EDITORIALE – IL DEVIA(NDA)NTE E LA SUA LUCE

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“Glorificare l’origine – è questo il germoglio metafisico che rispunta nella considerazione della storia e che fa ogni volta credere che al principio di tutte le cose si trovi il più perfetto e il più essenziale”.

In questo breve stralcio, tratto dal secondo volume di Umano, troppo umano – e che porta il titolo “In principio era” –, Friedrich Nietzsche distilla magistralmente una delle tendenze fondamentali di quella che siamo soliti chiamare “cultura occidentale”: cultura che si è pressoché sempre trovata d’accordo nel predicare la coincidenza fra origine e fondamento, semplicità dell’inizio e autenticità, legge inscritta nella scaturigine delle cose e sua concomitante promanazione o innervatura nelle varie sfere dell’esistente.

Al netto di qualsivoglia giudizio di valore, è sulla base di una tale tendenza che si spiega la declinazione eminentemente nostalgica che ha dominato – e domina ancora – buona parte della nostra tradizione letteraria e filosofica: dalla paradigmatica dinamica dell’anelato ritorno a casa, che fa da stella polare alle innumerevoli peripezie di Odisseo, per passare alla mitica età aurea favoleggiata da molti poeti, fino a giungere alle più moderne riproposizioni del cammino dialettico, il quale, per quanto orientato a un progredire rivolto al futuro, risulta ancor più intimamente fondato – vuoi letto con Hegel, con Marx, vuoi ancora nella sua versione più generalmente illuminista – su una legge d’essenza contenuta nell’origine e sul suo necessario dispiegarsi lungo l’asse della storia.

I risvolti immediatamente politici di una tale tendenza pure ci sono noti: a prescindere dalle sue molte modulazioni storiche, è stata sempre e comunque la medesima pretesa di un accesso – in qualche modo ritenuto autentico – all’originario a giustificare il privilegiato possesso della verità della legge del fondamento e la sua possibilità di trasposizione nel mondo sociale, sì da produrre di quest’ultimo tanto una normazione delle pratiche di vita, quanto una normalizzazione dei soggetti in gioco. Una tale logica si è dispiegata tanto attraverso la credenza premoderna dell’incorporazione di una volontà divina nell’intermediazione secolarizzata di un sovrano, quanto mediante la pretesa di stampo più moderno dell’accesso razionale a una verità primeva di carattere onnipervasivo e inconcusso. Quali che siano state le figure in cui siffatta logica si è materializzata, una costante non ha mai mancato di dispiegarsi: la premessa dell’esistenza di un primordiale fondamento legislatore e la concomitante pretesa di penetrarlo in modo immediato e trasparente, sì da poter organizzare gli ordini del mondo fra nette e distinte zone di luce e d’ombra, di verità e menzogna, di normalità e devianza.  

Ma, come sappiamo, è proprio Nietzsche a squadernare una tale visione del mondo. Con la sua dichiarazione di morte mossa nei confronti del Dio metafisico e la concomitante messa in dubbio della presenza di una verità incontrovertibile quale principio di tutte le cose, egli rappresenta il sismografo che registra il movimento tellurico emblematico che scuote la tradizione occidentale: l’evento della modernità – evento che mette in scacco ogni pretesa di totalità riguardo alle forme di conoscenza e d’esperienza del mondo; evento che segna la scoperta del carattere inevitabilmente limitato e contingente di ogni discorso prodotto sui vissuti umani (e non).        

In linea con queste indicazioni, non è un caso, dunque, che il brano riportato in apertura sia tratto da quella sezione di Umano, troppo umano che porta proprio il titolo de Il viandante e la sua ombra. Sì, perché il senso complessivo dell’operazione compiuta da Nietzsche è esattamente quella di mettere in evidenza come nessuna illuminazione possa essere totale. Anche il pensiero di mezzogiorno comporta, per quanto in misura minima, una zona d’ombra. Secondo Nietzsche, l’esperienza di ciascuno di noi si muove, in effetti, allo stesso modo del procedere di un viandante che, lungo il suo cammino, resta permanentemente avvertito della limitatezza e prospetticità di tutte le sue acquisizioni.

Sia a livello soggettivo che a quello intersoggettivo e istituzionale, la logica che attraversa gli ordini dell’esperienza di cui ci parla Nietzsche – ma non solo: con lui tutta una schiera di autrici e autori di diversa provenienza ed epoche –, è allora la seguente: vi è tanta verità quanto errore, tanta luce quanta oscurità, tanta unificazione quanta pluralizzazione, tanta normalità quanta devianza. Per sintetizzare forzando un po’ il linguaggio: ogni viandante contiene già sempre in sé un devia(nda)nte!

Nietzsche, però, ci fornisce anche un altro avvertimento fondamentale; avvertimento ripreso, poi, esplicitamente da diversi autori sul palcoscenico della contemporaneità, tra cui Foucault, Derrida e Ricoeur (giusto per citarne alcuni). Si tratta infatti dell’ammonimento circa l’ambiguo atteggiamento con cui la modernità ha affrontato il difficile pensiero dell’ombra: perché, invero, la percezione della finitezza è un’esperienza difficile da sopportare fino in fondo. Così, se da un lato il dispositivo moderno esplicitamente la accoglie, dall’altro finisce simultaneamente per volerla dissimulare, e questo a causa del drammatico peso che comporta. L’inevitabile risvolto di un tale atteggiamento ambivalente è stato allora quello di oscillare fra due poli: a un estremo, troviamo tentativi d’uscita da un pensiero totalizzante; all’altro, rinveniamo invece la riproposizione di discorsi universalistici atti a esorcizzare la finitezza stessa. Ma, come si sa: una finitezza che vuole sfuggire a se stessa non può far altro che reggersi sulla continua produzione di esclusioni e di tipizzazioni delle devianze che ne minano la pretesa assolutizzante.

È per questo motivo che in ogni tempo – e oggi più che mai – questo rapporto fra normalità e deviazioni, fra luce e ombra, va instancabilmente intercettato e interrogato, così come ci propone Nietzsche predisponendo il dialogo smascherante del viandante con la propria ombra; ombra che, perciò, diventa, in ultima analisi e paradossalmente, vera e propria fonte d’illuminazione sui pretesi ordini razionali di mondo in cui soggiorniamo e organizziamo il corso delle nostre vite.

Gli interventi raccolti in questo numero, nelle loro variegate prospettive e forme espressive, possono essere intesi come penetrazioni e pungoli plurali che interrogano il sempre instabile e contingente rapporto fra normalità e deviazione e le altrettanto multiformi strategie della sua dissimulazione.

Probabilmente, è da queste serie di voci che possiamo apprendere, in forma composita e variegata, indicazioni preziose e, forse, anche insegnamenti: non, però, la chiave critica unica o lo schema interpretativo definitivo. Non voglio dilungarmi sul fatto che qui non si tratta, in alcun modo, di scadere in atteggiamenti che cedono al mero relativismo. Piuttosto si tratta, anche in questo caso, di accogliere l’avvertimento di Nietzsche che, sempre in apertura del testo sopra evocato, ci incita a scongiurare l’abbaglio della saggezza unitaria e unilaterale. Perché, come ammonisce l’ombra, a cui egli dà voce, “in un colloquio un po’ lungo anche il più saggio diventa una volta pazzo e tre volte minchione”!

Sulla scorta di questo caveat, cedo, allora, subito la parola alle voci che popolano questo fascicolo, augurando a tutte e tutti buone letture

DIRITTO ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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