, e pensi che Atene sia in obbligo di fornirti il condimento?”
Nel corso della commedia, la tirannide prende corpo non come realtà dotata di uno specifico contenuto, bensì come conglomerato di prospettive infondate su di essa. Oltre a segnalare diversi modi di formulare il contenuto della tirannide, la rappresentazione de Le Vespe mette in luce una discrepanza di punti di vista sull’idea del vizio l’effettiva responsabilità dei governati nella presa di posizione e nel consolidamento di essa. Da un lato, i partecipanti ai processi pubblici (come Filocleone), che agli occhi di Bdelicleone (e dello stesso Aristofane) si rendono inconsapevolmente – ma volontariamente e, dunque, colpevolmente – strumento dei fini stabiliti dai leader democratici, credendo di vivere un’esperienza di condivisione e comunicazione autentica; dall’altro, l’azione protettiva di un figlio che si fa padre del suo stesso padre, e che ritiene doveroso esercitare un intervento coatto di isolamento di quest’ultimo dalla comunità come precondizione ad un cambiamento di prospettiva. Al tempo stesso, la comunità e i suoi differenti personaggi mettono in luce la possibilità che i condizionamenti esercitati sui suoi membri provochino reazioni differenti a seconda della sensibilità e dell’inclinazione. Non è un caso che Bdelicleone mantenga uno spirito capace di individuare atteggiamenti tirannici in quegli stessi leaders democratici che tanto deprecano la tirannide, e che il padre Filocleone, alla fine, trovi rifugio e soddisfazione in occasioni simposiache che favoriscono la possibilità di smodati divertimenti e di assenso a pulsioni incontrollate (proprio come i tribunali democratici). Va detto ad ogni modo che è lo stesso Bdelicleone a suggerire al padre di dedicarsi ai simposi. Ciò implica che la sua visione del bene – nonché la sua stessa critica della democrazia – sembrano essere ben lontane da un’idea di cura della virtù di stampo socratico-platonico.
Entro una simile varietà di scenari e punti di vista prende corpo l’idea che la tirannide, qualsiasi cosa essa sia, costituisca un potere extra-costituzionale in cui l’iniziativa pubblica e politica acquisisce una caratura pesantemente negativa precisamente in relazione dialettica con la progressiva delineazione di orizzonti di libertà democratica ed ampia partecipazione politica. Altrettanto condivisa è l’idea che la tirannide, in quanto male da scongiurare, inneschi deterministicamente un sentimento di avversità in coloro che la subiscono. A questo proposito, in età moderna, Hobbes definirà la tirannide esclusivamente in termini del sentimento di scontentezza provato dai governati in una forma di organizzazione comunitaria altrimenti qualificabile come monarchica. La tirannide, in altri termini, è una monarchia quando si rende odiosa.
Applicando un simile approccio metodologico alla commedia di Aristofane, potremmo sostenere che, agli occhi di Bdelicleone, la tirannide sia da identificarsi con il suo stesso scontento verso la vita democratica del suo tempo, che inganna i cittadini illudendoli di essere protagonisti autonomi della vita politica della città anziché semplici strumenti a servizio del potere. Il loro carattere iracondo e intemperante avrà come demone una giustizia incapace di servire la sua funzione nella città. Il principio eracliteo secondo il quale il carattere dell’essere umano forgia il suo demone corrispondente trova articolazione nel terreno delle possibili relazioni tra l’individuo e la comunità politica di appartenenza. Se, come il poeta Simonide affermava, “la città educa l’uomo”, la stessa strutturazione legislativa e istituzionale della comunità politica, nonché l’impianto valoriale che la innerva, avranno la possibilità di interagire con l’ethos degli individui condizionandone lo sviluppo in direzione di un’autentica giustizia o del vizio. La città, in questo senso, si fa daimôn per l’ethos dei suoi membri. Al tempo stesso, la forza demonica della città, per quanto impellente e capace di agevolare determinate passioni, non de-responsabilizza i suoi membri dall’uso autonomo di una ragione capace di intavolare percorsi umani alternativi. Come forza seduttiva e tiranneggiante, l’autorità politica può sottrarre dal campo di battaglia della vita civica individui ben disposti a lottare per la giustizia, o instillare in persone dal carattere non ancora strutturato paure capaci di condurle a sperimentare miraggi di bellezza apparente. Nonostante ciò, è ancora possibile rimandare gli individui a se stessi, alle loro responsabilità e al loro potere, convincendoli dell’importanza di non cedere alle seduzioni provenienti da chi risolleva dai problemi senza salvare sul serio, e da chi promette facili soluzioni senza esigere l’impegno necessario ad una vita realizzata conformemente alle proprie aspirazioni. Quella stessa libertà di reagire a stimoli di per sé non cogenti – e di modificare il proprio demone interiore neutralizzando l’azione del demone esterno – è una preziosa opportunità che la democrazia, di per sé, rende disponibile. La libertà, hobbesianamente intesa come assenza di ostacoli esterni, può coniugarsi al potere di dare forma a rappresentazioni capaci di prefigurare il contenuto soggettivo di una vita felice. In una condizione di assenza di vincoli formali o autorità repressive, chi è libero di agire ma non intensifica il potere di immaginare se stesso soffoca il desiderio, mortificando la possibilità di tradurre ogni motivazione in azione concreta. La rinuncia ad agire di un ethos incerto o addirittura sconfortato non è la rinuncia alla libertà, bensì la rinuncia al proprio potere di auto-rappresentazione autonoma. Se la libertà dagli ostacoli non è sufficientemente irrigata dalla prefigurazione del proprio potere, l’esito di un ethos dalle scarse risorse energetiche è non solo il demone di una vita infelice, ma la legittimazione del tiranno. La corposità possente di desideri che il tiranno lascia crescere dentro di sé nasce come proiezione di desideri altrui mai formulati in maniera chiara: quelli che qualsiasi cittadino democratico avrebbe avuto la libertà di coltivare, se soltanto avesse avuto il potere di restare fedele alla propria immaginazione (a prescindere dalle direzioni virtuose o viziose dei corsi di vita prefigurati).
È forse per questo che, come ad esempio Platone ci mostra nel Gorgia, personaggi come il retore Polo si sentono legittimati a descrivere il tiranno come figura invidiabile, dotata di potere di realizzare ciò che desidera (proprio come un retore è capace di tessere rappresentazioni persuasive, capaci di direzionare le emozioni degli ascoltatori e di suscitare facilmente le reazioni auspicate). Il Socrate platonico, che con Polo si confronta sul reale potere del tiranno, mette in luce una prospettiva differente sulla nozione stessa di potere. In primo luogo, Socrate afferma che non si possa parlare di ‘potere’ come di una capacità di realizzare ciò che sembra la cosa migliore. Reale potere è solo quello di realizzare ciò che si vuole, ossia il bene autentico. Per ottenere quest’ultimo è necessaria una conoscenza capace di estendersi al di là di un’astratta competenza teorica, e che si struttura nella dimensione del carattere e della sua formazione. Come ancestrale prefigurazione di un duello dialogico da Game of Thrones, l’idea di un Socrate/Baelish knowledge is power si scontra con la visione di un Polo/Cersei power is power. Secondo Socrate, il potere verte non solo sulla volontà, strutturalmente collegata all’autentica eu-daimonia, ma anche sui fini da selezionare come auspicabili. Mandare a morte, spogliare dei beni e cacciare dalle città chiunque piaccia al tiranno non lo rende capace di fare ciò che vuole, e questo perché egli
- confonde i suoi fini con ciò che in realtà è un semplice mezzo per la realizzazione degli scopi (uccidere ha sempre un fine, che va al di là della pura uccisione).
- non comprende che ciò che va utilizzato come mezzo deve essere oggettivamente utile.
Nelle pagine seguenti del dialogo, il Socrate platonico affermerà che il tiranno non può essere felice, dal momento che egli compie spesso ciò che arreca danno alla salute dell’anima. In questo modo, egli introduce l’ida della psiche non solo come luogo della giustizia e dell’ingiustizia – tanto quella altrui quanto la propria, ma anche come dimensione entro la quale si gioca la ricerca della felicità intesa come “costruzione del proprio demone”. Condizione di “salute” (ugieia) è per Socrate quella di un’anima protesa all’esercizio di una ragione virtuosa (e, pertanto, tendente alla perfezione morale ed intellettuale).
A questa visione della salute può essere contrapposta un’idea di salute dell’anima come “soglia minima” di decenza morale. Questa seconda immagine, ben lontana da una perfezione di tipo supererogatorio, viene rapportata alla condizione caratteriale del tiranno nel Protagora di Platone, in cui vediamo Socrate cimentarsi nella lettura di un carme simonideo di tipo elogiativo indirizzato al tiranno Scopas. Nel tentativo di giustificare l’assenza di un carattere veramente onesto e virtuoso e de-responsabilizzare il tiranno dall’assenza di un impegno di natura morale, Simonide tratteggia l’immagine di un “uomo sano”, ossia quella di un uomo ben lontano dalla perfezione tetragona di chi possiede sommo coraggio e la totalità delle eccellenze morali: “A me basta un uomo che non sia cattivo, né troppo ignavo, che conosce la giustizia che di Città è nutrice, e sia sano… Buono è quanto bruttura in sé non contiene”.
L’ideale di “moralità minima” che questa visione della salute incarna consiste nel semplice astenersi dal male e nel non infrangere le leggi esistenti. Possedere tale condizione di salute può essere già auspicabile, considerando che, per il poeta Simonide, perfino una perfezione morale di tipo supererogatorio può essere soggetta a corruzione a seguito di vicissitudini fortuite (“Non può non essere cattivo l’uomo da irrimediabile sventura abbattuto”).
Contro una simile visione, Platone riproporrà nella Repubblica l’idea di una salute intesa come armonia di funzioni interne all’anima, presiedute dal potere ausiliario e protettivo di una ragione orientata al bene in sé. Come un demone esiodeo di natura esclusivamente benevola, posto dagli dèi a tutela degli esseri mortali, il guardiano della città, tanto quanto quello interiore, gestisce e tiene a freno quel proliferare di desideri pulsionali e aggressivi che il tiranno vive nella vita reale, e che chi difetta della sua audacia avrebbe pudore a vivere già nella dimensione puramente onirica (si veda la nota trattazione del tiranno nel nono libro della Repubblica).
Se l’anima è il luogo della giustizia e di una salute che si spinge al di là di una minima soglia di decenza, non è possibile delegare la possibilità di una gestione del proprio ethos al potere senza che esso non diventi despotico e fagocitante. La giustizia per Platone non si realizza innalzando semplicemente scudi protettivi e diffidenti contro il nemico, ma praticandola interiormente come sentiero di crescita verso la felicità – quest’ultima intesa come costruzione del proprio benevolo demone interiore. La tirannide, in questo senso, è visualizzata non come arbitraria scontentezza del potere, bensì come estremizzazione radicale dell’ingiustizia entro la democrazia. Attraverso la riflessione di Platone, voragini valoriali giustizia diventano esperienza di attivazione di consapevolezza. In questo senso, il demonico, lungi dall’acquisire necessariamente i connotati di un’esperienza di sprofondamento negli abissi insondabili del vizio e dell’auto-annientamento, può ancorarsi alla poderosa, salvifica luminosità di una ragione che esplori le condizioni per essere autenticamente buoni e felici.
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