LA LETTERATURA FANTASTICA E IL PERTURBANTE: TRA ESITAZIONE ED INCERTEZZA ESISTENZIALE

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IVAN CORRADO

“Spesso e volentieri ci troviamo esposti a un effetto perturbante quando il confine tra fantasia e realtà si fa labile, quando appare realmente ai nostri occhi qualcosa che fino a quel momento avevamo considerato fantastico, quando un simbolo assume pienamente la funzione e il significato di ciò che è simboleggiato”. Così scriveva Sigmund Freud nel suo saggio del 1919, dedicato appunto al perturbante. Già da queste parole si può intuire il legame tra l’Unheimlich freudiano e la letteratura fantastica; una tale connessione è stata esplorata dal critico letterario bulgaro Tzvetan Todorov, il quale, ne La letteratura fantastica (1970), afferma che un elemento sostanziale che fa di un racconto un racconto fantastico è l’esitazione. Quando leggiamo un’opera di letteratura fantastica ci troviamo infatti in situazioni in cui non è ben chiara la distinzione tra reale e fantastico e dunque ciò provoca appunto l’esitazione, ovvero uno stato di sospensione esistenziale, un attimo autentico di esperienza umana in cui, come spesso ci accade nella vita, non sapremo se seguire una direzione piuttosto che un’altra, trovandoci in una condizione caratterizzata da quel senso di incertezza angosciosa che secondo Martin Heidegger deriverebbe dal fatto che l’esistere dell’essere umano in realtà è un ex-sistere, ovvero un venir fuori dal nulla: ciò ovviamente causa negli esseri umani una sensazione di angoscia, di assenza di fondamento. Per comprendere ancor meglio la natura del perturbante, possiamo rivolgerci all’origine linguistica della parola: in tedesco il termine quiete è tradotto con Heim che in italiano corrisponde letteralmente a focolare. Ora, perturbante si rende invece in tedesco con Unheimlich, ovvero letteralmente ciò che ti porta via dal centro del fuoco, ciò che ti porta lontano dal focolare e dunque lontano da ciò che ti è più familiare, come il focolare domestico. In una tale condizione, ciò che non siamo assolutamente in grado di individuare è l’origine di ciò che provoca l’inquietudine o la perturbazione: si tratta di un elemento la cui provenienza è da ricercare a volte nell’interiorità stessa del soggetto inquieto, oppure, viceversa, nel mondo esterno e proprio questa ambivalenza ci riconduce a quella situazione di esitazione ben descritta da Todorov.

Nell’Antologia della letteratura fantastica (1940), a cura di Jorge Luis Borges, Silvina Ocampo e Adolfo Bioy Casares, ci sono due racconti legati a doppio filo proprio dal tema del perturbante, declinato in maniere differenti. In Essere polvere (1961) di Santiago Dabove, il protagonista è un uomo che soffre di una terribile nevralgia al trigemino: si intuisce subito quanto penosa debba essere la vita di questa persona, la quale, nel corso della narrazione, desidererà ridursi ad una condizione prima vegetale e poi addirittura minerale per spegnere la sua sensibilità e con essa la sensazione di dolore che provoca. Ecco dunque che l’Unheimlich, il perturbante, in questo racconto si trova proprio nel passaggio da una dimensione familiare (umana e animale) ad una assolutamente aliena per noi esseri umani, ovvero quella che conduce a sentirsi una pianta, un vegetale e poi addirittura terra, polvere. Un giorno, il protagonista viene infatti colpito da un’improvvisa paralisi, causata dalla sua malattia, mentre è impegnato in una cavalcata in aperta campagna e perciò cade da cavallo e rimane immobilizzato sul terreno. A quel punto, nella mente dell’uomo, l’iniziale speranza di essere soccorso da qualcuno inizia a convertirsi nel desiderio di diventare pianta, di preservare quella situazione di assoluta immobilità: una pianta, infatti, non ha sentimenti ed è proprio questa la condizione in cui si ritrova volentieri il nostro protagonista, il quale è felicemente disposto a rinunciare alle sue caratteristiche espressive sensibili ed individuali perché è pronto ad abbracciare una universalità superiore, priva di dolore. Infatti, come scrive Dabove, “per molto che si stimi l’attività, il cambiamento, il movimento umano, nella maggior parte dei casi l’uomo si muove, cammina, va e viene in una prigione rettilinea, allungata; colui che ha per orizzonte le quattro pareti ben note e arcinote, non è molto diverso da colui che percorre quotidianamente i medesimi tragitti per adempiere a compiti sempre uguali in circostanze non molto dissimili. Tutto questo affaticarsi non vale il mutuo bacio, neanche concordato, tra il vegetale e il sole”. Le piante hanno quindi il privilegio di sorprendersi ogni volta che il sole le bacia, perché appunto quel bacio non è concordato: la pianta e il sole non si accordano per baciarsi come invece farebbero due esseri umani e per questo motivo ogni bacio, per la pianta priva di memoria, è un’esperienza nuova nella sua unicità. Il sole esemplifica dunque la grandiosità superiore ed universale della pianta rispetto all’uomo: attraverso il bacio del sole, la pianta scopre ogni volta una rivelazione incredibile fatta a tutte le piante perché ovviamente la singola pianta non ha coscienza della propria singolarità. In questo racconto abbiamo visto quindi come l’esperienza di Unheimlich si concretizzi nella trasformazione in qualcosa di totalmente lontano dal focolare, cioè di totalmente alieno, non familiare per noi umani, seppur desiderabile per il protagonista.

In Dove il suo fuoco non si spegnerà mai (1922) di May Sinclair, il perturbante gioca invece un ruolo leggermente diverso. L’esitazione presente in questo racconto si inserisce infatti proprio a metà tra la possibilità che l’inquietudine a cui è sottoposto il lettore provenga da un fattore esterno oppure dall’interiorità della protagonista. Come abbiamo già notato, la situazione perturbante per eccellenza è proprio questa, cioè quella in cui non si è capaci di identificare l’esatta provenienza di questo stato d’animo. Del resto, il termine perturbazione appartiene anche ad un lessico tipicamente meteorologico e infatti anche in questo caso si vuole indicare un fenomeno originato dalla mescolanza di molteplici fattori, impossibili da definire separatamente. La protagonista del racconto della Sinclair è Harriet Leigh, una ragazza innamorata di un tenente di marina, George Wearing, il quale, dopo averla chiesta in sposa si è ritrovato rifiutato a causa dell’opposizione del padre molto severo della giovane. In seguito, però, le morti prima di Wearing e poi del padre, lasceranno Harriet nella più completa solitudine. A questo punto entra in scena un altro personaggio fondamentale:  Oscar Wade, un uomo infelicemente sposato che decide di continuare il suo matrimonio solo per salvare le apparenze, per inerzia, il quale si innamora di Harriet e va a farle visita quotidianamente nella speranza che lei possa decidere di avviare una relazione. La ragazza pero, spinta dalla totale ripugnanza verso Wade, lo rifiuta, ma lui imperterrito non si arrende e non interrompe le sue indesiderate visite, fino a quando la resistenza di Harriet inizia a cedere, e la ragazza comincia quasi a crogiolarsi nell’insensatezza della sua esistenza. Il rapporto tra la protagonista e Oscar è dunque una sorta di incontro di due solitudini, costruito sulla noia e sull’inerzia, infatti a un certo punto entrambi si troveranno bloccati in una situazione nella quale si lasciano vivere, facendosi trascinare dagli eventi. Ne La canzone del padre (1973), Fabrizio De André sosteneva che “i becchini ne raccolgono spesso tra la gente che si lascia piovere addosso”: ecco, Oscar e Harriet sono due persone che si lasciano piovere addosso, vivendo bloccati in una situazione di noia esistenziale, senza voler far nulla per risolverla e questa sarà la loro condanna. In seguito, infatti, Oscar muore e dopo diversi anni anche Harriet è ormai in punto di morte e, tornando indietro nei suoi ricordi, vede costantemente la presenza ossessiva di Oscar che si nasconde in ogni anfratto della sua memoria, anche dove non dovrebbe esserci, tanto è vero che a volte appare addirittura nei panni del padre della ragazza o di George Wearing. La memoria emotiva di Oscar continua a vivere dopo la sua morte e perseguita i ricordi della protagonista, ma in realtà Oscar, oltre ad essere il persecutore è anche il perseguitato, in quanto è lui stesso ad essere costretto dopo morto a colonizzare i ricordi di Harriet senza sosta. Oscar e Harriet sono condannati ad inseguirsi a vicenda e a esperire ognuno la presenza ossessiva dell’altro; il loro peccato era stato quello di adagiarsi in quella noiosa situazione esistenziale, ma la loro condanna non è però da leggersi in chiave morale perché l’obbligo a rivivere sempre la medesima noia del ricordo della loro relazione traduce piuttosto la rassegnazione che in vita entrambi avevano raggiunto. In termini heideggeriani potremmo dire che la noia si fa specchio di un comportamento inautentico, si fa spia di un’esistenza vissuta come separata dalla propria essenza. Come affermava Gilles Deleuze, dovremmo cercare di essere in ogni momento della nostra vita all’altezza di ciò che ci accade, cioè dovremmo essere sempre consapevoli degli  eventi che viviamo giorno per giorno, a differenza di Harriet e Oscar,  rimasti spettatori passivi delle loro esistenze.

Abbiamo visto dunque come in questi due racconti l’Unheimlich si presenti in modi diversi: nel testo di Dabove, la situazione perturbante di immobilità è positivamente accettata e desiderata dal protagonista, mentre nel racconto della Sinclair è spia di una condanna eterna per i due amanti. Ad ogni modo, come abbiamo dimostrato, l’Unheimlich può essere un elemento fondamentale del fantastico e della letteratura in generale, la quale, in fondo, come credeva Jorge Luis Borges, è sempre fantastica.

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