AGGIUNGI DUE LETTERE A PARIS, ED È IL PARADIS

ALCATRAZSIMONE SARASSO

Alcatraz, 11 marzo 1947

“C’è stato un tempo in cui mi davano del vossia o del coloro. Non certo in America, si capisce. Questa lingua semplice ed esiziale appiattisce ogni gobba. Ma le gobbe rendono saporita la strada, lo sapevi Tarte Tatin?”

“No, maestro”.

Il maestro tossisce. Più a lungo del dovuto, a dire il vero: “Non chiamarmi, maestro, ti prego. È già abbastanza faticoso così…”

“Facciamo un patto, maestro” butta là Tarte Tatin.

“Son tutto orecchi…”

“Lei mi ridice i dieci comandamenti. E io non la chiamo più maestro. Parola, d’onore!”

Altra tosse, più asciutta d’un bidone di sabbia.

“E sia… da dove partiamo? Ah, già, dall’inizio!”

Uno

“Primo: essere un buon ascoltatore; no, Tarte Tatin, non credo che le dita nel naso facciano la differenza…”

La mente del maestro vola a un passato lontano, fatto di nuvole. Ricorda una nave zeppa di stracci e fame. Un viaggio infinito, attraverso l’Atlantico. Ricorda la marsina linda dei passeggeri di Prima Classe, il frac dei musici.

Per tutto il viaggio aveva pregato di non finire in fondo al mare. La storia del Titanic non aveva smesso di serpeggiare tra le gole e i cuori dei miserabili passeggeri, nonostante fossero passati già dieci anni. Solo i ricchi non pativano. O almeno così sembrava. Il maestro, che allora era solo Vladislav, aspettava che la sua gente imbrandasse. Ogni notte succedeva prima: il mare fiacca, figurarsi l’Oceano.

Quando tutti dormivano e nessuno gli prestava attenzione, giacché era giovanotto e le madri – se son madri come l’Altissimo comanda – la notte non prestano attenzione ai giovanotti, ma soltanto ai marmocchi. E persino i padri, bontà loro, erano troppo stanchi, nauseati dal rollio o semplicemente ubriachi di vinaccio per preoccuparsi di lui. Proprio allora, Vladislav sgattaiolava. Dalla Terza alla Seconda fino alla Prima Classe. Senza farsi vedere, si capisce.

Ma osservando tutto, non stancandosi mai di tendere l’orecchio.

Discorsi di borsa e titoli azionari, sgroppate a cavallo e sberleffi en Français, stralci di mondo mai visto. E profumi, sissignore: d’ostrica e montone, di patate ben rosolate, di rosmarino. Una batteria di novità da far venire l’acquolina in bocca. Vladislav se ne stava in silenzio.

E ascoltava.

È così che aveva imparato a parlare.

Due

“Mai – ripeto, mai – avere lo sguardo annoiato, Tarte Tatin”.

Il ragazzone lo fissa. Ha indosso la tuta a strisce della casanza. Ma la porta con un fare sciatto, senza neppure indossare il capelletto. In teoria sarebbe obbligatorio, ma chi ci presta più attenzione? È già tanto che abbiano abolito le palle al piede. Con quelle sì che era difficile apparire…

“Maestro?” domanda Tarte Tatin. E intanto si gratta gli zebedei.

“In ordine” pensa Vladislav. Ma non dice nulla, la sua mente è di nuovo altrove.

I ricordi s’affastellano… si dice così, no? Ormai anche la memoria è quel che è.

Un colpo di tosse scura. Un altro, un altro ancora.

C’era una villa grande, coloniale. Una piantagione, forse. Una di quelle dove gli africani sudavano non più di cinquant’anni fa. “Lo sai che un pigmeo è stato esposto allo zoo del Bronx per… per un sacco di tempo, Tarte Tatin? Viveva con le scimmie, ti rendi conto?”

Tarte Tatin si gratta la testa. Non è sicuro di sapere cosa sia un pigmeo.

“Il suo nome era Ota Benga” dice il maestro.

Tarte Tatin rimane in silenzio per un tempo che pare infinito. Poi dice: “Il Bronx è a New York, giusto?”

Il maestro sospira: “A New York, proprio così…”

Nella piantagione viveva il furbastro che voleva diventare ricco come Mida. Il giovane Vladislav, al tempo, aveva già cambiato nome. Non ricorda quale indossasse in quell’occasione: ne ha calzati così tanti… Insomma si presentò di giovedì, col macchinario oliato e perfettamente funzionante. Ricorda la parlata lugubre del cliente. Era del Sud, e sembrava andarne fiero: “Dunque lei mi garantisce che questo affare è in grado di stampare una banconota da 100 dollari ogni ora?”

“Controlli lei stesso…” rispose Vladislav. E avviò la macchina.

Insieme attesero.

Prima sessanta minuti, al termine dei quali l’acciaio sfornò carta moneta nuova di zecca.

Poi altri sessanta, e il prodigio accadde di nuovo.

Per tutti i settemiladuecento secondi, Vladislav non si era mai mostrato annoiato.

Mai, neppure per scherzo.

Aveva sorriso, atteso, sorseggiato una tazza di the.

Amava la luce che filtrava dai finestroni della grande casa. Se lo sentiva dentro, quel chiarore. Lo stava cambiando in qualcun altro, lo rendeva luminoso, diverso, lustro come un occhio.

Soddisfatto, al termine della seconda conferma, il novello Mida consegnò a Vladislav l’esorbitante cifra pattuita. Sicuro, in ogni modo, d’aver fatto l’affare del secolo. Perché quei soldi spesi li avrebbe recuperati in un santinàmen. “Giovanotto, glielo devo dire: lei ci va a perdere a svenderla così”.

Vladislav aveva sorriso, compiacente: “Ma a me il denaro serve subito, mister. Mia moglie avrà un bambino a maggio”.

Quello, il furbacchione, gli aveva rifilato una pacca sulla spalla.

Vaja con Dios, si dice così in Messico.

E, proprio in Messico, Vladislav era filato a gambe levate.

Ci teneva davvero a essere lontano dal furbacchione quando avesse scoperto che la macchina prodigiosa, dopo aver sputato un paio di centoni che lo stesso Vladislav aveva sapientemente infilato al suo interno, non era in grado di fare altro che tossire carta bianca.

Ma a quel punto, alea iacta est e tanti saluti.

Tre

Il maestro non sta bene, deve sdraiarsi. “Che ore sono?” domanda.

Tarte Tatin solleva il posteriore dallo scrannetto instabile e spizza dalle sbarre alla finestra.

Là fuori, la baia è feroce. Tra la prigione e la città c’han messo il mare di proposito. Cioè, l’Oceano. Nessuno fugge da Alcatraz. Se proprio ci tieni a uscire prima del tempo, una maniera c’è, ma nessuno ne è entusiasta.

Coi piedi davanti, avete indovinato.

A giudicare dalla tosse senza fine, Tarte Tatin si chiede se il maestro non si stia giusto organizzando. Da Montecristo all’abbraccio di Cristo non ci va mica tanto, eh.

“Saran le tre, maestro. Il sole si sta abbassando”.

Il maestro smette di scaracchiare. Prende fiato e dice: “Tre, per l’appunto. Il comandamento numero tre recita: attendi che sia l’altra persona a rivelare le proprie opinioni politiche. Dopodiché dichiarati in pieno accordo con lui”.

Ma te lo immagini, maestro, Tarte Tatin a discutere di politica? Quanti anni avrà ‘sto cristiano? Venti o centoventi, davvero non si capisce. Dicono che abbia strangolato la moglie e i figli e poi perso la memoria. Come Ercole, hai pensato la prima volta che l’hai sentito. E ti sei domandato se, per caso, non sei tu la sua espiazione. A Ercole toccò servire la regina Onfale che finì per vestirlo da donna. Tu gli stai insegnando a diventar diverso. Basta un cambio di luci per tramutare il vero in falso. La menzogna in denaro.

L’hai sempre saputo, non è vero, maestro?

“Il conte Vladislav Zeyer” negli occhi del maestro risuona la voce del famiglio.

Una reggia di tanti anni fa. Gente in rendigote e scarpe di coppale.

Banchieri.

Ne parlarono perfino i giornali. Il quotidiano più blasonato del Missouri titolò: “LA TRUFFA DEL SECOLO ALLA LUCE DEL SOLE”.

Poverini, se solo avessero saputo cosa sarebbe venuto dopo.

“Dunque, signor conte, mi conferma l’autenticità della rendicontazione, non è così?”

“È qui da vedere” rispondesti. “Alla luce del sole”.

Quelle parole rimasero in testa a tutti. Schiantarono i loro baffi inamidati e i bastoni da passeggio.

Alla luce del sole.

Non ti bastava vendere alla Banca una fattoria – più secca della moglie di Matusalemme – di proprietà della Banca medesima per la considerevole cifra di ventiduemila zucche (ventiduemila, signore e signori) in certificati della Ricostruzione. Ti facesti cambiare anche diecimila dollari in contanti – per le spese vive, cosa vuole – e te ne andasti dopo aver fatto il vecchio trucco delle buste. È come il gioco delle tre carte, niente di diverso. Te ne andasti coi certificati e i bigliettoni fruscianti.

Trentaduemila in una botta.

Alla luce del sole.

Niente male per una giornata di lavoro.

Quattro e cinque

Ansima, adesso, il maestro.

Tarte Tatin gli chiede se gli vada del decotto.

Il maestro immagina cosa possa aver bollito dentro gli stracci il suo stravagante compagno. Lo ringrazia e, signorilmente, declina l’offerta.

“Quarto!” urla tra un accesso di tosse e l’altro. I polmoni vanno a fuoco: dev’essere per questo che la chiamano polmonite. “Lasciare che l’interlocutore riveli le proprie convinzioni religiose. Quindi, dichiarate di avere le medesime”.

D’istinto Tarte Tatin bacia la medaglietta di San Giuda che porta al collo. Poi la nasconde nella divisa.

San Giuda, il protettore delle cause perse.

“Quinto: accennate a essere disponibili a parlare di sesso, ma…”

Il maestro osserva l’aspirante escroc intelligent e, a dirla tutta, non lo trova così intelligent.

Gli è bastato dire sesso e guarda com’è arrossito…

“…ma non proseguite, a meno che l’interlocutore non mostri un forte interesse”.

Juliette, se così si può dire, mostrava un interesse vieppiù consistente.

Ma non fu quello a irretire il giovane Vladislav, che all’epoca non era più così giovane (essersi fatto crescere baffi e favoriti lo invecchiava, fuor di dubbio); si faceva chiamare Miguel e si esprimeva nella lingua con cui Carlo V diceva di rivolgersi a Dio.

A farlo innamorare di Juliette fu la luce. Quella del meriggio di Plaza Mayor che le incendiava i capelli d’oro rosso. O quella, simile a un miraggio, la domenica al parco del Retiro: sfrangiava le fronde, appariva mistica, tutta efelidi e occhi blu. Juliette sapeva parlare: non diceva mai troppo di sé, si lasciava scoprire con un bacio, o meglio ancora con una passeggiata mano nella mano. Maestra, forse. Così cianciava.

Vladislav – cioè Miguel – ebbe la voluttà di pedinarla, per vedere dove andasse a sparire quando si negava. Ma aveva troppo timore di rompere il sogno, e non si decise mai a fare il passo.

Una mattina d’ottobre ella scomparve, spezzandogli il cuore.

Aveva l’anello in tasca, Vladislav, anche se negherebbe persino davanti a Dio.

Lo impegnò per un biglietto per Chicago: non aveva mai volato se non una volta, sul famigerato Zeppelin.

Appena arrivato, come in brutto sogno, ricevette una lettera. Una Carlotta mai sentita né vista gli scrisse che Juliette era morta di mal franzese. Col mestiere che faceva, si capisce, era un rischio. Questa Carlotta non era delicata né decente. Forse mentiva, ma il cuore di Vladislav – ormai Bob, nella Città del Vento – andò in frantumi ugualmente. Una seconda volta.

Decise che non avrebbe amato più, si convinse che Juliette non era altro che una fata morgana, un inganno, un barbaglio di gibigianna all’imbrunire, un gioco di luci. Si convinse – come se non lo sapesse da un pezzo – che nessuno è quel che sembra.

Promise a se stesso che non sarebbe più stato nessuno.

Che sarebbe stato tutti.

Sei

Ora la tosse è una faccenda seria. Ci si è messa di mezzo anche la febbre, mi sa.

Il maestro respira male, il petto brucia, la schiena è un delirio di chiodi spezzati. Ruggine nelle vene, il tramonto non dista che qualche miglio.

“Maestro, mando a chiamare le guardie… l’infermeria…” Tarte Tatin suda, anche se l’aria che filtra dalla bocca di lupo è confortante quanto un mazzo di scorpioni.

“Mai discutere di malattia, a meno che l’interlocutore non…” sangue e malumore “… a meno che l’interlocutore non… “ altro sangue, Gesù mio…

Tarte Tatin termina la frase del maestro: “Non mostri qualche particolare interesse in merito.”

Sorride per quel che può. Non è così tardo, dopotutto. È solo in ombra, medita Vladislav. La sua mente è il lato oscuro della Luna.

“Bravo ragazzo, gli dice. Ti sei ricordato il sesto comandamento”.

Tarte Tatin gli prende la mano. Ha inumidito una pezzuola e gliela passa sulla fronte riarsa.

Se ne stanno così per un tempo di latte  e panna. Poi il maestro, riavutosi per un pelo di cicala, dice: “Ti ho mai contato di Al Capone?”

Big Al, Scarface, Alphonsine Capone per chi lo conosceva davvero.

Quel che si dice una faccia da coltello.

Chicago era mari e monti quando Vladislav ci atterrò. Aveva in tasca un passaporto che lo intitolava Bob Durdain, un facoltoso prestasoldi dell’altra costa. Modi affabili ma retroterra di strada, Bob non ci mise molto a capire il giro del fumo.

Il Proibizionismo era agli sgoccioli, l’America assetata reclamava alcool legale per pagarlo il doppio. Nessuno si rendeva conto davvero di che razza di cambiamento sarebbe stata la revoca del Volstead Act ma, diavolo! lo spettro della Depressione ancora aleggiava sulle capocce di tutti: qualunque alito di vento era il benvenuto.

Bob – cioè Vladislav – ci andò piano, all’inizio.

Studiò la situazione, alzò un po’ di grano con le carte.

Si fece conoscere investendo qua e là cifre appetitose. Dai banchieri e dagli strozzini ci andava con la faccia pulita e il vestito buono, nessuno sospettava che non fosse un cristiano a modino. Nessuno a parte Big Al, si capisce.

Il fiuto del gangster era davvero qualcosa, nonostante quel viziaccio polveroso che l’attanagliava da anni. “Perché ti vuoi rovinare con quella mercanzia?” gli domandavano i suoi. “È più forte del caffè di mia moglie. Mi tiene sveglio e concentrato!” rispondeva lui.

E avanti coi carri.

Qualunque impresa – perfino quella più abietta e criminosa – necessita di liquidità, di denaro frusciante da far fruttare. E siccome il circolo degli alcolici, con la revoca del divieto di Stato, era in calo, com’è come non è, un giorno il signor Capone disse agli uomini del suo mandamento di portargli questo Bob Durdain delle meraviglie. “Ci voglio fare due chiacchiere. In giro si dice che abbia proprio il pallino degli affari”.

Bob non era rilassato come al solito, quando si presentò al cospetto del grande Al. Il signore di Chicago viveva in una casa imbottita di gente. Guardie del corpo, biscazzieri, tagliagole, sarti e sartine, diciamo. La prima volta che lo vide era senza calzoni. Camicia, cravatta, panciotto, stringate lucide, calze e reggicalze. Ma niente pantaloni. Non per lussuria, non pensate male. Più che altro per vezzo. Il sarto di turno gli prendeva le misure e il barbiere – uno filarmonico alto come una pertica – lo sbarbava all’impiedi.

Bob attese che il Re fosse ripulito (e rivestito), dopodiché accettò di buon grado il suo caffè (ma nient’altro, beninteso) e si discusse d’affari.

Di quando in quando, Big Al alzò la voce. E Bob abbassò la cresta: ci teneva alla pellaccia.

Infine, però, dopo essersi profuso in grandi sconsigliamenti, come si diceva colà storpiando la lingua di Dante, calò il proverbiale asso di bastoni: “Signor Capone…”

“Al. Ti ho detto di chiamarmi Al!”

“Al, ascoltami, ti prego. Il mercato è instabile, lo sai tu e lo so io. Non è tempo di grandi investimenti. Quello che ti posso consigliare è di stanziare una certa cifra, non troppo ingente… di affidarmela, insomma, per vedere se, con certi collocamenti azionari, è possibile aumentare il capitale”.

Al lo fissava con la solita espressione, quella che aveva indosso la mattina presto.

“Non c’è garanzia, beninteso! Te lo dico ora: patti chiari amicizia lunga. Le azioni ballano il charleston, come si dice. Viaggiano sulle montagne russe. Se imbrocchiamo la giusta onda, magari tra un paio di mesi io ti riporto il doppio del capitale. Ma – e dico ma – se le cose vanno diversamente, io non ti posso garantire un copeco. Su questo ci siamo intesi, non è così? Chiaro che ce la metterò tutta per far fruttare il tuo gruzzolo, si capisce.”

Capone restò in silenzio per una manciata di secondi ronzanti.

Poi disse all’energumeno alla sua destra: “Carmine, vanne a prendere cinquanta. Mettili in una borsa e dalli a Bob”.

Carmine ubbidì. Una volta tornato, Vladislav – cioè Bob – diede un’occhiata alla sacca di cuoio e vi scovò un bel po’ di mazzette da mille dollari ciascuna. Cinquanta zucche, signore Iddio. A fondo perduto!

Al gli strinse la mano e disse: “Signor Durdain, noialtri ci vediamo tra sessanta giorni. E speriamo di essere più ricchi! Cent’anni!”

“C-cent’anni, Al” rispose il maestro intimidito.

Era l’augurio che gli italiani si facevano l’un l’altro. Un augurio di lunga vita. Vladislav la masticava eccome quella deliziosa lingua musicale, ma si era ben guardato da farne parola con Al. L’aveva imparata a Firenze ma questa – come si suol dire – è un’altra storia.

Una volta lasciata l’abitazione dell’imperatore del crimine, ci si sarebbe potuto aspettare che Vladislav montasse sul primo treno e svanisse chissà dove, trasformandosi in Paul, Edgard, Marcello o chissà chi. Ma non fece nulla del genere.

Si recò sulla Quarta Strada, all’angolo con Mott. Entrò nella sede della Fisrt National Bank e acquistò a proprie spese l’usufrutto d’una cassetta di sicurezza per sessanta giorni. Là dentro chiuse i soldi di Al Capone e se ne dimenticò.

Allo scadere del secondo mese da quel giorno fausto e ferale, Bob – cioè Vladislav – tornò in banca, saldò (di tasca propria) le pendenze riguardanti il deposito, prelevò l’intatto capitale e tornò alla reggia per restituirlo al legittimo proprietario. Un dollaro sull’altro.

“Purtroppo non è andata come ci aspettavamo” disse allargando le braccia una volta sedutosi alla scrivania del boss.

“Hai perso i miei soldi?” masticò Capone, né triste né felice.

Bob sollevò le spalle: “Ho recuperato il gruzzolo. Almeno quello mi pareva dovuto. Ma purtroppo non c’è neppure un centesimo di guadagno”.

Bob fece scivolare la borsa piena di grano verso Al. Capone la spalancò e contò le mazzette.

Senza dire una parola.

Bob sudava, aveva la bocca secca come il giorno del suo primo bacio.

Al mise via la borsa, poi scosse la testa da destra a sinistra.

Vladislav – cioè Bob – deglutì.

Al ficcò la mano nel cassetto della scrivania.

Bob – cioè Vladislav – pensò: “Ecco fatto. Ora tira fuori una pistola e m’ammazza…”

Al tirò fuori qualcosa.

Ma non si trattava del cannone.

Erano cinquemila dollari americani. Cioè, Vladislav lo scoprì più tardi, quando il sangue nelle vene riprese a scorrergli e, finalmente solo, ebbe la freddezza di mettersi a contare.

Capone disse: “Bob, avevo scommesso coi miei ragazzi che te la saresti data a gambe. Se lo fa, ho detto loro, lasciatelo andare. Dategli un po’ di vantaggio… Un cristiano che ha il fegato di fregare Al Capone merita rispetto. Forse non merita di vivere, ma… In ogni modo, tu sei stato onesto. Davvero onesto: due mesi hai promesso e, dopo due mesi, qua stai. Hai detto che ci potevo perdere, e ti sei dato da fare perché non succedesse. Hai lavorato per me. Non hai fatto miracoli, e allora? succede. Ma ti sei comportato da uomo. Quindi, sai che ti dico? Questa è la tua paga, amico. La paga che ti meriti. Per avercela messa tutta”.

Cinquemila.

Dollari.

Americani.

Esattamente la cifra che Bob – cioè Vladislav – sperava di ricavare dall’affare.

Fin dall’inizio.

Sette

“Settimo: Non ficcare il naso! Tanto prima o poi ti racconteranno tutto…”

Il maestro ansima, la febbre lo sta cuocendo.

Tarte Tatin sorride.

“Ottavo: Mai vantarsi! Hai capito, zuccone?”

“Sicuro, maestro. Sicuro che non mi vanto…”

Di che dovresti vantarti, poi, testa vuota… di aver scannato chi ti amava? O di prenderti cura di un vecchio criminale senza nome?

“Nono: mai essere in disordine”

Appena pronunciate le ultime sillabe, il maestro passa una mano rigida e gelata sulla guancia irsuta di Tarte Tatin. Lo sporco di giorni, il sudore e il portamento maldestro. Persino le sopracciglia del giovane sfuggono alla logica e alla gravità. Puntano al cielo, quanto io baffi di Dalì.

“Riguardo a questo, amico mio… fai come puoi.” dice il maestro.

Poi comincia a tossire così forte che, per un attimo, Tarte Tatin crede di vederlo soffocare.

“Chiamo il medico” borbotta.

“Chiama il prete” risponde il maestro. “Mi sa che ci siamo”.

Tarte Tatin non disubbidisce.

Il maestro gli fa cenno di frugare sotto la sua branda. Il ragazzo ne cava un barattolo mezzo pieno. Liquido trasparente che odora d’aldilà.

“Decimo e ultimo: mai ubriacarsi” detto questo il maestro acchiappa il barattolo e lo scola d’un fiato. Grappa fatta in casa, se si ha la buona creanza di chiamarla così. Ottenuta dalla fermentazione di bucce di patata in un calzino.

Un calzino pulito, attenzione.

Il maestro ansima. Il buio, intorno, è denso come melassa.

Gli occhi si chiudono, padre Roy arriva fumando. Senza fretta.

È abituato a sotterrare le mele marce senza il conforto di una preghiera detta come si deve.

Era quasi stupito quando la guardia è venuto a disturbarlo.

“Si tratta del maestro” gli ha detto.

E Roy l’Irlandese si è dato una mossa.

Conosce il maestro da quando è entrato: l’ha visto appassire giorno dopo giorno. Per quelli come lui le medicine non sono esattamente a portata di mano.

“Che ne dici, vecchio?” domanda il prete al maestro.

“Fai quello che devi, padre” risponde quello, senza fiato.

Roy gli rifila l’estrema unzione. Spegne pure la sigaretta, per rispetto.

Quando il maestro e Tarte Tatin sono di nuovo soli, la luce è bassa davvero.

Il giorno si sta spegnendo, proprio come Vladislav.

“Maestro, non mi hai mai detto come ci sei finito, qui dentro”.

“Mi hanno beccato” ridacchia il morente. “Prima o poi capita a tutti”.

“Che avevi fatto? Hai ammazzato qualcuno anche tu?” Tarte Tatin è curioso.

Il tempo è un aquilone nella tempesta.

“Mai fatto male a una mosca…”

Davanti ai suoi occhi c’è una luce calda e rotonda. Anche se intorno il buio s’avvicina.

“E allora cosa?” Tarte Tatin l’impaziente.

“La Torre Eiffell… Sai che diavolo è la Torre Eiffell?”

Tarte Tatin dice di sì col muso. Sarà tonto, ma non fino a questo punto.

“Ecco” il maestro chiude gli occhi.

“Ecco? Maestro? Cosa? La Torre Eiffel cosa?”

“L’ho venduta” sorride l’uomo che è stato chiunque.

“Venduta?” Tarte Tatin non crede alle proprie orecchie.

Ora sì che il maestro ride di gusto: “Due volte”.

Dopodiché gli occhi li chiude davvero.

Li chiude per sempre.

Post Scriptum

Vladislav Zeyer è nato a Praga nel 1892. Dal giorno in cui è venuto al mondo, non ha fatto altro che imparare. S’impara con le orecchie – Vladislav lo diceva sempre – ma pure con gli occhi, le mani e la bocca. A trent’anni, Zeyer è già dall’altra parte dell’Oceano, e conosce cinque lingue. In America vive di espedienti prima di realizzare di aver messo piede nella famosa Terra delle Opportunità. Da senza tetto e operaio a cottimo si tramuta in biscazziere da strada, assistente escapista, maestro elementare, commesso viaggiatore e infine consulente finanziario. Ben presto comprende che solo agli onesti è concesso di vivere sotto al sole, dunque impara la raffinata arte del commercio d’identità. Identità sottratte ai morti di mezza Europa, reinventate sul suolo americano o altrove. Vladislav smette di essere Vladislav molto presto. E si tramuta in Bob, Miguel, Philippe e molti altri. Alla fine della sua avventurosa vita ha assunto in totale circa quarantacinque identità differenti, in tre continenti.

Vladislav Zeyer non è mai stato, da quando ha imparato a riconoscere gli occhi ostili del mondo, l’uomo che il mondo si aspettava che fosse.

Perché neppure sotto al sole siamo al sicuro.

La vita, per uomini come Vladislav, non è che un pallido miraggio alle soglie del buio. Ove niente e nessuno è davvero ciò che sembra.

Nel caso ve lo steste chiedendo, persino la storia della Tour Eiffel è vera.

Lasciate che ve la racconti attraverso le immagini che attraversarono la mente di Vladislav un attimo prima di rendere l’anima a Dio.

La prima immagine è quella di un quotidiano parigino. Il più famoso, quello sulla bocca di tutti. Il titolo non riesce a leggerlo, ma Vladislav ricorda il contenuto dell’articolo. L’articolo che accese la scintilla. Il giornalista scrive a destra e manca che la Tour, il simbolo della città, è malconcia. I bulloni sudano ruggine, il Municipio si rifiuta di concedere i fondi per una riverniciata. Per tanto così, conclude il provocatorio pennivendolo, tanto vale sbarazzarsene! Ed è allora che la mente di Vladislav s’infiamma.

La seconda immagine sono i tavoli della Biblioteca Nazionale, dove Vladislav – che a Parigi si fa chiamare con un altro nome, ça va sans dire – va a spulciare vecchi giornali, sicuro del falò che l’intuizione ha acceso. Dopo qualche ora passata a sudare sui tavoli, tra vecchi faldoni che san di muffa e dispiaceri, eccola là, la pagina tanto anelata. Ancora una volta, il titolo è invisibile, ma il succo scivola giù per la gola di Vladislav come nettare alla fine del deserto. È un articolo di molti anni prima, che saluta la Tour appena inaugurata e invita i parigini a non affezionarsi: tra vent’anni la smonteranno. In fin dei conti serve solo a celebrare l’Esposizione Universale.

La terza immagine è a volo d’uccello: nella stanza, intorno a un tavolo di mogano, ci son cinque o sei riccastri che pendono dalle labbra di Vladislav. Zeyer racconta di essere stato incaricato dal Governo di convocarli, e indire un’asta per tutto il ferro della Torre Eiffel.

La smonteranno! urla ai riccastri, che dirigono grandi acciaierie e hanno i borsellini gonfi.

Perché è vecchia e cade a pezzi! Perché è un pericolo! Perché così avevan deciso tanti anni fa! e intanto sventola gli articoli.

Ma fate presto, che l’asta è oggi e oggi soltanto, signori miei. Qui all’Hotel Crillon, in gran segreto, per voialtri. Quattro su cinque non si fidano, son mica fessi. Ma un fesso c’è davvero, si chiama Poisson: nomen omen, come si dice. Poisson si crede furbo, furbissimo, e sussurra a Vladislav: dimmi la verità, cosa c’è sotto?

Allora Vladislav fa la sceneggiata, dice che il Governo lo maltratta e lo sottopaga, che l’hotel è a carico suo e che non riesce a svoltare la mesata. E allora il Signor Pesce crede d’aver pescato il branzino dell’anno, d’aver trovato il funzionario da corrompere per alleggerire la pratica.

E così fa: infila un bel gruzzolo nella tasca di Vladislav per accaparrarsi l’asta. E poi, una volta accaparrata, paga in contanti una cifra che non vi sto nemmeno a dire.

Quarta immagine: il sorriso di Poisson quando consegna il grano a Vladislav. L’impassibilità di Vladislav medesimo a far da contorno.

Quando Vladislav sparisce – quinta immagine: il nostro amico su un aereo che lo porta di là dall’Oceano. Un’altra volta – Poisson mica va alla polizia. Si vergogna, ci farebbe una figura barbina. Dunque, passa qualche annetto prima che la bolla scoppi.

E Vladislav – benedetto ragazzo – fa in tempo a rivendersela, la Tour. Cioè, quasi. Perché sei mesi dopo – sesta immagine –, a Vienna, il pesce Svizzero non abbocca, anzi. Denuncia Vladislav e lui riesce a scappare per il proverbiale rotto della cuffia.

Ma, come dice il saggio, il sole non splende di notte. E la notte, amici miei, prima o poi arriva per tutti. L’oscurità cala su Vladislav nel 1934, quando un paio di ragazzi con la stella da sceriffo sul petto lo rinchiudono a Pittsburgh (settima immagine).

Vladislav scappa, ma i federali lo pizzicano ventisette giorni più tardi, lo sbattono ad Alcatraz e gli danno vent’anni (ottava e ultima immagine).

Ma, purtroppo per lui, Vladislav ne sconta appena sette.

Poi l’Altissimo decide che è ora di spegnere la luce.

Una polmonite gli chiude gli occhi una volta per tutte.

Buonanotte, signori e signorine.

Sipario.

ENDOXA - BIMESTRALE LETTERATURA

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