EPIDEMIE EMOTIVE
PIER MARRONE
Le emozioni sono generalmente connotate in senso positivo dal senso comune. Basta farsi un giro su Facebook per vedere la quantità di like che attirano foto di gattini e esibizioni autoincensanti della propria emotività, per lo più da parte di mature signore. Per non parlare poi dell’esibizione sentimentale in ambito politico, che è l’argomento che qui mi interessa.
Questa iperconsiderazione delle emozioni ha le sue ragioni. Infatti, molto prima dell’esplorazione del mondo attraverso il nostro pensiero razionale, noi ci rapportiamo a quanto sta al di fuori della nostra mente attraverso le nostre passioni, come le chiamava la filosofia moderna in Occidente, ossia attraverso quelle che noi comunemente chiamiamo emozioni. Forse non è nemmeno esatto dire che ci sia qui un prima (le emozioni) e un dopo (il pensiero razionale), perché dal punto di vista evolutivo non c’è una reale soluzione di continuità tra questi due strumenti per comprendere cosa diavolo sta accadendo là fuori.
Ma dal punto di vista evolutivo una ragione forse c’è per mantenere questa distinzione. Noi siamo l’unica specie apparsa sul nostro piccolo pianeta a possedere un linguaggio così riccamente articolato. Impossibile che le nostre capacità linguistiche non abbiamo retroagito sulla nostra esplorazione del mondo attraverso le emozioni. Il linguaggio non serve certamente soltanto per parlare del mondo nei termini di quelle attività che normalmente associamo a criteri di razionalità (come le discipline scientifiche e tutte le attività tecniche), ma viene articolato principalmente per intrattenere un rapporto emotivo con il mondo.
Quello che viene ritenuto il padre del razionalismo moderno, Descartes poco prima di morire, pubblicò nel 1649 nei Paesi Bassi, un trattato sulle passioni, Le passioni dell’anima, che non manca di mostrare una continuità tra passioni e ragione, che credo da molti sarebbe sottoscritta.
Descartes, ha un’attitudine sospettosa verso le passioni, proprio come ce l’avevano molti filosofi prima di lui. Quando scrive che la funzione della saggezza (la nostra capacità di orientarsi nel mondo attraverso la ragione) è principalmente quella di renderci capaci di dominare le passioni “con tanta bravura, che i mali che esse causano sono del tutto sopportabili, e si può perfino trarne qualche gioia”, Descartes ripete un luogo comune della riflessione filosofica, che riteneva molte passioni un pericolo dal quale guardarsi e che occorre cercare di padroneggiare, dal momento che, sfortunatamente, non possiamo farne a meno. Ma alcune sue intuizioni sono prodigiosamente attuali, come quando scrive che “quando la Speranza è così forte da scacciare interamente il Timore, essa cambia natura e si chiama Sicurezza o Certezza”. Se con “speranza” intendiamo il grado di probabilità che noi attribuiamo a un evento futuro, quanto più questa stima della probabilità è vicina ad 1, tanto maggiore sarà la nostra aspettativa che questo evento si verifichi. Poiché non puoi avere un’assoluta certezza che il sole sorgerà domani, l’unica mossa è approssimarsi probabilisticamente alla verità. Questa approssimazione è la speranza di raggiungere un alto grado di sicurezza.
Nel corso della storia del pensiero sono state elaborate varie strategie per raggiungere gradi elevati di certezza, cioè di conoscenza affidabile, ossia, come si dice con espressione tecnica, di “credenza vera giustificata” (assured true belief aka ATB). Affidarsi alle “sensate esperienze e necessarie dimostrazioni”, come diceva Galilei, ad esempio, oppure affidarsi a chi ne sa più di noi, che poi sarebbero i cosiddetti esperti. Quando ci affidiamo agli esperti, inevitabilmente riconosciamo loro un determinato potere sulle nostre scelte, anche se ci peritiamo di avere una mente supercritica che non si fa influenzare da nessuno. Ma rimane il fatto che è ben difficile precisare che cosa mai giustifichi una credenza vera giustificata, se non l’appello a un determinate contenuto emotivo, per quanto edulcorato e apparentemente anestetizzato, come ad esempio la fiducia.
Se non hai motivi strettamente ed esclusivamente razionali per credere che il sole sorgerà domani, figuriamoci se ne hai per dare credito, a prescindere, agli esperti. Eppure di qualcuno ti devi pur fidare. Ognuno di noi lo fa continuamente. Saliamo sugli autobus nella convinzione che l’autista non sia un fanatico religioso che si farà saltare in aria con una cintura esplosiva. Compriamo da mangiare al supermercato convinti che le nostre marche preferite non hanno avvelenato il cibo perché gli stiamo antipatici. Sembrano essere opzioni del tutto ragionevoli ed addirittura con un elevatissimo grado di certezza, ma solo nel senso che indica Descartes.
Quindi, verrebbe da dire: la razionalità è solo un’emozione frigida. Eppure io non credo sia del tutto vero, perché anche l’altra idea di Descartes, che gli derivava da una tradizione filosofica antecedente, ha una sua parte di verità. Questa non deve essere sottovalutata e potrebbe essere espressa così: le emozioni distorcono la realtà, le passioni ti fanno credere che esista qualcosa che non esiste.
Questa distorsione del reale la sperimentiamo molto spesso nella nostra vita. L’osservazione di Descartes implica qualcosa di importante, ossia che noi preferiamo tutti vivere nella verità, per quanto ci è possibile. Questo ha due chiare conseguenze.
(1) non vogliamo essere manipolati dall’esibizione delle emozioni di altre persone;
(2) non vogliamo che le emozioni che proviamo noi stessi ci manipolino.
Vogliamo che la nostra fiducia sia ben riposta, perché pensiamo che il nostro interlocutore è una persona affidabile. Non vogliamo che la nostra fiducia sia assegnata a una persona che ci pugnalerà alle spalle. Non vogliamo che la persona che amiamo ci dimostri un affetto falso. Non desideriamo provare attrazione per qualità di una persona che immaginiamo soltanto noi. Non vogliamo tutte queste cose perché è meglio vivere nella verità (salvo casi molto speciali).
Tuttavia, dobbiamo anche chiederci che cosa c’è di così speciale nell’idea di vivere nella verità. Non deve esserci necessariamente e soltanto qualcosa di speciale e raro, ma anche qualcosa di molto comune, perché nessuno potrebbe mai vivere, se non avesse un larghissimo bagaglio di credenze che si dimostrano vere. Avere delle credenze vere è un ausilio indispensabile alla nostra sopravvivenza come individui e come specie. I Darwin Award sono gli ironici riconoscimenti che vengo attribuiti a chi ha tolto di mezzo il proprio genoma, ammazzandosi spesso grottescamente per la propria stupidità.
Avere entro certi limiti un controllo delle proprie emozioni non ha, però, a che fare unicamente con la conoscenza, bensì anche con la sofferenza. Poiché le emozioni spesso ingannano, perché ci fanno credere che esistano eventi che nella realtà non esistono, controllarle, per quanto ne siamo capaci, è un farmaco contro la possibilità di incrociare il dolore nelle nostre vite più di quanto sia necessario. Le emozioni sono una colla che ci fa attaccare spesso in maniera del tutto non desiberabile alle situazioni. Si pensi alla rabbia o alla gelosia o alle pulsioni naricisistiche: emozioni con un forte contenuto negativo, che hanno un effetto distorcente sulla nostra esperienza della realtà. Questo è riconosciuto anche in una certa misura da espressioni del linguaggio comune, che parlano di “esame spassionato” e di “ragionare a mente fredda”, così come di “teste calde” e di “ormoni impazziti” (con una bella virata dalle passioni alla neurobiologia).
Le passioni, quindi, ci manipolano. Gli autori della manipolazione possiamo essere noi stessi oppure gli altri. Spesso, l’altro che ci manipola con il sapiente dosaggio delle emozioni è il potere politico. Il potere sollecita sempre, in ogni luogo, per perpetuarsi, e soprattutto in momenti critici, il sorgere di emozioni che devono avere la funzione di riunire i cittadini attorno a sé per sostenerlo.
Questa è una vecchia storia, vecchia come il sorgere di aggregati politici tra gli uomini. Nella Roma antica il pianto era tanto strumento di crontrapposizione tra fazioni quanto strumento di sollecitazione diplomatica. Durante la seconda Guerra Punica, i peteliani, alleati dei romani insediati a Bruttium nell’estremità meridionale della penisola italiana, si recano nel Senato romano riempiendolo di lamenti e di pianti per sollecitare Roma al rispetto dell’alleanza, suscitando secondo Tito Livio grandissima afflizione tra il popolo e i senatori.
Il 26 gennaio 1996, la prima frase che pronuncia Silvio Berlusconi per annunciare il suo ingresso ufficiale nella contesa politica, ingresso che di fatto era già avvenuto, sin da quando nella competizione per il sindaco di Roma aveva dichiarato che avrebbe votato Gianfranco Fini, allora segretario di un partito neo-fascista chiamato Movimento Sociale Italiano, non ha nulla a che fare con programmi politici e nemmeno è un appello diretto a sentimenti del suo uditorio, ma è l’esibizione di un sentimento personale, anche se non privato. “L’Italia è il paese che amo”, dice Berlusconi aprendo così una campagna elettorale che in pochi mesi lo porterà alla guida del Paese. In poche ore il videomessaggio di Berlusconi, che, inizialmente deriso dalla maggior parte dei partiti politici, dominerà la politica italiana per i seguenti vent’anni, è visto da più di venti milioni di italiani.
In questi esempi, l’esibizione di emozioni, che sospettiamo non essere del tutto vere, sono in funzione del raggiungimento di obbiettivi politici determinati: cementare un’allenza con una potenza, candidarsi alla guida di una nazione.
Nei due esempi che ho citato l’idea è che l’empatia venga suscitata come funzione positiva. Ma certamente non è questa l’unica strategia che il potere ha per utilizzare le emozioni. Esiste anche una funzione politica delle emozioni negative, prima tra tutte la paura, che può essere trasformata in empatia negativa. In situazioni percepite come altamente critiche, la paura è un potente filtro distorcente. Credo lo si veda molto bene proprio in questi giorni, quando alla diffusione epidemica in alcune nazioni di un virus precedentemente sconosciuto si è assistito anche alla diffusione epidemica di paure irrazionali alimentate da governi nazionali e locali. Infatti, ci sono nazioni che della recente epidemia di Covid-19 sono state toccate solo in maniera estremamente marginale, ma che hanno messo in atto strategie di comunicazione terrorizzanti. A fronte di poche centinaia di morti (molti di meno di quante ne generano guerriglia armata e narcotraffico), circa la metà dei colombiani teme di morire di Coronavirus, un virus che colpisce prevalentemente persone anziane con precedenti condizioni sanitarie critiche.
Quando Montaigne visita nel 1580 la città di Augusta, è impressionato dalle misure di sicurezza alle quali ogni visitatore deve sottoporsi per entrare dentro le mura cittadine: quattro porte di legno riforzate con piastre di ferro, un ponte sul fossato e un ponte levatoio prima di accedere a una stanza solitaria dove pagare un pedaggio. Il clima di insicurezza era tanto diffuso quanto fondato. Come puoi fidarti di chi non conosci? Il nostro mondo ha annullato apparentemente le distanze, lo sappiamo tutti. In maniera istantanea possiamo venire a conoscenza di quanto accade in posti molto distanti dal nostro. Questi posti possono diventare improvvisamente vicini, perché la paura crediamo ce li renda familiari. Così, non stupisce che il potere, qualsiasi potere, familiarizzi rapidamente con la paura empatica che diviene endemica e la veda come uno strumento per annullare le capacità di ragionamento che la maggior parte della gente possiede, al contrario di quanto qualche snob spesso crede. Noam Chomski, un anarchico incredibilmente ottimista sulla natura umana, come in effetti dovrebbe essere ogni libertario, sosteneva che la presenza di queste capacità critiche diffuse nella popolazione generale è provata dalla diffusa capacità di discutere di sport in modo argomentato. Non sottovaluterei questa osservazione, non solo perché proviene da un intellettuale tutt’altro che ingenuo. Ma questi non sono certo i giorni dell’ottimismo per quanto riguarda le capacità critiche, che vengono annullate dalle metafore della guerra e da quelle del nemico invisibile, metafore che vengono utilizzate per perseguire progetti ingegneristici e per plasmare situazioni future nel lavoro, nell’istruzione, nei debiti dei quali ci caricheremo, come se noi fossimo nelle condizioni di governare la realtà.
Foto di Enrique Lopez Garre
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