IDIOSINCRASIE DI UNO SPORTIVO PROFESSIONISTA

MATTEO BONICIOLLI
Sono un privilegiato.
Dal 1988, una vita, il mio lavoro è la mia passione. Insegnamento e pallacanestro sono le due cose che ho amato di più e l’essere diventato un allenatore professionista di questo sport mi ha concesso di coniugare questi due elementi facendoli diventare il mio mestiere.
In più, complice qualche successo, il lavoro mi ha consentito non soltanto di viaggiare molto, ma addirittura di vivere continuativamente, per periodi più o meno lunghi, in tre continenti diversi, Europa, Asia e Nord America.
Questo percorso mi ha fatto vivere personalmente ciò che l’antropologo Orin Sfarn ha definito transculturation, ossia l’adattamento di un’attività sportiva, normata da regole e gesti che dovrebbero essere sostanzialmente identici, all’ambiente all’interno dei quali si manifesta.
Per cui, anche se può sembrare stranissimo, la pallacanestro insegnata e praticata nei Paesi dell’ex Unione Sovietica è radicalmente diversa da quella insegnata negli Stati Uniti o in un Paese europeo come il Belgio o la Francia.
Ho utilizzato questa premessa, mi auguro non troppo lunga e noiosa, per arrivare a raccontare brevemente come questo lavoro magnifico sia venuto sviluppandosi nel nostro Paese.
L’aspetto più affascinante del coaching è, senza ombra di dubbio, quello della costruzione. O meglio: della progettazione e della costruzione di un giocatore, di un Club, qualche volta addirittura di un successo, persino di una vittoria.
È facilmente intuibile che l’alleato più forte per chi costruisce sia il tempo. È solo un progetto di medio o lungo periodo quello che ti consente di costruire partendo da solide fondamenta, fondamenta che ti consentiranno di rimanere in piedi in periodi di difficoltà, che inesorabilmente si avvicenderanno ai risultati positivi.
Soltanto un giocatore fortemente consapevole dei suoi mezzi e delle sue capacità potrà resistere, senza scoraggiarsi, ad un periodo in cui le sue prestazioni sportive non saranno aderenti alle aspettative di tifosi, stampa, sponsor e proprietari, così come soltanto una Società solida potrà far fronte a quei momenti critici, in cui le sconfitte sono piuù frequenti delle vittorie.
Purtroppo, invece di proporsi come esempio virtuoso, gran parte dello sport professionistico italiano è andato omologandosi a quella caratteristica oramai dominante nel nostro Paese, drammaticamente rappresentata dal mondo politico, che è quella della ricerca del risultato, spesso del tutto fragile, nel qui e ora.
La prospettiva, se così possiamo chiamarla, del qui e ora, e mi limito a parlare di sport (anche se sono convinto che questo valga in qualsiasi ambito), porta con sé delle conseguenze molto difficilmente gestibili da chi vive in questo mondo.
Se il filtro attraverso il quale il lavoro di un gruppo di persone viene valutato è il risultato di una singola partita, o, nel migliore dei casi, di un breve periodo, spesso non superiore a uno, due mesi, è evidente che le scelte e le modalità operative di un allenatore saranno orientate a privilegiare l’impiego di risorse umane immediatamente utilizzabili, senza quindi occuparsi del futuro del proprio club, della crescita di qualche giovane giocatore, le quali inevitabilmente dovranno passare attraverso prove ed errori.
Se si adotta la prospettiva del risultato immediato, i soldi necessari ad allestire una squadra sportiva saranno sempre “spesi”, e mai “investiti”. con conseguenze negative facilmente intuibili per gli stessi risultati che si desiderano raggiungere.
A questo già complicatissimo aspetto si aggiunge un altro elemento, giustamente ritenuto fondamentale nello sport professionistico, ossia la comunicazione.
Rispetto ad un passato nemmeno troppo lontano, in cui a tener desta l’attenzione degli appassionati durante la settimana erano interessantissime interviste di grandi allenatori che si provocavano, si sfidavano pubblicamente, esplicitavano le ambizioni loro e dei loro Club, siamo passati ad una comunicazione per la massima parte omologata, che ha il sapore di un prodotto artefatto, in cui vengono ripetuti all’infinito concetti banalissimi, non impegnativi e deresponsabilizzanti per l’allenatore, più volti a scaricare sugli altri “l’obbligo” di vincere, piuttosto che a trasmettere un sano desiderio di arrivare al successo.
A questo proposito mi piace ricordare quanto scritto qualche anno fa da un vero intellettuale dello sport italiano, Gianluca Vialli, attaccante della Sampdoria Campione d’Italia e della Nazionale, a riguardo alla sua esperienza inglese come giocatore e successivamente allenatore del Chelsea.
Vialli, mettendo a confronto le sue esperienze di sportivo di alto livello in Italia e in Inghilterra, scrisse che “in Inghilterra vincere è una gioia, in Italia vincere è un sollievo”.
Questo concetto, che mi colpì moltissimo e che, per certi versi, l’ho sempre reputato l’epitaffio più adatto da imprimere sulla pietra tombale del nostro sport in Italia, mi porta a concludere questo mio intervento accennando ad un ultimo aspetto, importantissimo, dello sport professionistico, che da sempre comporta degli aspetti molto complessi.
Mi riferisco al ruolo del pubblico, cioè del principale fruitore dello spettacolo sportivo.
Negli Stati Uniti, la patria della pallacanestro, come del baseball e del football, le stagioni sportive delle singole discipline vengono proposte al pubblico in maniera tale da non accavallarsi nella programmazione televisiva, se non per brevissimi periodi. Le persone arrivano all’impianto sportivo spesso con addosso i colori della squadra del cuore, si siedono in magnifici impianti e, seduti fianco a fianco con gli altri tifosi della squadra avversaria, a loro volta vestiti con i colori sociali, tifano per la loro squadra.
Il tifo è molto coinvolgente, soprattutto nello sport universitario, che è vissuto con grande partecipazione. Al termine della partita gli spettatori si alzano e se ne vanno.
Nel nostro Paese è invece accaduto spesso che le Questure proibissero l’arrivo di tifosi ospiti, oppure che questi venissero relegati e rinchiusi in spazi appositamente dedicati all’interno degli impianti sportivi, per evitare che le opposte fazioni venissero a contatto.
Quando ciò è accaduto, spesso ci siamo ritrovati a fare la conta dei feriti, dei contusi, se non addirittura dei morti.
È palese che giocare in un clima del genere, perché di gioco si tratta, rappresenta una contraddizione sin troppo stridente, anche qui con conseguenze evidenti sulla qualità del gioco proposto a pubblico e televisioni.
Sotto questo aspetto il ruolo negativo dei social media è stato cruciale, perché hanno esacerbato frustrazioni e ostilità che non avrebbero ragione di esistere se lo sport, anche quello professionistico, recuperasse in Italia, la sua dimensione di progetto e di costruzione, che io penso abbia anche un fondamentale spessore educativo. Mi chiedo anche come, in un paese sin troppo pieno di leggi come il nostro, non ci si sia ancora decisi ad obbligare i frequentatori della rete a firmare i propri commenti con nome e cognome, anziché con improponibili nickname.
Progetto, costruzione, comunicazione, rapporto con il pubblico sono, nella mia esperienza, aspetti che possono e devono andare insieme. Le alternative, per quello che ho potuto sperimentare, non sono altro che devastanti e non solo per la pratica sportiva.
Foto di David Mark
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