IL GENOMA COME LIBRO: RIFLESSIONI SU UNA METAFORA

3080247531_bf04a5cbe5_bPIERO CARRERAS

Le metafore, lungi dall’essere meri dispositivi retorici, sono capaci di imporsi all’interno di un discorso e di orientarlo. Come insegnano Enzo Melandri e Hans Blumenberg le metafore hanno un ciclo vitale: nel momento in cui cessano di poter produrre conoscenza perdono di valore e finiscono con l’essere abbandonate. Una di quelle maggiormente radicate nella storia del pensiero occidentale, “assoluta” per la sua importanza e diffusione, è senza dubbio quella del libro. Il libro, e la storia della filosofia è piena di esempi da Galilei a Schmitt, è qualcosa che accomuna la teologia e il diritto. Più di recente si è fatto un gran parlare di un altro libro, che portava con sé la promessa di una comprensione “definitiva” dell’umano: quello del genoma. La metafora è esplicita: nel momento di coronare lo Human Genome Project, il 26 giugno 2000, con una coreografia che comprendeva Craig Venter della Celera Genomics, Francis Collins del consorzio pubblico e l’allora presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, venne annunciato trionfalmente che il “libro della vita era stato decodificato”.

La metaforica delle “lettere” che compongono il “testo” del genoma è qualcosa di ampiamente presente nella divulgazione scientifica di ogni livello. In senso più tecnico, ci troviamo davanti a una metafora ontologica (come la chiamerebbero Lakoff e Johnson): un dominio sorgente (il libro) fornisce un elemento che viene applicato a un dominio bersaglio (il genoma), supponendo che le proprietà dei due domini coincidano in buona misura. Questa strategia porta però con sé la tendenza ad appiattire la conoscenza del dominio bersaglio su quella del più familiare dominio sorgente: si passa da un modello di enunciato del tipo “A e B sono simili, per cui è possibile studiare alcune proprietà dell’uno tramite le proprietà dell’altro” a un enunciato “ontologico” o “essenzializzante” del tipo “A e B sono simili, per cui l’uno possiede le stesse proprietà dell’altro”. Nella storia della genetica questo è emerso già mezzo secolo prima dello Human Genome Project, quando negli studi di Watson, Crick, Jacob e Monod iniziò a farsi strada l’idea che il DNA contenesse un “programma della vita”. Il “dogma centrale” della genetica, nella quale senza neanche rendersene conto Crick stava facendo uso di una metafora profondamente teologica, recitava che “l’informazione biologica si sposta dai geni nel DNA all’RNA messaggero per costituire le proteine”. Il modello metaforico del programma è strettamente legato a quello del libro: implicito in esso è l’idea che esista un testo “giusto” e uno “sbagliato”, che si possano verificare degli “errori di lettura” e, con l’avvento delle biotecnologie a partire dagli anni ’60, a partire dalla proposta di usare un virus non patogeno come vettore per “correggere” il DNA fu Joshua Lederberg nel 1967, si fece strada l’idea di poter correggere questo testo. Il programma genetico, stando al “dogma centrale” di Crick, è un libro capace di leggersi da solo.

Nel suo essere sempre più diffusa e radicata, una metaforica di questo genere diventa uno strumento che orienta attivamente la ricerca scientifica. Se lo sviluppo tecnico è volto (nella sua veste migliore) a far sorgere nuove possibilità dal reale aprendo nuovi mondi prima inesplorati, il rischio è che questo sviluppo proceda legandosi eccessivamente a una metaforica, non accorgendosi in tempo degli aspetti problematici e finendo col “naturalizzarla”. Nel caso della metaforica testuale su cui si è basata tanta ricerca, la problematicità è la sua tendenza da un lato al riduzionismo, dall’altro al dar voce a delusioni demiurgiche. Si pretende, infatti, di poter leggere in questo testo molto più di quanto ci sia effettivamente “scritto”: Watson stesso, ma anche divulgatori di fama come Siddharta Mukherjee (purtroppo Making sense of genes di Kostas Kampourakis, che fornisce un utile correttivo a The Gene di Mukherjee, non è stato tradotto) si abbandonano volentieri ad affermazioni secondo cui caratteristiche fondamentali di una persona, come l’orientamento sessuale o l’intelligenza, siano praticamente già “pronti” nel codice genetico. Watson in particolare si è spesso fatto autore di istanze esplicitamente razziste, in sintonia col modello della “sociobiologia” di Osborne Wilson che pretende di determinare il comportamento sociale degli individui sulla base della loro genetica. La seconda tendenza, quella alla “delusione demiurgica”, ha avuto uno sviluppo impressionante a partire dalla scoperta della tecnologia CRISPR-Cas9 che permette di operare sul DNA bersaglio con una precisione prima impensabile: la sua scoperta ha fatto fiorire pubblicazioni dai titoli altisonanti come The modern Prometheus, A crack in creation, E l’uomo creò l’uomo (quest’ultimo testo, l’unico sull’argomento in italiano, è purtroppo deludente) che rimandano tutti alla capacità, ancora prevalentemente teorica, di compiere veri e propri “miracoli della scienza”. Non è infrequente che in seguito a una scoperta maggiore, per usare il linguaggio di Simondon, il panorama della divulgazione scientifica venga saturato da questo genere di retoriche, e la storia della biologia è piena di questi casi. Ciò che va notato è il continuo ripresentarsi della metaforica testuale. Persino Foucault e Canguilhem, il primo con una recensione entusiasta a La logique du vivant di Jacob, il secondo con il lungo saggio Le concept et la vie, sono finiti col supportare questo tipo di retorica (su Canguilhem il discorso è più complesso, ma non possiamo elaborarlo in questa sede) nei primi anni della sua imposizione.

Uno dei problemi di queste retoriche, come nota Baroukh Assael ne Il gene del diavolo, è che, trattandosi di tecnologie che vanno potenzialmente ad influire sulla genetica umana (e che spesso non è chiaro se siano o meno ereditabili), esse si pongono in automatico sotto lo spettro dell’eugenetica. È quello che hanno visto, talvolta basandosi più sulle affermazioni sensazionalistiche che sulle ricerche concrete, anche diversi filosofi. Questa è in parte una conseguenza della continua retorica del “correggere” che viene amplificata dal ricorso alla metaforica del libro o del programma, che formalmente (bisogna ribadirlo: formalmente non significa sempre anche essenzialmente, come sembrano dimenticare alcuni pensatori particolarmente tecnofobi) rischia di suonare fin troppo vicina alla volontà eugenetica del nazismo. A tal proposito è curioso notare come lo stesso termine “genetica”, che nasce ufficialmente nel 1909 con Wilhelm Johannsen (che introdusse anche il termine “gene” nello stesso contesto) venne coniato contro l’idea, già propugnata dal 1883 da Galton, di eugenetica. Quasi a ribadire che ogni discorso “scientifico” sulla genetica umana deve tentare di smarcarsi dallo spettro della ricerca di una “bella umanità”.

Sorge allora un’altra domanda: cosa succede quando una metafora smette di avere capacità euristica e, invece di orientare nuove ricerche, finisce col fossilizzare un habitus? Il caso della genetica ci presenta due modalità: la prima è abbandonare la metafora, e cercare di produrre ricerca non più al suo interno, ma a partire dai suoi margini. La seconda, strettamente legata alla prima, è tentare di proporre una nuova metaforica. Un esempio del primo caso è lo sviluppo di una serie di studi volti a considerare il contesto dell’espressione del gene in maniera più approfondita. Biologi importanti come Richard Lewontin o Denis Noble iniziarono a proporre una maggiore attenzione alla dimensione ambientale e non lineare dei processi in cui il DNA è coinvolto: la biologia dei sistemi e, in parallelo, l’epigenetica (che studia come modifiche al DNA dell’individuo avvengano durante la sua vita e spesso siano ereditabili) sono linee di ricerca interne alla biologia che hanno cercato proprio di sviluppare queste prospettive. Al contempo si sono sollevate critiche pesantissime contro l’idea dell’esistenza di un “programma” che fanno perno sul misconoscimento del dominio sorgente: è il caso di Giuseppe Longo, che in diversi saggi (tra cui il volume da lui curato per Progress in biophysics and molecular biology del 2016) ha tentato di mostrare l’insufficienza di concepire le operazioni del DNA come un programma inteso nel senso dell’informatica: l’errore di molta ricerca scientifica, come affermano Longo e Ana Maria Soto in uno dei saggi del volume del 2016, è l’aver posto una metafora ontologizzata in un posto che andrebbe riservato alle teorie.

Tutte queste ricerche sono “al margine” della metaforica del libro-programma perché cercano di lavorare su quei punti rimasti in ombra nell’applicazione della metafora precedente. Uno dei loro punti comuni è evidenziare quegli elementi che non sono scritti: in un’immagine suggestiva, Lewontin ha proposto di considerare l’ambiente circostante come una vera e propria “terza elica”. Oltre a criticare radicalmente la metaforica del libro tentando di ispirare ricerche che sviluppino elementi esterni o incomprensibili nella cornice di questa metafora, Jean-Jacques Kupiec (in passato legato al Centre Cavaillès insieme a Longo) ha da poco tentato di proporre una vera e propria nuova cornice metaforica. Se la dimensione politica di un certo uso delle metafore in ambito scientifico era stata già criticata aspramente da Lewontin (come in Biologia come ideologia del 1991), Kupiec ha fatto un passo ulteriore. Nel suo ultimo lavoro, Et si le vivant était anarchique? La génétique est-elle une gigantesque arnaque? (2019, al momento in traduzione) Kupiec parte dalla considerazione che ciò che nella metaforica del libro o del programma è stato tipicamente considerato “errore” sia in realtà la spia che nel vivente esista un grado di stocasticità molto maggiore di quanto non si pensasse. Detta altrimenti: il vivente non agisce in maniera “determinata”, ma “probabilistica”. Il modo adeguato di leggere l’organizzazione dell’individuo non sarebbe più la metaforica del libro, ma quella di una “società anarchica auto-organizzata”. Non si potrebbe essere più lontani dalla metaforica del libro: una comunità è in grado di organizzarsi a seconda dei propri bisogni, mentre un libro o un programma sono costituiti da un testo fisso dalle regole determinate, mentre una comunità auto-organizzata sa adeguarsi a situazioni diverse, esprimendo una metaforica molto più “viva” di quella riduzionista e “meccanica” del programma. Questo tentativo è ancora molto (troppo) recente per sapere effettivamente se sarà capace di imporsi, ma per la sua radicalità rimane una delle più interessanti proposte nel dibattito recente.

Ma non avevamo “decodificato il libro della vita”? No. Come evidenziato a più riprese da Evelyn Fox-Keller, lo Human Genome Project ha permesso di avere sì una compilazione esaustiva del genoma umano, ma questo “testo” da solo serve a molto poco. Per mantenere la metaforica del libro, si potrebbe essere tentati di dire che il “libro della vita” che abbiamo in mano sia più simile al Manoscritto Voynich. Certo, il libro non è l’unica metafora ad aver avvolto il DNA. Si pensi al Junk DNA, il DNA inerme (ovvero la maggior parte del DNA) così chiamato perché non sembra svolgere un ruolo attivo, e il cui termine è derivato dal lessico delle operazioni in borsa, utile avvertenza che la ricerca scientifica è anche una questione economica. Il “libro” non è stato decodificato perché non c’era in primo luogo. L’uomo ha meno geni di un chicco di riso: il DNA come catalogo e quantificazione non può fornire risposte esaurienti. Questo non perché sia stato compiuto un errore di fondo imperdonabile: la cultura occidentale è affascinata dal libro, e la sua metaforica ha avuto effetti indubbiamente positivi sulla ricerca genetica. E, ricordiamolo, la scienza è anche una forma di cultura, per quanto agisca nella continua finzione di un sapere “obiettivo”. Il problema, parafrasando Melandri, non è che manchino metafore, ma che manchino rivoluzioni che ne portino di nuove nel dibattito.

“Micah’s DNA” by micahb37 is licensed with CC BY-SA 2.0. To view a copy of this license, visit https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0/

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