FINE DELLA GENETICA DELL’ANIMALE SOCIALE E INGRESSO NELL’ERA DEL MALE MINORE

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SILVIA D’AUTILIA

 Com’è noto, il secondo conflitto mondiale ha visto l’ingresso in scena della  potentissima arma nucleare. A partire da quel momento l’umanità ha dovuto fare i conti con la possibilità che alcuni paesi potessero ricorrere ad avanzatissimi e pericolosissimi strumenti messi a punto dalla scienza e dalla tecnica per minacciare la sua sopravvivenza stessa. È su questo presupposto che è stata combattuta tra  Stati Uniti ed ex Unione Sovietica la successiva guerra fredda, dividendosi il mondo in blocchi, e avviando una sistematica competizione tecnologica, industriale, spaziale, economica e ideologica.

Nel 1986, a tre anni dal crollo del muro di Berlino e a cinque dalla dissoluzione dell’Urss, il sociologo tedesco Ulrich Beck pubblica il libro La società del rischio. Il sottotitolo è Verso una seconda modernità, dove per “modernità” si fa riferimento a un “dopo”, un “post” che ci colloca al di là di quella modernità con cui facciamo oramai fatica a interloquire. Se obiettivo principale della passata società moderna era lo sviluppo tecnico-industriale da tramutare in ricchezza, oggi, secondo Beck, il principale obiettivo è la messa in sicurezza dal rischio che quello stesso sviluppo ha prodotto e produce. L’impressione non è solo quella di essere continuamente sospesi in un laboratorio di esperimenti in cui del pacchetto “sperimentazione” accettiamo sia le innovazioni che i pericoli, ma anche di essere privati delle possibilità d’indagare cause e responsabilità degli inevitabili effetti collaterali che ne derivano. Il paradosso attuale consiste cioè nel registrare un sensibile aumento dei fattori di crisi derivanti dal progresso senza che sia però minimamente possibile ricercarne le specifiche colpe.

Per rendere l’idea lo stesso autore mette in paragone i rischi personali e del tutto circoscrivibili corsi da Cristoforo Colombo e dai suoi compagni in viaggio verso nuove terre, e i rischi ai quali a cui è esposta l’umanità intera con la fissione dell’atomo o con lo stoccaggio delle scorie radioattive. Lo sviluppo tecnologico ha reso effettive queste minacce.

Siamo in un mondo profondamente complesso, in cui le diverse direzioni che possono prendere le singole scienze e le singole tecniche giocano un ruolo fondamentale ai fini della tutela dell’incolumità sociale. È in quest’ordine d’idee che oggi non è nemmeno più possibile parlare di scienza o tecnologia senza parlare anche degli orientamenti politici connessi ai programmi di ricerca, ovvero alle diverse modalità con cui approcciare la moltitudine di problemi in essere: dal cambiamento climatico all’inquinamento industriale, dalla minaccia di nuove epidemie al degrado ambientale, dal terrorismo alla gestione dell’immigrazione. La situazione è tale da vivere in un’istituzionalizzazione continua dell’emergenza, in un’incalzante ricerca della soluzione migliore. Ma le risorse sono limitate e la strada del “male minore” pare l’unica praticabile. La logica è schematizzabile così: in tempi di crisi, ragionando cioè secondo regole improvvise ed eccezionali, x è più essenziale di y, dunque rinunciamo a y per tenere stretta x.

Il male minore è un tema affrontato nel 2009 nell’omonimo libro di Eyal Weizman. L’autore riflette su alcuni conflitti armati degli ultimi vent’anni e dimostra come dietro ai cosiddetti “interventi umanitari” scrupolosamente normati, o dietro alla cosiddetta “violenza regolata”, ci sarebbero comunque azioni criminose a tutti gli effetti. (È un tema che negli ultimi decenni è altresì riferibile ai problemi della democrazia rappresentativa, dove spesso, l’elettorato, sentendosi omogeneamente inascoltato sulle reali esigenze sociali, alla fine tende a votare il meno peggio, incassando comunque la frustrazione della non-rappresentatività.)

L’analisi di Weizman, seppure riferita a un contesto di guerra non certo pertinente con la pandemia in corso, assieme a quella di Beck sulla percezione del rischio nell’attuale modernità, forniscono degli spunti di  riflessione sulla presente contingenza storica. In primo luogo fanno emergere  la consapevolezza di trovarsi in una condizione così grave, asfittica e severa, metaforicamente totalitaria, da ritenere di avere davanti ai propri occhi solo due alternative: un male maggiore rappresentato dalla morte di un elevato numero di persone contagiate dal virus e un male minore rappresentato dalla sequela di restrizioni anticontagio. Si tratta di una bipolarità che non lascia scampo e di fronte alla quale propendere per la soluzione più tollerabile è quasi naturale. È un indottrinamento che ormai da tempo sta abitando le nostre coscienze: la pandemia ne ha fornito solo conferma e prova provata.

L’inarrestabile trafila di rischi a cui sono quotidianamente legate oggi le società ritrae questa nuova modernità come una bomba a orologeria, rispetto alla quale i singoli paesi,  impreparati e sprovvisti sia di risorse che di paradigmi organizzativi, decisionali e gestionali, alla fine optano per una strada forse sì apparentemente più indolore ma certamente non priva di conseguenze.

Dall’inverno scorso a oggi, proteggere le società dall’effetto domino della diffusione del morbo coincide col ridurre drasticamente i contatti sociali, sacrificando sull’altare della lotta al contagio interi scomparti della vecchia vita relazionale, sì proprio la stessa che Aristotele già nel IV secolo a.C. traduceva in “animalità sociale” dell’uomo. Quanti secoli sono passati da allora? Quanti anni? La funzione retorica di queste domande è quella di mostrare come sia del tutto inverosimile, in attesa di cure più efficaci, credere di poter far alla lunga affidamento su questa condizione di non-socialità, di chiusura e confinamento, soprattutto oggi, in un’era d’interconnessioni globali tra gli individui, le società, le attività economiche e politiche.

Se la cosiddetta “prima ondata”, nel nostro paese, è stata tutto sommato arginata e controllata con un lockdown nazionale rigido e severo, oggi, a soli sei mesi da quella condizione e all’inizio di un inverno che si prospetta lungo e angosciante, siamo esattamente al punto di partenza, quando non peggio. Se nei picchi del contagio dello scorso inverno-primavera eravamo di fronte a poche circoscrivibili zone rosse, ora nuovi focolai si accendono e si spengono continuamente su tutto il territorio nazionale, comprese quelle zone dell’Italia meridionale precedentemente rimaste indenni. E se è evidente che i lockdown agiscano da deterrente momentaneo al contagio, è altrettanto evidente come non debellino radicalmente il virus, che, al primo timido ritorno alla vecchia normalità, rientra in azione. Rendersene conto prima di avere interi paesi definitivamente paralizzati è un’urgenza inderogabile.

Avendo il virus l’unico compito d’infettare è abbastanza scontato che questo avvenga, meno scontato è persistere a meravigliarsene appellandosi all’azzeramento delle vite dei singoli o colpevolizzandoli perché reiterano abitudini della vecchia vita sociale.  Di fronte a questa gestione politica del virus che è spesso stata una gestione delle colpe sociali del virus, la sensazione che si ha è quella di voler prendere il mare con le mani, lasciando che il virus faccia il suo lavoro di virus ma che l’uomo venga meno alla sua genetica di animale sociale.

Si replicherà che sono sacrifici inevitabili poiché la ricetta per la lotta a tutte le epidemie è sempre stata questa. Basta leggere la rievocazione manzoniana della peste nei Promessi Sposi o in Sorvegliare e punire di Foucault per rendersene conto: nel ‘600, allo scopo di contenere il più possibile la diffusione del morbo, il potere politico interviene sui corpi con misure di ordine sociale, assegnando a ciascuno la sua minima dimensione vitale e stanziando eccezionali misure di sorveglianza affinché nessuno violi le misure imposte. In questo modo, i singoli, oltre a ubbidire per il timore del contagio e per la tutela della propria incolumità, si dimostrano attenti esecutori delle norme anche a causa della minaccia punitiva.

Ebbene, due sono i principali punti di interesse. Uno: cos’è cambiato nella messa in sicurezza della società per prevenire eventi simili? Due: cos’è cambiato nell’esercizio del potere coercitivo e punitivo? Rispetto a quest’ultimo interrogativo sarebbe interessante chiedersi, ad esempio, se tutte le volte che abbiamo sentito dire che “gli italiani sono stati bravi”, ciò sia avvenuto per senso di responsabilità, per timore di contagiarsi e contagiare, o infine per evitare le salatissime sanzioni pecuniarie su portafogli già indeboliti dalla stessa pandemia. È importante, fuori da ogni ipocrisia, porsi questo genere di quesiti per arrivare al centro della fisionomia dell’etica sociale implicata in questa situazione.

Oggi, in tutti gli ambiti del discorso pubblico, dai giornali ai discorsi dei ministri, dal comune utente social ai personaggi pubblici fino agli opinionisti e agli influencer, tutti così attenti ai comportamenti dei singoli, si assiste alla semplicistica e riduttiva divisione della società in sostenitori e detrattori delle norme anticontagio. In realtà la vera demarcazione è quella tra coloro che, seppure con sacrifici, hanno interiorizzato questa nuova normalità e coloro che non solo non lo hanno fatto, ma probabilmente non possono neanche farlo, essendo quest’accettazione l’altra faccia del loro decadimento, tanto in termini economici che sanitari.

Da diversi punti di vista, il fenomeno Covid19 è profondamente inedito e non passibile di alcuna comparazione con simili eventi passati. È differente la cornice politico-economica: siamo attraversati da logiche capitalistiche e globalizzate così massicce che le attività economiche delle piccole e medie imprese sono sistematicamente esposte alla minaccia di essere letteralmente divorate dalle macroaziende del mercato con la semplicità di un click. Inoltre, con la sequela di restrizioni imposte, la pandemia ha agito da potente acceleratore di un distanziamento economico sempre più oneroso e di un arricchimento ancora più sfrenato per i già noti miliardari del mondo. Due nomi per tutti sono: quello del fondatore e amministratore delegato di Amazon Jeff  Bezos, che con la crescita dell’e-commerce dovuta ai lockdown ha registrato un aumento del suo patrimonio fino a 48 miliardi di dollari, e quello dell’ideatore e ceo di Zoom, Eric Yuan, il software di videoconferenze con un guadagno di oltre 2,58 miliardi di dollari.

Dunque la diffusione del virus sia ha esaltato le caratteristiche di questa cornice, sia ha dimostrato le croniche debolezze. Su questo fronte, ad esempio, si tenga conto dell’impoverimento di quei settori dell’economia nazionale che dovrebbero invece rappresentare i pilastri di un solido welfare di tutela e assistenza. Si stima che dal 2010 al 2019 il settore sanitario sia stato interessato da tagli per un totale di 37 miliardi di euro: fatte passare come razionalizzazioni della spesa, in realtà sono stati eliminati interi comparti di servizi, dai posti letto sino ai più essenziali dispositivi di protezione sanitaria, per non parlare del drammatico depotenziamento della medicina territoriale, vero baluardo della presa in cura locale e potente deterrente contro la saturazione dei presidi ospedalieri. Quel che infatti sta ripetendosi identico anche in questa seconda ondata, eludendo ancora una volta la promessa delle politiche di contenimento localizzate, è la riproduzione delle medesime logiche ospedalocentriche, per mancanza sì di personale e presidi sanitari ma anche e soprattutto per una mancata rivalorizzazione dei territori come reale strumento terapeutico di assistenza e prossimità.

Salute ed economia dunque non sono affatto ambiti diversi o beni negoziabili in base alle differenti contingenze, come spesso si è sentito dire in questo periodo. Né la salute può essere elevata a bene comune se non è supportata da uno scheletro economico robusto ed efficiente.

Nel 1968, in un’intervista di Sergio Zavoli sull’urgenza di deistituzionalizzare il malato mentale per garantirgli una reale salute psicofisica e una soddisfacente condizione socio-economica, Franco Basaglia ricordava che la nostra è indubbiamente la società in cui “chi non ha non è”. È dalla mancanza di garanzie socio-economiche che spesso derivano disagi pronti a minare quella condizione di salute, intesa come benessere complessivo di tipo psicofisico, relazionale ed economico dell’individuo. Purtroppo, nell’attuale scenario economico-sociale, per dire salute non basta più dire assenza di malattia. Salute oggi è soprattutto assenza di tutte quelle condizioni che, dall’ambiente all’agio economico, dall’autonomia alle relazioni, rendono l’individuo più vulnerabile e facile oggetto dei processi di medicalizzazione.

Invece il messaggio che sta lanciando forte e chiaro questa pandemia, nonché gli strascichi e le conseguenze che lascerà, è l’istituzionalizzazione della gestione della società nel segno dell’alternativa più tollerabile: non essendo più rivendicabile una tutela a tuttotondo dei diritti sociali e individuali, bisogna per forza rinunciare a qualcosa.

Si prenda il massivo ricorso alla tecnologia di questi mesi: il lavoro da casa assicura sì alle aziende una continuità delle attività, ma costringe dall’altra parte interi settori economici della ristorazione o della caffetteria ad abbassare le serrande indeboliti dalla mancanza di domanda. O pensiamo alla declinazione dell’istruzione in didattica a distanza che costringe fiumi di studenti per ore dietro a monitor con i quali trasferire sì nozioni e concetti al prezzo di annientare però letteralmente la pedagogia e la relazione. O pensiamo ancora drammaticamente alle mancate diagnosi e i mancati trattamenti che in questo periodo stanno subendo le restanti patologie: per dare solo un dato, l’Aiom, l’Associazione Italiana di Oncologia Medica, ha dichiarato che nei soli primi cinque mesi del 2020 si sono effettuati più di un milione di esami di screening in meno rispetto allo stesso periodo del 2019; la conseguenza prevedibile per gli anni a venire sarà un incremento sostanziale delle morti per quelle forme tumorali più incisive, come quello mammario o quello del colon-retto, facilmente controllabili con una diagnosi precoce.

La lista sarebbe lunga ma il fenomeno è sempre lo stesso e può ricondursi al fatto che l’opzionalità, giustificata dal rischio, sta prendendo il posto del garantismo. Questa pandemia ne ha solo ufficializzato le mosse. Quando una voce ex cathedra, una sorta di arbitro super partes delle nostre passate abitudini sociali, in risposta a una minaccia, deve intervenire a regolare la coperta, inevitabilmente da qualche parte la coperta sarà corta. Si tratta di una manovra sociale che addebita inevitabilmente a qualcuno un prezzo, e pure molto alto: lo vediamo nelle recenti  politiche di diversificazione tra attività economiche essenziali e non-essenziali, di cui siamo spettatori ma soprattutto vittime, nella proiezione di un’esistenza in cui per dire di vivere basta sopravvivere. Probabilmente alcuni risponderanno che è proprio così, perché di questi tempi è appunto già tanto poter sopravvivere, eppure c’è un quid, un dettaglio che avanza ed è il rischio dei rischi, sul quale questo testo ha voluto riflettere, vale a dire la possibilità che il concetto stesso di rischio s’imponga, metta radici e serva da motivazione della sistematica e ricorrente assenza di garanzie e sicurezze sociali.

BIOTECNOLOGIE Endoxa ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA POLITICA

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