VERSO UNA GUERRA POSTUMANA: NICHILISMO GIURIDICO E TECNOLOGIA DRONICA
FILIPPO RUSCHI
1. Non è mia intenzione riflettere sulla legalità dell’utilizzo militare dei droni, sulla conformità di questi sistemi d’arma all’ordinamento vigente. Certo non si può trascurare che il targeted killing, la pratica degli omicidi mirati ampiamente avallata dalla tecnologia dronica, compromette uno ius belli assiologicamente fondato sulla messa in forma della guerra e sulla limitazione della violenza: istituti quali il trattamento dei prigionieri di guerra, frutto delle codificazioni novecentesche e prima ancora dalla riflessione della dottrina giusinternazionalistica coagulatisi nel celebre Institut de Droit International di Ginevra, semplicemente, perdono di senso. D’altra parte, si tratta di un percorso di ricerca su cui incombe una pesante ipoteca: la legittimità dell’impiego dei droni armati, infatti, dipende dal paradigma adottato, ovvero se il loro impiego sia avvenuto nel quadro di un conflitto internazionale o, piuttosto, di un conflitto armato interno o, ancora, nel contesto di un’operazione di law enforcement condotta al di fuori del territorio nazionale. Il fatto che, in uno scenario internazionale fluido e asimmetrico come quello attuale, la qualificazione della fattispecie sia essenzialmente il frutto di una opzione politica rende ogni valutazione quanto meno contingente e parziale.
Il punto di partenza che intendo adottare, dunque, è un altro: non mi interessa approfondire la legittimità dell’impiego militare dei droni (e dei sistemi d’arma autonomi in genere) a partire da una specifica fattispecie bellica, quanto piuttosto riflettere come tale impiego finisca per orientare il quadro normativo di riferimento e, più in generale, la nozione stessa di guerra. La tesi di fondo, infatti, è che il ricorso ai droni armati abbia innescato una svolta nel concetto di guerra, prima ancora che nella pratica, paragonabile alla military revolution che, come hanno segnalato gli studi di Geoffrey Parker, di Jeremy Black e prima ancora di Michael Roberts, ha inaugurato la Modernità: una svolta, beninteso, di cui noi oggi vediamo solo i prodromi, la fase sperimentale, rivivendo esattamente la condizione dell’uomo del tardo medioevo di fronte all’avvento delle armi da fuoco.
2. Di cosa parliamo, quando usiamo il termine drone o, più correttamente, di Lethal Autonomous Weapons (LAWs)? Di un sistema d’arma ormai consolidato, ampiamente diffuso, in grado di operare in ogni dimensione: sia nell’aria, sia sulla terra, sia sul mare. Se anche solo si limita la visuale agli aeromobili a pilotaggio remoto, balza agli occhi come il loro impiego militare risalga per lo meno già agli anni Trenta: in questa prima fase erano utilizzati come radiobersagli, ovvero per finalità essenzialmente addestrative, ma già la successiva generazione si era rivelata efficace nella ricognizione in ambiente ostile — è stato il caso dei droni statunitensi durante gli anni della Guerra del Vietnam — o per confondere le difese aeree, come ha fatto l’aeronautica israeliana nel corso della Guerra dello Yom Kippur. Ancora durante le operazioni in Kosovo, l’impiego dei droni era limitato all’acquisizione tramite laser dei bersagli, che venivano poi colpiti da altri sistemi di arma. Solo all’indomani dell’11 settembre i droni da ‘occhi’ sono divenuti veri e propri strumenti offensivi, imponendosi nei teatri operativi con una rapidità sconcertante, paragonabile all’avvento del mezzo corazzato sui campi di battaglia della Seconda Guerra Mondiale: se ancora all’inizio del millennio il numero dei droni posseduti dalle forze armate statunitensi si misurava in decine, oggi il Pentagono dispone nei suoi arsenali di diverse migliaia di questi aeromobili automatizzati, cui vanno aggiunti — il numero è imprecisato – quelli affidati ad agenzie governative come la CIA o la U.S. Customs & Border Protection. Il fatto che solo una percentuale piuttosto bassa di questa imponente armata aerea sia destinata ad operazioni di attacco – in effetti meno del 10 per cento, si calcola – è semplicemente il frutto di una scelta operativa legata agli scenari geopolitici e, per altro, comprova la duttilità di questa tecnologia. Del resto è noto che già nel 2014 l’aeronautica statunitense stava addestrando un numero di piloti di droni maggiore rispetto a quello delle altre linee di volo. Siamo in ogni caso ai primordi: il Dipartimento della Difesa statunitense stima che nel 2035 gli aeromobili a pilotaggio remoto costituiranno il settanta per cento della propria flotta aerea.
Non è soltanto il Pentagono ad essere un entusiasta sostenitore di questo genere di tecnologia: nel 2005 gli Stati a possedere droni erano una quarantina. Al 2012, il loro numero era salito a settantasei. Oggi si ritiene che siano più di novanta gli Stati che dispongono di aeromobili a pilotaggio remoto e almeno 63 quelli che li producono: dalla Siria al Pakistan, dall’Iran alla Corea del Nord, oltre a praticamente tutti i membri della Nato. Né sono soltanto entità statali a impiegare tale tecnologia automatizzata: Hezbollah ha ampiamente utilizzato droni da ricognizione di produzione iraniana contro Israele, ma anche conducendo operazioni di attacco in Siria. Teheran ha anche fornito le conoscenze tecnologiche per operare aeromobili a pilotaggio remoto ad Hamas che, per altro, si è pure potuto giovare di esemplari israeliani altamente tecnologici catturati a Gaza a seguito di avarie in volo. Ma è soprattutto l’ISIS ad aver dimostrato una grande capacità nell’impiego offensivo dei droni, convertendo con successo modelli reperiti sul mercato civile. Il quadro degli operatori è poi completato dagli attori privati, in primo luogo le Private Military Companies: si tratta di un contesto particolarmente opaco, ma non mancano improvvisi squarci che fanno presagire scenari molto preoccupanti, come la notizia del recente acquisto da parte di una non meglio identificata compagnia mineraria sudafricana di una ventina di droni anti-sommossa dotati di armi non letali.
La diffusione delle LAWs è la cifra della loro versatilità: lo Stockholm International Peace Research Institute nel 2017 ha censito 381 modelli di sistemi automatizzati ad uso militare, di cui 175 dotati di capacità offensiva. La fantasia non ha fatto difetto: abbiamo droni di ogni dimensione, da quelli spalleggiabili, destinati ad un uso tattico, a veri e propri aeromobili in grado di restare in volo per oltre trenta ora controllando con i propri precisissimi sensori centomila chilometri quadrati di territorio al giorno. Sono stati progettati modelli capaci di decollare dai ponti delle navi e, perfino, da sommergibili in immersione. Accanto a droni ad ala fissa, sono ampiamente diffusi quelli a pale rotanti. Ma perché limitarsi alla terza dimensione? L’impiego di quelli che a tutti gli effetti sono robot militari ha avuto un grande sviluppo anche in ambito terrestre. Se inizialmente la tecnologia robotica era limitata a delicate operazioni di sminamento o di rimozione di esplosivi, l’ultima generazione di queste piattaforme è dotata di armamento leggiero ed è in grado di impegnare efficacemente il nemico. Il generale Robert Cone, già al vertice dell’United States Army Training and Doctrine Command (TRADOC), ovvero l’ente che elabora le dottrine operative dell’esercito statunitense, ha sostenuto pubblicamente che tra un decennio almeno un quarto delle forze terrestri sarà costituito da robot.
Sviluppi analoghi si sono registrati in ambiente marittimo, dove accanto a Unmanned Surface Vehicles, sono operativi minisommergibili a controllo remoto che, inizialmente utilizzati in operazioni di soccorso, sono poi stati destinati allo sminamento e, infine, ad attività di sorveglianza e intelligence. Gli ultimi sviluppi riguardano piattaforme capaci di operare in ambienti sotterranei, particolarmente utili negli scenari urbani che caratterizzano molti dei conflitti in corso, e, soprattutto immaginifiche applicazioni di ingegneria biomimetica che fanno presagire l’impiego di veri e propri androidi in operazioni belliche.
Non è il caso di avventurarsi in sviluppi che oggi paiono fantascientifici. È certo però che i processi di innovazione della tecnologia digitale esaspereranno queste piattaforme: avremo sistemi automatizzati sempre più piccoli, sempre più veloci, sempre più letali. Ma soprattutto si svilupperà la loro capacità cognitiva rendendo sempre più marginale la presenza in remoto di un operatore umano: l’esito finale di questo processo tecnologico sarà rappresentato da sistemi d’arma automatizzati in grado di selezionare autonomamente il bersaglio e decidere se portare a termine l’attacco, come ha denunciato con parole preoccupate l’Istituto di ricerca delle Nazioni Unite sul disarmo.
3. Quale significato attribuire alla rivoluzione militare innescata dalla tecnologia dronica? Come interpretare questo potente scatenamento della tecnica? Per il lettore di Schmitt quello che sta avvenendo non è altro che il compimento di un percorso che, iniziato nel secolo scorso con l’avvento della guerra aerea, ha determinato una nuova rivoluzione spaziale — come si legge già in Terra e mare pubblicato nel lontano 1942 — all’insegna del fuoco, ovvero, della tecnica. Se prendiamo sul serio le considerazioni di Schmitt, che proprio mentre dava alle stampe il suo prezioso libretto aveva esperienza diretta dei primi bombardamenti su Berlino, è innegabile che la tecnologia dronica può essere considerata una sublimazione della guerra aerea. Analogo, infatti è il concetto di inimicizia nel momento in cui il nemico è soltanto un obbiettivo da distruggere, là dove la distinzione tra civile e militare perde di senso, allorquando viene meno qualsiasi relazione tra il potere che esercita la forza e lo spazio territoriale su cui tale forza dirige. Ma forse anche questo riferimento al potere aereo finisce per essere obsoleto e, dunque, fondamentalmente fuorviante. Ci si può domandare se nel valutare la portata della tecnologia dronica non occorra spingersi oltre. In altri termini, ci si può chiedere se l’irruzione delle LAWs negli scenari bellici prefiguri inedite forme di conflittualità che costringeranno a riformulare la nozione stessa di inimicizia e, in definitiva, a fondare un nuovo nomos. La cautela impone di arrestarsi di fonte allo spalancarsi di simili problematiche. Se la prognosi risulta straordinariamente complessa, però, merita soffermarsi su uno degli elementi principali della diagnosi, ovvero la portata intrinsecamente nichilistica di questi strumenti bellici automatizzati.
Il drone, in particolare, è il vettore privilegiato della rivoluzione tecnologica in corso, là dove in maniera assai più pervicace dell’aeromobile e più letale dei satelliti incarna l’ideale di un potere aereo, verticale, immune da ogni costrizione fisica che neutralizza lo spazio territoriale statale, rendendolo un uniforme campo di osservazione. In questa prospettiva i droni attribuiscono alla locuzione Global war on Terror una eccezionale intensità, celebrando l’avvento di un potere panottico, instancabile, ma soprattutto capace di proiezioni praticamente illimitate. E l’occhio, senza alcuna soluzione di continuità, può tramutarsi in arma e condurre fulminei attacchi. Il paradigma di questo panopticon etereo, come ha provocatoriamente scritto Gregoire Chamayou nel brillante Teoria del drone, non è più sorvegliare e punire, ma sorvegliare e annientare. In virtù di questa pressione ‘verticale’, però, non è solo l’individuo ma è la stessa sovranità statale a risultare compressa, annichilita. Le conseguenze sono pesanti: rapporti come quello della Stanford International Human Rights and Conflict Resolution Clinic, pubblicato nel 2012, hanno rivelato i pesanti effetti dell’attività dei droni sulla popolazione del Pakistan occidentale. La costante esposizione alla sorveglianza dronica e al rischio di un attacco improvviso e imprevedibile determina negli abitanti una percezione di radicale vulnerabilità. Una vulnerabilità destinata ad essere ulteriormente alimentata alla luce della incapacità dello Stato a tutelare i propri cittadini: si tratta di una ridondanza in grado di pregiudicare il binomio protezione/obbedienza che, a partire da Hobbes, è l’asse fondamentale su cui si regge la sovranità statale. E c’è da chiedersi se questo effetto non sia affatto da ascrivere ai collateral damages della guerra dronica, ma piuttosto sia un obiettivo accuratamente perseguito, replicando così quelle opzioni strategiche che nel secolo scorso hanno legittimato il terror bombing.
Il nichilismo innescato dalla rivoluzione dronica, poi, investe la nozione giuridica di guerra così come si è formata a partire dallo jus publicum europaeum e che, pur con tutti gli sviluppi e le cesure del caso, ha informato anche il diritto internazionale contemporaneo. A fondamento di questa idea di guerra sta la metafora, già contenuta nel De jure belli di Alberico Gentili, che attribuisce ai belligeranti la condizione di duellanti, ovvero li considera formalmente uguali, titolari della medesima misura di obblighi e di prerogative. Secondo questo risalente indirizzo di pensiero la guerra, in quanto fatto giuridicamente rilevante, ha come premessa logica il fatto che ambedue i contendenti abbiano la facoltà di usare la forza. I padri del diritto internazionale hanno fondato la legittimità della guerra proprio su questa simmetria: Grozio, quando nel terzo libro del De iure belli ac pacis ha sottolineato il fatto che l’uso del veleno e l’assassinio fossero vietati dallo jus gentium, era preoccupato proprio di salvaguardare tale equilibrio, più che da vaghe istanza umanitaristiche. L’avvento della tecnologia dronica, invece, spezza questa relazione simmetrica: la logica del duello è definitivamente contraddetta e la guerra diviene un atto unilaterale. Certo, si può sostenere che il drone può essere abbattuto, ma si tratta di una considerazione tutt’altro che decisiva a fronte del fatto che questo sistema d’arma canalizza la violenza in una direzione unilaterale, mentre l’operatore che lo pilota si trova a migliaia di chilometri di distanza. Al paradigma della guerra, come ha osservato sempre Chamayou, se ne sostituisce un altro: quello della caccia.
Ma il grado estremo di nichilismo si raggiunge nel momento in cui la guerra diviene un fatto compiutamente postumano, governato da algoritmi e sistemi cibernetici. Come ci ricordano i fotogrammi di apertura del capolavoro di Stanley Kubrick 2001 Odissea nello spazio, scanditi dal possente Also Sprach Zarathustra di Strauss — la celebre scena dell’ominide che impara ad usare un osso come arma –, la tecnologia è stata strumentale alla guerra in funzione ad un triplice obiettivo: l’esigenza di anticipare l’offesa, di causare il maggior danno possibile, di colpire senza rischiare di subire alcuna risposta dall’avversario. In questo senso la tecnologia robotica non ha fatto altro che esasperare un processo di lunga durata: Franco Cardini nella sua ormai classica ricerca sulle origini della cavalleria medievale ha messo in evidenza come già il combattente montato rappresentasse una figura archetipica in cui la sintesi tra tecnica equestre ed art de la guerre modulava una differente antropologia. Ora, l’introduzione di armamenti sempre più sofisticati e letali ha causato una compressione sempre più marcata del fattore umano, quando non addirittura la sua apocalittica nemesi nel caso degli armamenti nucleari. L’avvento delle LAWs, dunque, non è altro che l’apoteosi di questo processo storico: i sistemi d’arma automatizzati consentono qualcosa un tempo impensabile: la possibilità di combattere senza subire perdite umane. Ma nel momento in cui questo obbiettivo è raggiunto ecco che l’ultimo diaframma è definitivamente lacerato e la guerra assume un ineluttabile carattere postumano: mentre le macchine senzienti dominano i campi di battaglia il nemico subisce una degradazione definitiva, una disumanizzazione estrema che lo riduce a impulso elettronico.
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