ARMONIE TOTALITARIE, RÈGNE DE L’HOMME, SOVIET DEI BUONI
PIER MARRONE
Siamo abituati a considerare in molti casi una certa quantità di conflitto come uno degli ingredienti ineliminabili della nostra esistenza e della nostra presenza nella società. Siamo in conflitto con i genitori quando transitiamo per la fase dell’adolescenza, siamo in conflitto con l’altro sesso quando abbiamo obiettivi divergenti nella nostra vita emotiva. I conflitti fanno parte di ogni ambiente lavorativo perché le aspettative di carriera e di guadagno che ognuno di noi ritiene giuste per sé medesimo sono sempre risorse che vengono sottratte a qualcun altro. Per non parlare del mondo della politica, che nel nostro tempo ha sostituito, fortunatamente e in numerosi casi, la guerra come metodo di risoluzione delle dispute. Ma poi pensiamo al conflitto per accaparrarsi uno dei rari posteggi condominiali o un posto per il proprio asciugamano sulla riviera affollata quando, come in questi giorni, il sole picchia forte e sembra non esserci nessun altro sollievo al di fuori dell’aria condizionata, se non un tuffo nel mare affollato anch’esso.
Insomma, un’organizzazione finalistica del mondo, segnalata dalla pacifica composizioni di parti differenti (questa potrebbe essere una definizione di “armonia”) è rimandata sine die e non è alla nostra portata in questa vita, se non per eccezione. Certamente, talvolta capita che abbiamo questa illusione di vivere nell’armonia, ad esempio quando sperimentiamo l’esperienza fusionale dell’eros con una persona della quale siamo innamorati. Ma anche qui: si tratta di momenti assolutamente fugaci e del tutto soggettivi, quando invece, come molto spesso accade, non si tratta di una semplice illusione soggettiva. Non sei nella mente della tua partner e non hai idea di quello che le passa per la testa, degli obiettivi che ha, di quello che prova sentimentalmente. Forse le cose, fugacemente, sono proprio come tu le immagini, ma, in ogni caso, sono destinate a cambiare e prima o poi ti ritroverai in conflitto anche con lei.
In fondo, siamo tutti intimamente convinti che la dimensione conflittuale dell’esistenza faccia semplicemente parte delle nostre vite in questo mondo. Non è un caso che, salvo per qualche filosofo, la promessa di un’armonia, situata oltre la nostra esperienza di questo mondo, sia delegata alla vita ultraterrena. L’armonia al di là di questa vita è la ragione sociale delle religioni, che registrano però anche un bisogno umano insopprimibile, che io ritengo essere un vero e proprio universale umano: l’idea che le cose andranno meglio la prossima volta, che ci sarà data una seconda chance, che i reprobi saranno puniti e quelli che si sono comportati bene (di solito noi stessi: strano vero?) saranno premiati.
Questo bisogno umano universale, che per moltissimi fornisce un senso alle nostre esistenze, si è però scontrato con un movimento storico di lunga durata che va sotto il nome di secolarizzazione. Per secolarizzazione si intende che ogni evento, ogni azione, ogni significato hanno luogo nel “secolo” ossia nel tempo umano che noi possiamo sperimentare. Fuori dalle nostre esperienze possibili, quali possiamo viverle in questa vita, non esiste nulla. Non c’è una vita oltre questa unica vita. In questa vita si esaurisce la nostra esperienza e quindi è solo compito nostro dare a questa unica esistenza che ci è capitata in sorte un significato che la renda degna, dal nostro punto di vista che è l’unico che ci è accessibile, di essere vissuta e sperimentata nella sua pienezza.
Questa prospettiva, sostanzialmente atea, è diventata una prospettiva che si è imposta in quasi tutto l’Occidente. Non ha nessuna rilevanza che ci siano ancora minoranze, talvolta consistenti, che vanno in qualche tempio ad assistere alle funzioni religiose. La secolarizzazione ha vinto perché ha imposto la sua prospettiva sulla fine della trascendenza come scopo ordinatore di questo mondo. Tutte le invettive di Nietzsche contro il platonismo e contro la religione, che culminano nella proclamazione della “morte di Dio”, che siamo stati noi a uccidere, sono una rivendicazione di questa responsabilità che dobbiamo interamente assumerci. Qui sorgono però numerosi problemi. La religione assolve anche a dei bisogni di coesione comunitaria, che si indebolisce quando questa tramonta. Del resto, è proprio questo indebolimento a sprigionare le energie dell’individualismo, del quale l’Occidente va a ragione fiero.
La religione prospetta anche qualcosa di altro: la possibilità di compiere il bene, ma non un bene qualsiasi, bensì un bene che rientra in un progetto, si tratti di sottrarsi alla catena delle sofferenze, oppure di vivere la vita del Cristo (nulla di meno di questo imperativo impossibile è il cristianesimo). Operare il bene in vista della trascendenza è innegabile che dia alle proprie azioni un valore aggiunto, che sembra invece mancare a un bene completamente disancorato dalla trascendenza. Il valore aggiunto è quello di essere impegnati nella costruzione di un’armonia cosmica con le nostre piccole azioni. Ma se la religione rappresenta un universale umano, allora la mia idea è che difficilmente possa tramontare seriamente, nel senso di scomparire dall’orizzonte dell’esperienza umana. Le ideologie totalitarie (il fascismo, il nazismo, il comunismo) hanno rappresentato un succedaneo secolare delle religioni, ponendo la realizzazione del regno dei fini dentro il secolo, nel régne de l’homme. Ora, se la costruzione di questo regno deve avvenire nel secolo e nella storia, allora questo stesso imperativo impone di non fermarsi di fronte a nulla. Anche da qui derivano i crimini di cui queste ideologie si sono macchiate nel ventesimo secolo. Il fanatismo del bene ha inevitabilmente riflessi criminali.
Si dice che le ideologie sono morte, ossia che sono fuori uso le grandi narrazioni che hanno nutrito gran parte della storia del secolo scorso. Tutti i proclami generali hanno un che di equivoco, ma in questo caso l’equivoco non tiene conto di un dato di fatto generale. Le grandi narrazioni del passato (il socialismo, il comunismo) magari saranno pure (momentaneamente) morte e alcune di queste saranno magari agonizzanti (le democrazie liberali individualistiche), ma di grandi narrazioni è molto difficile fare a meno, così come è difficile fare a meno per la maggior parte degli esseri umani di una prospettiva generale sul bene.
Il problema naturalmente è che su che cosa sia il bene non c’è affatto accordo, tanto meno c’è accordo su quali siano le azioni effettivamente buone. Se vedo uno storpio che chiede l’elemosina per strada, cosa che quasi non accade più nei paesi più ricchi, ma che non è affatto infrequente nei paesi in via di sviluppo, e gli allungo degli spiccioli, sto facendo realmente un’azione buona? Il caso sembra non controverso, ma potrebbe essere che lo storpio sia vittima di una gang che sfrutta le terribili condizioni di questi disgraziati. Forse non dovrei dare frettolosamente degli spiccioli, ma adoperarmi perché vi sia un dignitoso sistema di assistenza sociale per queste persone. Alcune amministrazioni comunali in vari paesi hanno lanciato campagne contro la pratica dell’elemosina, con la motivazione che non si tratta di un vero aiuto. Però in effetti qualche aiuto a qualcuno lo danno, perché fanno sentire che compie l’elemosina è dalla parte giusta.
Manifestare la propria propensione a “essere dalla parte giusta” potrebbe essere considerato come il nuovo imperativo del catechismo civile che si è imposto nel linguaggio e nella scrittura, catechismo che va sotto il nome di “politicamente corretto”. L’origine di questa ideologia va rintracciata nelle politiche staliniste degli anni Trenta del Novecento, quando i partiti comunisti in Europa promuovevano la politica dei fronti popolari con le altre formazioni di sinistra e miravano a sostenere i comportamenti e le espressioni linguistiche “corrette” ossia funzionali a questa politica. Negli anni Ottanta poi l’espressione “politicamente corretto” si diffuse nei paesi anglosassoni a qualificare l’insofferenza di settori radicali verso il conformismo linguistico di chi vuole imporre ad altri quanto ritiene essere un comportamento antidiscriminatorio, non comportandosi diversamente da chi vuole imporre la propria visione totalitaria del mondo. Non entro nella definizione di che cosa sia il politicamente corretto, perché è sufficientemente chiaro quali comportamenti vi si possono individuare. Quello di cui abbiamo bisogno non è, infatti, tanto una definizione precisa (che è sempre una questione anche di stipulazione e negoziazione linguistica) quanto una fenomenologia del politicamente corretto.
La prima considerazione fenomenologica è quella che segnalavo sopra: la volontà di essere dalla parte giusta assieme a quella di trascinare dalla propria parte con gli strumenti della censura sociale, del conformismo ideologico, e qualche volta della legge, chi non vuole adattarsi a determinate pratiche. Pratiche che impongono ai riottosi un pellegrinaggio nella Lourdes linguistica, secondo l’espressione che usò Robert Hughes nel suo devastante La cultura del piagnisteo: “Vogliamo creare una sorta di Lourdes linguistica, dove il male e le sventure svaniscano con un tuffo nelle acque dell’eufemismo. L’invalido si alza forse dalla carrozzella, o ci sta più volentieri, perché qualcuno ai tempi dell’amministrazione Reagan ha deciso che, per scopi ufficiali, è ‘disabile’?”.
Hughes scriveva queste righe nel 1993, ma noi ci siamo spinti bel oltre la Lourdes di Hughes. Gli esempi che potrei fare sono innumerevoli: dal convegno universitario, pagato con soldi pubblici, sull’uso dell’asterisco da usare al posto di desinenze maschili e femminili alle esternazioni della scrittrice femminista che sostiene che essere maschi è come essere figli di mafiosi (ma anche ammesso che questo delirio fosse vero, lo sarebbe perché le colpe dei padri si trasmettono sui figli?), dalla studiosa capace di scrivere un intero volume sulla filosofia della migrazione senza mai usare la parola “islam” al professore universitario sottoposto a procedimento disciplinare nella mia università perché ha osato chiedere che cosa sarebbe accaduto a un bonus di 10mila euro proposto da un leader di partito per i giovanissimi se investito a Scampia (ma se avesse scritto Quarto Oggiaro o Melara non gli sarebbe probabilmente successo nulla), dai sostenitori del Black Lives Matter che insultano dei sostenitori bianchi del Black Lives Matter alle fondatrici sedicenti marxiste del Black Lives Matter che sostengono che il capitalismo è intrinsecamente razzista, una posizione che avrebbe fatto sbellicare Marx dalle risate. Cosa hanno in comune queste posizioni? Io credo abbiano in comune l’esaltazione dell’altro, anzi dell’Altro, quale che sia, purché non sia maschio, etero, bianco, occidentale. Il bianco maschio, etero, occidentale, meglio se di mezza età, è Un colpevole quasi perfetto, come recita il titolo del volume di Pascal Bruckner, se non fosse per il fatto che su di lui si riversa il razzismo dei suprematisti neri, islamici, femministi, multiculturalisti.
È, forse, una bella cosa conservare le differenze tra i gruppi culturali, ma siamo realmente obbligati a dire che l’alterità è sempre positiva, che la differenza è sempre fonte di valore e di superiorità morale o di altro genere? In Svezia, la suocera buona d’Europa come qualcuno l’ha ironicamente chiamata per la dedizione della quasi totalità delle sue classi dirigenti al catechismo civile del politicamente corretto, scienziati sociali che hanno osato mettere in questione il paradigma multiculturale dei governi e la loro politica dell’accoglienza di qualsiasi migrante, con l’argomento, sorretto da numerose e solide ricerche empiriche, che questo produceva nuove marginalizzazioni e nuove ghettizzazioni, a loro volta produttrici di conflitti e non di integrazioni, sono stati pesantemente ostracizzati e accostati alle posizioni dell’estrema destra. Come sostiene l’antropologo Jonathan Friedman nel suo Politicamente corretto, che appunto si occupa di questo caso, il conformismo morale ha l’ambizione di diventare il nuovo regime di controllo delle menti. E forse anche dei corpi, almeno stando a un documento sulle “buone pratiche” nei rapporti tra professori e studenti, messo in discussione in un consiglio del dipartimento al quale appartengo che vincolava i professori a “Utilizzare sempre forme di linguaggio e di espressione corporea adeguate, rispettose dei rispettivi ruoli e della sensibilità e valori culturali altrui in materia religiosa, morale, politica e di genere.” Fortunatamente in questo caso, grazie alla ferma opposizione di 5 docenti (su un centinaio circa), pronti all’obiezione di coscienza e pronti a portare all’attenzione della stampa nazionale questo conformistico attacco alla libertà di pensiero il comma in questione è stato soppresso. Ma io sono convinto che questo sia accaduto solo perché qualcuno ha levato la propria voce contraria, cosa che gli improvvidi promotori probabilmente non avevano previsto, contando, come ogni minoranza militante, sull’acquiescenza della maggior parte dei propri pari. Il calcolo è però la maggior parte delle volte corretto, poiché io ritengo che la maggior parte dei miei colleghi non abbia nessuna difficoltà a indossare il bavaglio che il politicamente corretto vorrebbe imporre. E nemmeno me ne stupisco: interpretare la professione del docente universitario come una carriera burocratica porta precisamente almeno a questo. Io continuo a pensare che fare il professore universitario debba essere un’altra cosa.
E per quanto riguarda la disciplina dei corpi, ho scoperto che ci sono intellettuali femministe, che sostengono che non esistono le disabilità, ma solo le differenze. Un tetraplegico, insomma, non sarebbe disabile, ma farebbe parte di un gruppo come le donne, i neri, gli Lgbtq+, i non binari. Mi verrebbe da chiedere se sia stata mai chiesta l’opinione degli interessati sulla questione, perché una delle caratteristiche di questa difesa ad oltranza di qualsiasi minoranza è che spesso le minoranze non vengono affatto ascoltate, né vengono ascoltati altri gruppi che magari potrebbero essere danneggiati. Il politicamente corretto ha, quindi, come uno dei suoi effetti di tenere le minoranze in uno stato di minorità.
John Stuart Mill elaborò un celebre argomento a favore del pluralismo delle opinioni. L’argomento, per come lo rielaboro io è questo: noi non siamo attualmente in possesso di uno strumento per produrre enunciati veri. Non esiste un algoritmo del genere, e forse non ci sono le condizioni logiche per produrlo mai. Per questo è meglio lasciare che la verità emerga dal libero scambio di opinioni. Questo pare essere fino al momento attuale il sistema migliore per far progredire la conoscenza. Questo argomento può essere trasposto per analogia anche al problema del bene, con pochi aggiustamenti. Non abbiamo una struttura di riferimento dalla quale dedurre sempre quali siano le azioni buone. Chi sostiene il contrario lo sta facendo o per ignoranza o per fanatismo o, molto più probabilmente, per sostenere la propria carriera e la propria ascesa sociale, danneggiando quella dei suoi concorrenti. Il Soviet dei Buoni non ha come fine la bontà, ma la repressione delle libertà.
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA Armonia Endoxa luglio 2021 Pier Marrone