“VEDERSI COME UN ALTRO”: CONSIDERAZIONI SUL PERTURBANTE E LO SPECCHIO
ELEONORA CORACE
L’esperienza del riflettersi allo specchio per l’essere umano è tanto abituale quanto enigmatica. Sotto la polvere del quotidiano che ci vede impegnati a ripetere questo gesto decine di volte al giorno, si annida qualcosa di ambiguo e forse un po’ inquietante. Il problema è che l’immagine che viene riflessa non è mai come ci aspettiamo che sia, come sanno milioni di adolescenti nel mondo: i capelli sono ora più ricci ora più lisci, la pelle più pallida, la pancia più o meno evidente ecc. Per non parlare di quando a intromettersi tra l’immagine mentale che abbiamo di noi e quella che vediamo riflessa sono i segni dell’età, tra rughe non richieste e indesiderati ciuffi bianchi. E a volte queste piccole non coincidenze tra la rappresentazione di sé e l’immagine che ci viene offerta allo specchio sfociano in veri e propri momenti di disconoscimento e confusione. Quando, ad esempio, guardiamo con la visione periferica il nostro riflesso senza riconoscerlo come tale.
È quello che è successo al professore Ernst Mach, fisico e filosofo vissuto nella seconda metà dell’ottocento e celebre per le sue ricerche sulla percezione sensoriale dei fenomeni fisici. Nel libro Analyse der Empfindugen pubblicato a Jena nel 1900, Mach racconta un aneddoto apparentemente banale: un giorno si accingeva a prendere un bus quando nello stesso momento vide la figura di quello che poteva essere un maestro di scuola salire contemporaneamente dall’altra parte del mezzo. Mach ricorda che l’aria dell’uomo gli parve così mesta e abbattuta che lo indusse a esclamare tra sé e sé: “Guarda un po’ un disgraziato maestro di scuola!”. Salvo poi accorgersi un attimo dopo che la persona che credeva di vedere non era altri che lui. Il distinto professore universitario aveva infatti scambiato la sua immagine riflessa nel finestrino del bus per un maestro di scuola, per giunta un po’ “disgraziato”. La storia non ha nulla di buffo per Mach che ne rimase profondamente turbato. I dubbi che un simile episodio solleva sono i seguenti: perché Mach non riconosce il suo riflesso? E cosa forse ancor più grave: perché vede nel suo riflesso un altro? Che cosa significa non riconoscersi al punto da attribuire un’altra identità alla propria immagine?
Ora lasciamo il professore austriaco alle sue considerazioni sulle fluttuazioni della percezione, per cercare di rispondere a queste domande attraverso il commento che di questo aneddoto fa Bernhard Waldenfels, filosofo tedesco contemporaneo noto per le sue analisi sul fenomeno dell’estraneo. All’inizio del ciclo di lezioni dedicate al tema fondamentale quanto delicato del corpo e raccolte nel volume Das leibliche Selbst (2000), Waldenfels si interroga sul ruolo dello specchio nella concezione che un soggetto ha di se stesso e del proprio corpo. Prendendo come spunto l’aneddoto di Mach, Waldenfels suppone che il turbamento dell’uomo sia dovuto al fatto che egli abbia scoperto nell’immagine riflessa al finestrino, qualcosa di sé. Dal momento che il professore ha visto nel riflesso del vetro sé come un altro, questo sin dall’inizio, secondo Waldenfels, presuppone una certa insicurezza e una buona dose di fraintendimento ed errore nel cuore stesso della personalità. Una simile situazione, ovviamente, non riguarda solo il Professor Mach ma tutti gli esseri umani ed è dovuta a una singolare costituzione del corpo. Nella fenomenologia di Waldenfels, quel particolare ente che Husserl chiama “corpo proprio” (Leib) per distinguerlo da quello meramente oggettuale (Körper) è considerato “sempre in gioco”, ossia non attraverso rappresentazioni astratte ma immerso nel mondo della vita. In questo modo il corpo risulta essere qualcosa di più di un oggetto interpretato e avvertito da una coscienza e collocato in un determinato punto dello spazio, assumendo le caratteristiche di un luogo vissuto, esistenzialmente abitato e attraversato da infiniti rimandi e contaminazioni tra gli altri elementi del mondo, che siano pulsioni, sensazioni, affezioni, dolori e altro. Alla luce di ciò quello di corpo è sempre un concetto ibrido e ambiguo che non può essere riassunto mai del tutto sotto la presa cognitiva del Soggetto. Dunque l’incertezza e l’errore che emergono nell’episodio di Mach sarebbero il sintomo del disagio costitutivo che l’Io ha di fronte la propria immagine: una sorta di esitazione a riconoscersi in essa, a combaciare con essa che è frutto di una originaria non-coincidenza a sé del soggetto. L’io infatti non riesce mai ad assimilare completamente il corpo, che rimane come ciò che sfugge e trabocca oltre i confini della coscienza. Questo emerge in modo evidente e perturbante nell’immagine di sé. “Lo specchio ha però un’altra funzione oltre quella della mera identificazione. Quando io mi sorprendo del mio riflesso nel finestrino, scopro una certa estraneità in me stesso, che proprio in quel momento viene alla luce, quando io mi vedo dall’esterno – così mi vedo come un altro. L’immagine speculare mi prende in giro a modo suo”.
Tralasciando le ampie e importanti analisi svolte su questo tema – una su tutte, quella di Jacques Lacan – continuiamo a seguire il discorso di Waldenfels che a questo punto fa anche l’esempio della fotografia. Soprattutto quando siamo di fronte a delle vecchie foto, infatti, si può sempre notare un attimo di indecisione, perché nel momento che si afferma “sono io” qualcosa dentro di noi nota irrimediabilmente che “non sono io” perché non sono più in quel modo, o perché non mi ricordavo così. Questa difficoltà dell’Io di immedesimarsi del tutto con il proprio corpo (o del corpo di lasciarsi assorbire dalle rappresentazioni dell’Io) secondo Waldenfels è resa ancora più evidente quando intervengono mezzi tecnici come lo specchio e la fotografia. In questi casi, infatti, il soggetto, riflesso, si vede letteralmente come visto dall’esterno. “Specchio, foto e altre cose simili sono particolari mezzi tecnici con l’aiuto dei quali io mi posso vedere da fuori come una cosa” (p. 34). Solo che il corpo, in quanto corpo vissuto, non può mai essere una cosa tra le altre e non si lascia racchiudere docilmente nella rappresentazione di un’immagine.
Da dove viene e cosa rappresenta però quel particolare sentimento di inquietudine e turbamento che traspare in modo evidente dalla storia del Professor Mach? Sembra essere, infatti, una sensazione che va al di là della constatazione razionale che non ci apparteniamo mai del tutto, che sia essa vissuta con rabbia, sgomento o rassegnazione. Appare più come una reazione inconscia e arcana, pari all’accapponarsi della pelle quando si ode un suono penetrante o un odore sgradevole e nessun altro concetto può descriverla meglio di quello del perturbante freudiano. Viene tradotto con il termine perturbante la parola tedesca Unheimlich a cui Sigmund Freud dedica un saggio nel 1919. Al contrario di sentimenti affini come l’angoscia, la paura e l’inquietudine, il perturbante non è mai ben definito, ma appare sempre ambiguo e sfuggente. Una via per cercare di decifrarlo è offerta a Freud dalla semantica, in cui spicca come la parola Heimlich (familiare, domestico) sia inscritta nella parola Unheimlich (non familiare, perturbante) e spesso come i due significati arrivino a coincidere tra loro. Dunque il non familiare è ciò che emerge direttamente dal familiare. Questo risulta particolarmente evidente nella storia del professor Mach. Egli infatti si vede come un altro, ma un altro con delle caratteristiche pur sempre simili alle sue. Come nota Waldenfels, difficilmente si sarebbe potuto confondere con una donna, per non parlare di qualche altro essere vivente, come ad esempio una lucertola. Proprio come nel caso del perturbante, è la familiarità della figura che induce Mach all’errore. È nel contesto familiare e in ciò che è conosciuto che si annida ed esplode ciò che è sconosciuto e inquietante.
È noto come Freud definisca il perturbante “il riaffiorare di qualcosa di familiare che è stato precedentemente rimosso”. Nella storia di Ernst Mach, dunque, cos’è il rimosso che ritorna? Potrebbe essere interpretato come l’originaria insicurezza del soggetto, destinato a scoprirsi sempre altro da sé. Con le parole di Caterina Resta che all’analisi di Freud sul perturbante ha dedicato un capitolo del libro L’Estraneo. Ostilità e ospitalità nel pensiero del Novecento (2008), potremmo dire che nel perturbante “è esibita la stessa posta in gioco della scoperta freudiana dell’inconscio, ossia quel limite, quel margine, a partire dai quali il Soggetto incontra quell’altro che già da sempre lo costituisce e lo divide”.
Freud, inoltre, nello stesso saggio ci regala un ulteriore spunto di riflessione mettendo in relazione la situazione di scambiarsi per un altro e il conseguente turbamento perturbante che provoca con la figura del sosia. Anche Freud, infatti, cita in una nota lo stesso aneddoto raccontato da Mach e sopra descritto, riportando in più un’esperienza simile vissuta in prima persona. Una sera che stava viaggiando in treno, comodamente sistemato nel suo vagone letto, in seguito a una scossa la porta della toilette si apre e a quel punto “un signore piuttosto anziano, in veste da camera, con un berretto da viaggio in testa, entrò nel mio scompartimento. Supposi che avesse sbagliato direzione nel venir via dal gabinetto che si trovava tra i due scompartimenti e che fosse entrato da me per errore; mi precipitai a spiegarglielo ma mi accorsi subito, con mia estrema confusione, che l’intruso era la mia stessa immagine riflessa allo specchio fissato sulla porta di comunicazione. Ricordo tuttora che quell’apparizione mi piacque pochissimo (Il perturbante).
Se nel caso di Mach che salendo sul bus scambia il suo riflesso per un maestro di scuola, l’apparizione erronea è fugace, in questo caso il momento di non riconoscimento è legato a una rappresentazione dettagliata dell’altro che si crede di vedere. Freud vede distintamente l’estraneo e ne descrive minuziosamente le caratteristiche, arrivando a fare supposizioni sui motivi della sua irruzione, prima di accorgersi che non c’è nessun altro nel vagone letto oltre lui e il suo riflesso allo specchio. L’intruso in questione, dunque, è ancora una volta l’immagine e anche in questo caso l’altro coincide con il soggetto stesso.
Il racconto si conclude con questa affermazione: “Anziché spaventarci alla vista del nostro sosia quindi tanto Mach che io non l’avevamo riconosciuto” (ibidem). Possiamo però veramente parlare di sosia nel momento in cui non viene riconosciuto come tale? Nel momento in cui non si tratta di un altro ma solo dell’immagine di se stessi? Freud ricorda come la figura del sosia e il particolare influsso che ha sulla nostra immaginazione sia legato a tempi primordiali in cui a questa apparizione erano attribuiti poteri ambivalenti, che andavano dalla promessa d’immortalità al presagio di morte. Per questo, secondo Freud, il discorso del sosia riporta alla “regressione a un tempo in cui non erano ancora tracciati i confini tra l’io, il mondo e gli altri”.
Tornando all’analisi fenomenologica di Waldenfels potremmo ribattere che i confini tra io, mondo e altri non sono mai stati tracciati. Questa situazione di indeterminatezza dei margini della soggettività non è dovuta, però, a una situazione di immaturità psichica, bensì a una caratteristica esistenziale dell’essere umano, che vede l’Io sempre fondato su altro: il sostrato biologico del corpo, i corpi degli altri (ad esempio il grembo materno), le componenti che lo ibridano (si pensi alle protesi mediche ma anche ai mezzi tecnici), le pulsioni e le tensioni che vengono continuamente scambiate con l’esterno ecc. Questo perché come spiega Waldenfels in Fenomenologia dell’estraneo (2008) “Non ci sono individui bell’è pronti bensì processi di identificazione” che avvengono sempre nell’intreccio e nella contaminazione di istanze esterne e/o estranee al Soggetto.
Il sosia che non viene riconosciuto dunque non sarebbe altro che quella parte di noi che combacia e non combacia con noi stessi, che seppur familiare resta in qualche modo estranea alla nostra rappresentazione e percezione. Il turbamento perturbante di Mach e Freud nello scambiarsi per un altro sarebbe dovuto, dunque, all’eventualità, temuta dall’Io, di scoprirsi estraneo a se stesso e, ancora una volta con Freud, “straniero a casa propria”.
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