L’ANAGRAMMA IMPOSSIBILE

GIANFRANCO CARBONE
Idiosincrasia: sostantivo, elemento del sistema linguistico che designa una persona o cosa qualsiasi (ente, concreto o astratto, singolo o collettivo) nei cui confronti si esprime una valutazione o un giudizio che è, in sé, autosufficiente ad esprimerli (a differenza dell’aggettivo che determina la qualità dei sostantivi se qualificativo o la loro situazione nell’ambiente se pronominale).
La parola “idiosincrasia” ha un significato puntuale nel linguaggio corrente: essa esprime “‘forte avversione per qualcosa o qualcuno’, ‘ripugnanza esasperata’, profonda insofferenza, rifiuto assoluto, incompatibilità radicale che causa repulsione’ (definizioni di Zingarelli , Devoto-Oli , Sabatini-Coletti ).
Nel linguaggio medico rispecchia un concetto parzialmente diverso e indica l’enfatizzazione negativa di un aspetto di contrasto fra la cura e la patologia. Per molti medici determinare l’idiosincrasia fra cura e paziente comporta l’ ‘individuazione della natura della persona malata. È una scuola di pensiero antica. Lo scrisse per primo Galeno in Methodus medendi.
La parola è composta da tredici lettere: (sette vocali e sei consonanti). Le lettere sono: quattro i, due a, due esse, una erre, una ci, una di, una enne, una o.
In italiano non ci sono altre parole formate da queste lettere e così “idiosincrasia” non ha anagrammi possibili.
Non ci sono anagrammi parziali (logogrifi : gioco enigmistico che consiste nel formare parole di varia lunghezza utilizzando solo alcune delle lettere di una parola di partenza) con 12 lettere.
C’è un solo anagramma, parziale, utilizzando 11 lettere: la parola “disarcionai” (e restano in panchina le lettere i ed s .
I linguisti discutono se l’aggettivo più corretto per indicare chi è “affetto da idiosincrasia” sia idiosincratico oppure idiosincrasico
I puristi preferiscono la variante con la lettera s (idiosincrasico) perché sostengono che la variante con –t– sia meno rispettosa dell’etimo in quanto di derivazione inglese ( idiosyncratic), coniata sul modello di apostasia – apostatico, oppure enfasi – enfatico anche se gli aggettivi con il suffisso derivazionale “ticus” derivano, normalmente, dal tardo latino e quindi, i puristi, storcendo il naso agli anglicismi rimuovono la radice latina che, in tempo di sovranismi, non è una scelta da poco ma a questa contraddizione ci conduce l’eterogenesi dei fini come conseguenza non intenzionale di una scelta culturale intenzionale.
Si vuole difendere la purezza tradizionale linguistica e ci si immerge, implicitamente, nei meandri della contaminazione ma anche questa potrebbe essere un’astuzia della ragione (così forse avrebbe pensato Hegel) in un mondo globalizzato sempre più dipendente da un lessico omogeneizzato
But be careful!
Coloro che si addentrano in questa sottile riflessione etimologica sui terminanti dell’aggettivo pronti a criticare o ad apprezzare la sua origine inglese non pensino di avviare una discussione con un inglese vero che ascolterebbe allibito.
L’unico significato comune fra italiano e inglese è l’uso medico (ad esempio, idiosyncrasy individual hypersensitiveness as to a drug or food) mentre nell’uso corrente quello che per noi italiani è una forte avversione per qualcosa o per qualcuno per un inglese è invece “a peculiarity of constitution or temperament: an individualizing characteristic or quality” oppure “characteristic peculiarity (as of temperament); broadly: eccentricity”.
Dal timore o dall’insofferenza all’originalità o al relativismo del “in linea di massima”
Attenzione: siamo pieni di stranieri in patria, non se ne sente la mancanza.
Torniamo in Italia.
Quante persone conoscono esattamente il significato del termine e parlando fra loro si capiscono?
Luigi Pirandello che, che si laureò in Germania dove fece analisi approfondite sull’uso di termini nelle diverse lingue. nel dramma Sei personaggi in cerca d’autore evidenzia il tema dell’incomprensione, e mette in risalto l’impossibilità degli uomini di esprimersi e comunicare intendendosi in modo concreto.
È doverosa una citazione del testo:
“Ma se è tutto qui il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo d’intenderci; non c’intendiamo mai!”.
Ma qui tocchiamo un livello diverso di riflessione.
Ognuno di noi alla base della struttura del pensiero categorizza diverse idee, oggetti e situazioni. Utilizziamo delle procedure mentali. Utlizziamo (consapevolmente? Non credo) l’astrazione, ricercando gli aspetti che due o più oggetti, idee, situazioni hanno in comune, e la generalizzazione con un procedimento induttivo per associare ad una varietà di elementi o di esperienze lo stesso significato.
In ognuno di noi i concetti derivano dall’esperienza e parlare con qualcuno di qualche cosa è la capacità cognitiva che più ci caratterizza nella sua duplice funzione comunicativa e simbolica, che consente di descrivere oggetti o eventi attraverso simboli e concetti.
La mia avversione per qualcosa o qualcuno, quindi la mia “idiosincrasia” si trasforma in concetto espresso dalle mie parole sulla base di un’esperienza personalissima nella quale sono sedimentate le mie paure o le mie antipatie o i giudizi che ho elaborato.
Se li esprimo in un discorso con un’altra persona trasmetto inevitabilmente il significante, il tono acustico o l’immagine, ossia la faccia esterna del mio pensiero per come viene percepita da un altro ma non il significato che ho interiorizzato con la mia vita.
Comunico la mia “idiosincrasia” per qualcuno o qualche cosa ma chi parla con me comprende la mia avversione ma non ne coglie l’emotività anche perché quel “qualcuno” o quella “cosa” può essere per lui del tutto indifferente o, persino, suscitarli una reazione positiva o di empatia.
La parola può assumere quindi sfumature di valore e significati ambivalenti; nell’uso si opacizza e non sempre è riconducibile in senso stretto all’etimo. Mutata, come un virus (riferimento attualissimo) nel gioco delle esperienze individuali può esprimere rigetto o capriccio, ossessione, persino arbitrarietà.
Molti intellettuali ne hanno piegato il senso alle proprie esigenze e sono testimoni dell’adattabilità del termine al contesto, sulla base di una spinta del tutto individuale con margini altissimi di soggettività.
L’idiosincrasia dei testi di Croce non è la stessa definita da Bacchelli così come per Pavese spazia in un ambito differente da quello di Magris o Arbasino.
Ha forse ragione Edmondo De Amicis che nel suo libro L’idioma gentile la prende di mira e ironizza considerandola “parola indegna” “Le declamazioni d’una liberale e civile idiosincrasia. C’è chi ne va matto !”.
Ma poi, nel linguaggio corrente, viene capita?
Siamo proprio sicuri che utilizzando la parola venga afferrato il concetto, almeno quello elementare e definito dal dizionario di “profonda insofferenza” o di “rifiuto assoluto”?
Non ne sarei tanto sicuro.
Gira un testo che descrive un corteggiamento.
Un giorno, un galante sagittabondo decise di tentare un esperimento: si vestì come il peggiore degli sciamannati e uscì di casa, ben deciso a conquistare una bella sgarzigliona.
Non appena intravide la predestinata, tuttavia, la mente del gaglioffo si obnubilò e lui commise un errore lapalissiano: le si avvicinò meditabondo, le girandolò intorno e e la stordì con un discorso talmente pleonastico da sembrare artefatto.
La fanciulla, trasecolata dall’aspetto bislacco dello smargiasso, dapprima si spaventò, poi lo apostrofò con una bella ramanzina.
“Signorina, qui ci troviamo di fronte a un grosso granciporro! Non si lasci ingannare dai miei abiti frusti e venga a cena con me.”
La donzella, ammaliata da quel lessico forbito, accettò un pasto luculliano, al termine del quale il nostro amico –solipsista solo in apparenza- lasciò addirittura una generosa buonamano.
Sottoposto a verifica in una ampia platea di lettori una percentuale inimmaginabile non solo non conosceva il significato di tantissime parole (dalle più inusuali come “frusto” o “solipsista” alle più intuitive come “meditabondo” o “obnubilato”) ma non riuscì ad afferrare il senso della frase che altro non descrive che un comunissimo corteggiamento.
È quindi assolutamente realistico il dialogo fra Sandy e Frenchy nel film Grease.
Nella confusione restano le mie paure, le mie repulsioni, i miei rifiuti assoluti che io definisco “idiosincrasie”.
Mi sento come Lucrezio nella “De rerum natura” ed ho elaborato il mio personalissimo tetrafarmaco nei suoi quattro componenti essenziali:: non si deve aver paura della morte, non si deve aver paura degli dei, il bene è facilmente raggiungibile, il male è facilmente evitabile.
Lo considero, direbbe Petrarca, un capitolo de remediis utriusque fortunae della mia esistenza condito da un rassicurante Oderint dum metuant (Mi odino, purché mi temano) che viene trattato dal Machiavelli nel Il principe a cui dedica un capitolo intero, il XVII La crudeltà e la pietà; e se sia preferibile essere amati piuttosto che temuti, o il contrario, e questa è la risposta del segretario fiorentino: “Ma perché è gli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbi a mancare dell’uno de’ dua. […] li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che si facci amare, che uno che si facci temere: perché lo amore è tenuto da uno vinculo di obligo, il quale, per essere gl’uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto, ma il timore è tenuto da una paura di pena che non ti abbandona mai.”
Ma è proprio così per noi sudditi timorosi? La mia cura è efficace nei confronti di un singolo ma del “potere”?
Nel frontespizio della prima edizione del Leviatano di Hobbes, è riprodotto il corpo a mezzo busto di un sovrano che incombe sulla città, che sorveglia i sudditi ma che li protegge dai nemici e contiene numerosissime figure umane che guardano in alto verso il loro re. È stata offerta un duplice interpretazione di questa immagine, che ad un esame sommario sembra voler dire che il sovrano è tale per volontà ed effetto dei sudditi, ma è stato aggiunto nell’interpretazione che «i sudditi sono gli autori della loro propria paura ed è il loro sguardo spettrale a rendere il viso del Leviatano, altrimenti benigno, non solo maestoso, ma anche minaccioso» (così ne pensa Corey Robin, Paura. La politica del dominio).
E queste diventano le mie cure banali delle mie idiosincrasie contro qualcuno: chi mi sta sul cazzo lo mando a fan culo.
Nei confronti del re o in generale del potere non mi dimentico che “è nudo” sempre pronto a denunciarne i limiti perché, oltre a tutto, mi sento in credito per tutte le volte che un potere ha reso me nudo.
E l’idiosincrasia per qualche cosa? Per un ragno o un serpente. Per questa non ho un rimedio. Me la tengo. Mi rassicuro come Totò che dice nel suo film Figaro: “Il coraggio non mi manca. È la paura che mi frega.”
Se vedo un serpente scappo, provo una ripugnanza esasperata, una vera idiosincrasia.
FILOSOFIA LETTERATURA endoxa maggio 2020 Gianfranco Carbone idiosincrasie LETTERATURA Pirandello