RELAZIONI REPULSIVE: LEGGE, NATURA E MUSICA IN UN’OPERA BUFFA DI ROUSSEAU
PIER GIUSEPPE PUGGIONI
1. Il Rousseau compositore e le sue ‘idiosincrasie’ – Ogni tanto, quando ci accostiamo alla storia della letteratura, potremmo chiederci quanta parte di ciò che i grandi autori hanno consegnato ai posteri – o, meglio, di quello che i posteri hanno raccolto da loro – corrisponda alle aspirazioni che tali autori avevano in vita. Molto spesso, infatti, si celebrano importanti intellettuali, attribuendo ad alcune loro opere un valore che essi, magari, avrebbero desiderato per altre.
La figura del grande Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), in effetti, corrisponde in larga misura a questa descrizione, dal momento che, se quasi tutti ne conoscono il genio filosofico e letterario, non tutti sanno della sua passione per la musica e delle sue ambizioni di compositore. Non è un caso, d’altronde, che nelle Confessioni il riferimento alla propria esperienza compositiva – e in particolare ad un lavoro che vedremo qui – compaia con frequenza quasi maggiore rispetto alle opere che lo hanno reso, dopo la sua morte, il filosofo della Rivoluzione francese.
La dedizione di Rousseau alla musica, in realtà, non sorprende più di tanto, in quanto molti dei suoi contemporanei (intellettuali di spicco quali erano gli enciclopedisti) lasciarono contributi e studi su teoria e pratica musicale pur senza essere musicisti di professione. A suscitare un potenziale interesse è, piuttosto, l’opportunità che abbiamo di leggere il fattore musicale all’interno del pensiero rousseauiano, aiutandoci, in particolare, con un lavoro operistico che l’autore ebbe molto a cuore. Nell’Indovino del villaggio (Le devin du village), di cui Rousseau scrisse testo e musica, si possono osservare diversi aspetti della sua riflessione filosofica, tradotti, da una parte, nella poesia del libretto e, dall’altra, in un particolare approccio tecnico alla composizione.
Ora, prima di cominciare, è opportuno – come si suole dire – ‘mettere le mani avanti’. Chi scrive non è, infatti, uno storico della musica, bensì uno studioso di filosofia del diritto che, per qualche misteriosa e trascendente circostanza, si trova a convivere con un viscerale attaccamento alla musica ed una modesta competenza in materia. Non potrà avere luogo, dunque, una minuziosa analisi musicologica, ma sarà importante fare riferimento, di volta in volta, ad alcuni temi e concetti musicali di un certo rilievo, onde comprendere, da un lato, il modo in cui Rousseau traduce il proprio pensiero nella partitura, scoprendo, dall’altro, che questo esercizio musicale ci permette di rimarcare alcuni aspetti – forse un po’ sottovalutati – della riflessione politica dell’autore.
Attraverso il libretto e lo spartito del Devin, cercherò di osservare, in modo particolare, il rapporto tra natura e civiltà, quello tra felicità e legge, nonché la distinzione fra le relazioni umane proprie dello stato primitivo e quelle che, invece, l’uomo instaura nella società civile. Sembra, infatti, che la famosa caratterizzazione dell’uomo rousseauiano provocasse nei suoi lettori una sorta di intima repulsione – o, addirittura, di ‘idiosincrasia’ – verso la società cetuale d’Ancien Régime, tanto far dire a Voltaire che, a leggere i Discorsi, veniva voglia «di camminare a quattro zampe» (Lettera del 30 agosto 1755). Il significato di una simile repulsione, tuttavia, va indagato con una certa attenzione, per non fraintendere il senso e – per certi versi – lo ‘scopo’ che potrebbe rivelarsi adombrato in esso. Ai fini di questo discorso, il lavoro musicale di Rousseau ci dà un grande aiuto, poiché sembra avallare una lettura per cui, nella sua raffigurazione dello stato di natura, l’uomo non sarebbe in realtà completamente isolato, ma farebbe esperienza di alcuni contesti relazionali, che a differenza delle relazioni «civili» hanno qualcosa di ‘buono’.
2. L’indovino del villaggio: una pedagogia delle opposizioni – L’opera di cui parliamo rappresenta il miglior prodotto dell’esperienza compositiva di Rousseau, il quale in effetti se ne mostra assai orgoglioso. Tuttavia non si tratta, come anticipato, del suo unico lavoro musicale. A precederlo sono infatti alcune composizioni, sacre e profane, che sembrano dare del filosofo ginevrino un’impressione di relativa mediocrità. Non a caso, egli racconta che, al momento della presentazione dell’Indovino all’Opéra, nel 1752, era tutt’altro che ottimista nei riguardi della propria musica, visto «l’insuccesso delle Muse galanti» (opera composta circa una decina d’anni prima). D’altronde, trattandosi «di un genere del tutto nuovo, al quale le orecchie non erano assuefatte» (Conf., VIII, 1), l’autore non si stupì del disprezzo ricevuto da musicisti del calibro di Rameau. Pare, tuttavia, che il pubblico nobiliare apprezzasse il lavoro, tanto che lo stesso re di Francia, dopo averlo ascoltato, non smetteva di cantare, «con la voce più stonata del suo regno», il tema e le parole della prima aria (VIII, 2).
Prima di analizzare vari aspetti interessanti di questo «intermezzo buffo», conviene fare una breve ricognizione della trama, a cui, peraltro, Mozart si ispirerà per la scrittura di Bastien und Bastienne. Ambientata in un villaggio di campagna nei pressi di una corte signorile, la vicenda si svolge in un unico atto e gravita intorno a tre ruoli principali: la pastorella Colette, interpretata da un soprano; l’indovino del villaggio, un simpatico basso particolarmente autorevole nella piccola comunità; il pastore Colin, il quale, da bravo tenore, decide di divenire il cicisbeo della Dama del Castello, spezzando il cuore dell’amante Colette. Quest’ultima, in preda alla disperazione, viene aiutata dall’indovino a recuperare le attenzioni dell’amato, il quale, forte del proprio sentimento nei riguardi della pastorella, rinuncia allo sfarzo della vita di corte e decide di unirsi a Colette in un «dolce matrimonio» (Devin, sc. VI, duetto).
All’interno di quest’impalcatura, si muovono diversi sentimenti e desideri, ai quali l’autore associa differenti reazioni emotive. In un certo senso, proprio l’accostamento delle reazioni ai desideri dei personaggi è il vero protagonista dell’opera, in cui emergono, attraverso una serie di opposizioni, alcuni accenti filosofico-politici tipicamente rousseauiani. Ciò si vede benissimo fin dal primo verso del libretto, che apre l’aria di Colette: «J’ai perdu tout mon bonheur», che sembra più plausibile tradurre come ‘perdita della felicità’, piuttosto che del mero ‘buonumore’. La giovane pastorella si trovava, dunque, in una condizione felice, finché il suo amante – come suggerisce l’indovino – non ha sviluppato la ‘vanità’ (vanité) che l’ha condotto al tradimento. Questa vanità è dovuta, a sua volta, al fatto che la Dama – personaggio di cui si parla, ma che rimane fuori scena – lo costringe a vestirsi con sfarzo ed eleganza (il verbo è «se parer», che evidentemente si lega alla parure: Devin, sc. II). Al sentimento della vanità, l’indovino oppone l’«amore» che unisce i due protagonisti in modo spontaneo e, pertanto, sincero, preservando in essi la felicità.
Dal lamento di Colette, traspare l’idea per cui un’altra possibile sorgente della ‘vanità’ risiederebbe nei «discorsi delle donne di città». Così, Rousseau riprende un’altra celebre opposizione – quella tra campagna e città – che però egli articola in modo parzialmente autonomo rispetto alla generalità delle opere di ambientazione cortese. Per il filosofo ginevrino, infatti, questi contesti generano non tanto «vizi» o «virtù», quanto sentimenti più o meno buoni a seconda della loro maggiore o minore conformità a natura. Sappiamo, d’altra parte, che la «felicità» ha un ruolo centrale nei due celebri Discorsi, nei quali il filosofo dice, per un verso, che il progresso delle scienze e delle arti nulla apporta «alla nostra vera felicità», andando semmai a detrimento dei costumi e del gusto (Discorso sulle scienze e le arti, 1750, II), e sottolinea, per altro verso, come l’uscita dallo stato primitivo, che nasce dall’istituzione arbitraria della proprietà privata, abbia prodotto «composti funesti alla felicità e all’innocenza» (Discorso sull’origine della disuguaglianza, 1754, II).
Lo stesso Colin si rende conto di aver perduto «dolci momenti» (Devin, sc. V, air), non ascoltando i propri sentimenti per Colette e perseguendo piaceri vani ed artificiali, come «castelli, grandezza e ricchezza», tutti ‘valori’ che presuppongono la società civile ed un sistema di appartenenza ‘privata’ della ricchezza materiale e della stima altrui. Egli saluta questi amori fittizi con un commosso «adieu», intonando in minore la prima parte della sua aria, con un tema cantabile che viene poi ripreso dall’orchestra durante la ‘pantomima’ dell’ultima scena, all’ingresso del signore del castello: forse, qui, l’autore vuole ricordare allo spettatore che le asimmetriche relazioni di potere, tipiche della civiltà, non sono cosa di cui ci si liberi facilmente. Ciò nondimeno, Rousseau insiste sul gioco di opposizioni, sottolineando come neanche il ‘potere dei signori’ («de seigneurs d’importance / … [la] puissance», ibid.) procuri all’uomo la felicità.
Nell’ottava scena, infine, l’indovino rende ancor più esplicito il divario fra il contesto della città (ville), in cui prevale la ‘cortesia’ (amabilité), e quello del villaggio, che ospita l’«amore», termine con cui si richiama ogni sentimento innocente conforme alla «semplice natura» (sc. VIII, stanze I-II). Nella seconda stanza del brano finale, ritorna il termine «parure» (gli ‘ornamenti’) – impiegato in diverse parti del testo –, stavolta in evidente contrapposizione alla ‘natura’ («ici de la simple nature / … en d’autres lieux, de la parure»). Tale sostantivo serve, in generale, a richiamare i costumi corrotti dell’uomo ‘incivilito’ che, attraverso le «raffinatezze della mollezza e del lusso» (Lettera ai signori della Repubblica di Ginevra, premessa al Secondo discorso), diventano specchio della disuguaglianza fra gli uomini.
3. Linguaggio musicale ed intimità naturale – Nel quadro tratteggiato da Rousseau, il rapporto fra villaggio e città, fra la natura e la civiltà ‘iniqua’, l’elemento musicale ricopre un importante ruolo comunicativo e, in un certo senso, normativo. Da una parte, la concezione rousseauiana della musica deve leggersi alla luce di quella querelle des bouffons nella quale, al tempo del filosofo, si dibatteva se fosse meglio la musica italiana o quella francese. Ora, secondo Rousseau, schierato a favore della tradizione italiana, esiste un legame profondo tra la musica che si sviluppa in un dato Paese e l’evoluzione della sua lingua. In particolare, nella Lettera sulla musica francese (1753) e nel postumo Saggio sull’origine delle lingue, egli afferma che la tradizione francese non potrebbe partorire buona musica, essendo il francese una lingua che poco si presta alla musicalità.
La parentela fra linguaggio musicale e linguaggio verbale si articola, oltre che nella ‘teoria’, anche nella ‘pratica’ compositiva del filosofo, per il quale la musica dovrebbe esprimere la spontaneità dell’istinto naturale e non, invece, una serie di convenzioni arbitrarie. In queste convinzioni, che deriverebbero dalla lezione di Jean Baptiste Dubos, si nascondono implicazioni politiche non secondarie, che in parte giustificano l’accostamento fra L’indovino del villaggio e La serva padrona di Pergolesi, con cui l’intermezzo di Rousseau viene solitamente confrontato. Senza dubbio, l’intento polemico dell’opera napoletana è ben più esplicito rispetto alla critica dei rapporti di potere ravvisabile nel Devin, ma non deve dimenticarsi che le due opere sottendono prospettive ‘politiche’, almeno in parte, differenti: se, da una parte, l’intraprendente serva Serpina desidera esser rispettata e riverita come «padrona, / arcipadrona, padronissima», dall’altra parte gli abitanti del village non vogliono abbandonare lo stato felice in cui si trovano, poiché sono l’incivilimento e l’assunzione delle convenzioni cortesi a causare l’infelicità.
Le due opere condividono, peraltro, alcune soluzioni tecniche – in cui l’abilità di Pergolesi non è certamente eguagliata da Rousseau –, fra le quali una pare estremamente significativa per il nostro discorso. Si tratta dell’impiego del recitativo secondo uno stile ‘naturale’, che nell’Indovino è «accentato in maniera del tutto nuova, e proced[e] in uno con la parola parlata» (Conf., VIII, 2). Fornendo numerose indicazioni all’esecutore (cantante e strumentista), Rousseau cerca di costruire una strettissima corrispondenza fra le dinamiche del suono ed il significato del testo recitato, per trasmettere fedelmente la spontaneità del linguaggio e l’atmosfera d’intimità che caratterizza la vita nel villaggio.
Questo stile musicale, che tutto sommato sembra abbastanza originale, funziona come una ‘cassa di risonanza’ per le posizioni filosofico-giuridiche dell’autore. L’intimità naturale, celebrata nel testo e rimarcata dalla musica, non è soltanto il tema di una narrazione, ma è anche oggetto di una norma. Rousseau, infatti, partendo dalla ‘descrizione’ d’uno stato primitivo e naturale, ricava la ‘prescrizione’ in relazione al giusto ed all’ingiusto, violando così – in buona compagnia degli altri giusnaturalisti – la famosa ‘legge di Hume’ per cui non si può ‘saltare’ arbitrariamente dall’essere al dover essere.
4. Relazioni nello stato di natura? – La vita del villaggio assume, come s’è detto, un significato normativo, che riferisce gli attributi di ‘giustizia’ e ‘bontà’ alle relazioni spontanee, nella misura in cui queste seguono l’istinto naturale – si badi, è sempre Rousseau a stabilire il confine tra ‘naturale’ e ‘artificiale’ – e qualifica, al contrario, come ingiusto e cattivo ciò che viene dalla civiltà e produce gelosia, vanità ed invidia. Tale significato normativo è, in parte, accennato nel duetto dei due amanti, che dichiarano di voler accettare l’amore come propria «legge» («que l’amour soit notre loi», Devin, sc. VI, ensemble). Anche la figura dell’indovino – che non esercita veramente poteri divinatori, ma è creduto ‘magico’ dagli abitanti del villaggio – sembra una sorta di custode di queste ‘prescrizioni’, quasi per darci un’avvisaglia di quella «religione civile» (Contratto sociale, 1762, IV, 8) i cui articoli di fede sono funzionali al rispetto delle norme vigenti in un dato ordine sociale, che nel Contrat è ‘civile’, mentre qui sarebbe ‘naturale’.
L’intimità descritta nel Devin, che si fonda sull’esigenza di conformarsi alla legge di natura, potrebbe, tuttavia, essere intesa come un’aporia nella concezione rousseauiana dello stato di natura, che da un lato sembra descrivere un uomo primitivo isolato e autosufficiente, ma dall’altro assume che certe relazioni siano comunque indotte dalla natura stessa. Ora, alcuni studi di storia della filosofia (come quello di Annamaria Loche, Immagini dello stato di natura, Milano, 2003) hanno rilevato come lo stato di natura in Rousseau assuma fattezze in parte diverse nelle varie opere, ma questo non ci impedisce di ritenere che, per il filosofo ginevrino, il bisogno fisico che guida l’istinto dell’uomo primitivo sia solo una delle determinazioni che lo caratterizzano.
Senza dubbio, l’unione degli amanti è spontanea, informale, ed è sempre possibile – come nota l’indovino – che i due un giorno si separino seguendo il capriccio dei sentimenti («l’amore cresce … / s’assopisce …», Devin, sc. II, air), ma ciò non esclude che, in generale, per realizzare la propria felicità (bonheur) l’uomo debba passare da alcune relazioni che comportano la felicità altrui. D’altronde, è un sentimento naturale a guidare la giovane coppia della Nuova Eloisa (1761), che vuole unirsi in un modo libero dalle convenzioni civili. La stessa pietà, descritta come «sentimento naturale», è una caratteristica umana che «ci porta senza riflessione al soccorso di quelli che noi vediam soffrire» (Discorso sull’origine della disuguaglianza, I) e, dunque, alla relazione con l’altro. Si può sostenere, allora, che in questa composizione rousseauiana, dietro la quale si cela uno sforzo pedagogico che prelude all’Emilio (1762), oltre ai rapporti nocivi e corrotti della società civile iniqua, vi sia spazio anche per un altro insieme di rapporti, che sono ‘naturali’ nella misura in cui assumono che l’individuo non basti veramente a se stesso.
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