UNA RECONDITA (DIS-)ARMONIA: POVERTÀ, GIUSTIZIA E ARTE NELL’OPERA DI GIACOMO PUCCINI
PIER GIUSEPPE PUGGIONI
1. Molte forme e declinazioni dell’arte hanno che fare con la ‘politica’, se con questo termine si può intendere l’azione in un contesto sociale e pubblico. Potremmo, infatti, dire che l’attività politica abbia una dimensione sociale, in quanto coinvolge l’interazione fra più individui, e un carattere pubblico, poiché implica la potenziale incidenza di certe azioni, decisioni, o pratiche su tutti i soggetti compresi in tale contesto. Questa specie di definizione è evidentemente assai vaga e potrebbe apparire imprecisa. La sua vaghezza e la sua imprecisione sono però molto importanti – e vorrei dunque conservarle, in questa sede – perché sembrano suggerisce un concetto di ‘politica’ dallo spettro molto vasto, ben maggiore dei confini segnati dall’attività dello Stato, dalle sue istituzioni e dai rapporti a esso riconducibili. Così, si può dire che problemi ‘politici’ – quelli di cui, insomma, si occupa la filosofia politica – abbiano a che fare non solo con lo Stato, ma anche con altri rapporti, con altre realtà intersoggettive, che possono quindi ospitare qualcosa come il diritto, la giustizia, il potere, e così anche l’oppressione, la subordinazione, la gerarchia.
Forme d’arte come la musica e il teatro sembrano allora partecipare a questa dimensione, nella misura in cui richiamano o ritraggono momenti ‘politici’ all’interno di un contesto che non ha necessariamente a che fare con lo Stato o col governo. Intendo dire, banalmente, che quando la musica e il teatro dipingono l’ingiustizia o l’oppressione, il significato di questi termini (e di questi temi) è prossimo a quello che essi assumerebbero nel discorso politico formulato nello Stato e sullo Stato. Se questo è vero, allora lo stesso potrebbe valere – forse in modo ancora più intenso – per l’opera lirica, che rappresenta appunto l’incontro di musica e teatro, e in particolare per i lavori di Giacomo Puccini (1858-1924), uno dei maggiori compositori nella storia della musica italiana e mondiale. Nonostante, infatti, alcuni abbiano dato attenzione all’impegno politico del compositore lucchese, in particolare al suo rapporto col fascismo (penso a un intervento di M. Bianchi su Puccini e la politica, del 2003), non sembra invece che la concezione politica all’interno della lirica pucciniana sia stata particolarmente esplorata. Del resto, si potrebbe dire, dato che il compositore ‘di professione’ trova nella rappresentazione delle proprie opere il principale mezzo di comunicazione col pubblico, è forse proprio in queste che dovrebbe ritrovarsi il suo messaggio politico.
Nella lirica pucciniana, d’altronde, si può trovare una riflessione su temi che potremmo dire ‘politici’, e che emerge almeno su un duplice versante. Per un verso, infatti, è rilevante la scelta degli argomenti, delle trame, dei personaggi, una serie di operazioni sulle quali il compositore interviene (o può intervenire) in prima persona, che precedono e incidono sulla stessa stesura dei testi ad opera dei librettisti. Per altro verso, vedremo che anche a livello compositivo molte scelte tecniche e stilistiche dell’autore paiono trasmettere una certa lettura della giustizia, del potere e di alcuni dispositivi giuridico-normativi attraverso cui i rapporti sociali sono governati. In questo senso, quindi, cercherò di riflettere su alcuni drammi pucciniani per mettere in luce quelli che, a mio giudizio, appaiono temi politicamente significativi. Dalla lettura coordinata di alcune opzioni estetiche e diegetiche, infatti, affiora in Puccini non solo un ritratto della povertà, ma una denuncia dell’oppressione; non solo un’esibizione del potere e del disagio economico, ma una critica dell’ingiustizia che da esso deriva, accompagnata, come vedremo, da un’apertura verso la ricerca della libertà attraverso l’arte. Il teatro pucciniano ospita, dunque, una profonda e radicale disarmonia tra arte e potere (economico, politico, giuridico) che sembra informare, in varia misura, le stesse armonie dell’opera.
2. L’opposizione di ricchezza e povertà è la prima (e forse la più evidente) delle direttrici che percorrono molti lavori operistici pucciniani. È il tema che domina, ad esempio, in Manon Lescaut (1893), dove l’omonima protagonista Manon (soprano) lamenta la condizione economica che la spinge a decidere di vivere con il ricco e vecchio Geronte (basso). Di fronte alle profferte dell’innamorato De Grieux (tenore), lei ricorda di essere «una fanciulla povera» sul cui destino «regna tristezza» (Manon, Atto I). In questo passaggio, significativamente in Re minore, Puccini indica un tempo di esecuzione «appena trattenuto» in corrispondenza di «…povera…», ed inserisce una cadenza incerta della frase sulla sopratonica (mi naturale) invece di chiuderla sulla tonica, enfatizzando con una dissonanza la paura della ragazza dinanzi al futuro. Al lamento di Manon sembra, in un modo curiosamente speculare, replicare la storia raccontata da Magda (soprano) nella celebre aria de La rondine (1917). Si tratta di un sogno dove la ricchezza non è più la chiave dell’avvenire («… che importa la ricchezza …»), ma è l’amore che fa «alfine rifiori[re] la felicità» (Atto I, Ch’il bel sogno di Doretta). Questa storia, del resto, altro non è che il desiderio (il «sogno») della stessa protagonista, come si evince dal «crescente calore» con cui Puccini comanda di intonare il dolce e potente Do sovracuto, suggerendo così una profonda immedesimazione della narratrice nel racconto, se non addirittura un’appropriazione del racconto da parte della stessa.
La felicità, dunque, non si trova nella ‘ricchezza’, tanto che quest’ultima sembra quasi ‘non importare’. In che modo, però, tutto ciò avrebbe rilevanza politica? Ebbene, quest’ultima emerge allorché il desiderio dei protagonisti si scontra con il contesto sociale, con una serie di rapporti di potere che subordinano il «perseguimento della felicità» – celebre motto del liberalismo politico – alle risorse economiche e monetarie a disposizione dell’individuo. La ricchezza, dunque, si trasforma in un potere economico che consente a certi individui di controllare le vite di altri. Questo non vale soltanto per Manon o per Magda, che infine – seppur in modi differenti – soccombono di fronte al bisogno, ma anche per i protagonisti de La bohème (1896), i quali in vario modo sperimentano simili rapporti di potere a base economica, come quello con il proprietario della soffitta nel Quadro I, o quello con il ricco «consigliere di stato» Alcindoro (basso) nel Quadro II. In un certo senso, però, Rodolfo (tenore) e i suoi amici cercano di affrontare e di aggirare tali rapporti, escogitando prima uno stratagemma per non pagare la rata dell’affitto e poi un altro, con l’aiuto di Musetta (soprano), per rifilare ad Alcindoro il conto del ristorante. Un certo disprezzo dell’avidità e della ricchezza emerge, del resto, nell’aria con cui Rodolfo si presenta a Mimì (soprano). Il giovane poeta, infatti, si professa un «gran signore» che vive «in povertà», e che «per sogni, per chimere, / e per castelli in aria» ha «l’anima […] milionaria» (La bohème, Q. I, Che gelida manina). Così, tanto l’acuto di Rodolfo su «…la speranza…», quanto quelli di Mimì su «il primo bacio dell’aprile…», entrambi doppiati da vari strumenti, sembrano voler esorcizzare la pressione schiacciante della povertà, che li costringe alla fame, al freddo e alla malattia.
Il destino degli eroi pucciniani è tuttavia segnato, poiché la morte prende Mimì e Manon, che rimangono in povertà, così come il sogno di libertà e amore di Magda svanisce di fronte alle catene del passato e alle prospettive di stabilità economica che il suo vecchio compagno continua ad offrirle. Sembra ovvio, però, che l’esito tragico sia in realtà funzionale alla denuncia pucciniana, dal momento che ne alimenta la carica polemica, catalizzando su questi personaggi il coinvolgimento e, potremmo dire, la compassione (sym-patheia) dello spettatore. Così accade, del resto, con il personaggio di Liù (soprano) in Turandot (1926), sulla cui morte si interruppe la composizione pucciniana. Dopo che l’autore venne a mancare, infatti, il finale poté completarsi solo con l’intervento di Franco Alfano, peraltro non del tutto approvato dal maestro Arturo Toscanini. Ora, nel dramma pucciniano Liù è la serva di Timur (basso), segretamente innamorata di Calaf (tenore), il quale è determinato ad ottenere la mano della principessa Turandot (soprano), provocando in tal modo la tortura e la morte di coloro che (come Liù) non rivelano il suo nome.
Ai nostri fini, l’episodio della morte di Liù è importante per almeno due ragioni fra loro connesse. In primo luogo perché pare che Puccini abbia composto non solo la musica, ma anche il testo della sua aria, Tu che di gel sei cinta. Vi è quindi un legame particolarmente forte fra l’autore e questo personaggio. Si tratta di una figura ‘povera’, non nobile, che non ricerca la gloria o quella forma di ricchezza rappresentata dall’onore, né persegue un desiderio egoistico, tanto da dare la vita per garantire all’amato la vittoria. Come ha osservato il biografo Julian Budden (Puccini. His Life and Works, Oxford 2002), l’enfasi su questa figura mostra come «il cuore» del compositore lucchese fosse «lì nella bara con Liù». La seconda ragione è il curioso fatto che Puccini si sia fermato proprio su questo passaggio, poco prima che un tumore laringeo lo portasse alla morte. Si dice peraltro che egli, pur avendo il tempo di terminare la composizione, in un primo momento si sia rifiutato. Le ragioni di tale momentaneo rifiuto non sono, però, del tutto chiare. Ad ogni modo, quando Toscanini diresse la prima messa in scena di Turandot nel 1926 e annunciò il termine dell’opera dopo la morte di Liù, egli confermò una sorta di itinerario implicito nel dramma pucciniano, che ritrae la lotta (impari) del povero contro la ricerca della ricchezza e dell’onore.
3. Il tema dell’avidità è fortemente presente in un’altra delle opere pucciniane più rappresentate, il Gianni Schicchi (1918), il cui lieto fine sembra solo in parte distinguere questo dramma dalla linea di tendenza tracciata da quelli che abbiamo visto. Infatti, la disputa sul testamento di Buoso Donati contrappone un atteggiamento egoistico, proprio di quasi tutti i parenti che bramano il possesso dei beni ereditari, ad un sentimento più ‘nobile’ e genuino, ossia l’amore fra Rinuccio (tenore) e Lauretta (soprano). La differenza fondamentale che sembra emergere fra questi due poli sta nel fatto che, mentre i primi vedono nella ricchezza e nel denaro un fine ‘in sé’, i secondi li concepiscono soltanto come uno strumento, a dire il vero nemmeno del tutto essenziale, poiché se non fosse per i rimproveri della zia Rinuccio sposerebbe l’amata a prescindere dalla dote. A dipanare la matassa sarà appunto Schicchi (baritono), il quale non desidera il denaro per sé, ma falsifica il testamento in modo da poter aiutare i due giovani a sposarsi. È significativo, peraltro, che a convincere il «motteggiatore» fiorentino non siano gli elogi che Rinuccio porta alle sue virtù ‘tecniche’ di uomo «fine» e «astuto», bensì la preghiera della figlia Lauretta (O mio babbino caro), che invoca con l’ultimo acuto la sua qualità apparentemente meno ‘economica’: la «pietà».
Il richiamo allo Schicchi ci serve anche per un’altra ragione. Nel recitativo di Rinuccio si dice che Gianni Schicchi «ogni malizia di leggi e codici / conosce e sa», ed è proprio questa conoscenza giuridica che gli permette di architettare il proprio inganno. Non ci importa, naturalmente, che la ricostruzione dell’ordinamento giuridico della Firenze medievale sia filologicamente o storicamente accurata, ma è rilevante che qui il diritto sia concepito come uno strumento che opera a vantaggio di chi sia abbastanza astuto e avveduto da manipolarlo, oppure di chi sia particolarmente potente o influente. Quest’ultimo è il caso di Pinkerton (tenore) in Madama Butterfly (1904), il quale sfrutta l’«uso giapponese» per sposare Cio-Cio-San (soprano) conservando il diritto – si potrebbe dire, ‘potestativo’ – di «proscioglier[si] ogni mese» (Atto I, sc. 2). A poco servirà la pretesa della povera Butterfly (il nome inglese di Cio-Cio-San) di vedersi riconosciuta come cittadina americana, poiché il potere di Pinkerton gli permette di piegare a suo piacimento le sottigliezze del diritto, sposando un’altra donna e ripresentandosi a Nagasaki con la sua «vera sposa americana».
Su questa linea si collocano, a ben vedere, le altre due opere del Trittico (oltre allo Schicchi). In Suor Angelica (1918), anzitutto, un simile rapporto di potere emerge in modo abbastanza evidente nel dialogo con la Zia Principessa (mezzosoprano), che spiega ad Angelica (soprano) le ‘ragioni’ per cui il «patrimonio di famiglia» è stato da lei diviso in un certo modo. In realtà, a parte il richiamo al dovere di ‘espiazione’ in capo ad Angelica stessa, la Zia non fornisca alcuna «ragione» in senso stretto per giustificare la propria de-cisione. Ella doveva amministrare il patrimonio e doveva dividerlo, si legge, «quando ciò riteness[e] conveniente», mostrandoci come in realtà sia il controllo di questo dispositivo giuridico (il patrimonio familiare) a plasmare il contenuto della «giustizia piena» sulla base della convenienza di chi lo controlla. Il passaggio viene, peraltro, musicalmente accentuato dal crescendo, dall’ascesa in acuto e dalla modulazione che trasporta la tonalità da Do diesis minore a Mi minore. Nell’atmosfera ancor più tetra del Tabarro (1918), invece, viene ritratta la subordinazione dei lavoratori alla benevolenza dell’imprenditore che li impiega. La vita dello scaricatore Luigi (tenore) è perciò appesa a un filo e si regge sull’arbitrio del «padrone» Michele (baritono), che infine lo ucciderà per gelosia. Nella sua ‘tirata’ (Hai ben ragione), infatti, lo stesso Luigi sottolinea la «pena» a cui i lavoratori sono costretti e la «frustata» che li minaccia, esplodendo un Si bemolle acuto appena prima della cadenza in Do minore su: «piegare il capo ed incurvar la schiena».
Oltre all’oppressione esercitata attraverso poteri di carattere ‘privato’, la denuncia pucciniana colpisce anche il potere istituzionalizzato, specialmente in due importanti opere, che sotto questo profilo possono leggersi parallelamente: Tosca (1900) e La Fanciulla del West (1910). In entrambe le storie vi è un rappresentante della legge, il barone Scarpia e lo sceriffo Rance, interpretati da un baritono, che impiega le forze di polizia a sua disposizione per eliminare un personaggio scomodo, rispettivamente Cavaradossi e Johnson, ambedue tenori. È interessante notare il modo in cui Cavaradossi – nello spartito, «con forza crescente» – descrive Scarpia come un soggetto che piega ai propri fini le istituzioni laiche (politiche) e religiose, rendendo «strumento al lascivo talento / […] il confessore e il boia» (Tosca, Atto I, sc. 6). D’altra parte, non molto diverso è l’atteggiamento di Rance, il quale invoca più volte la «giustizia» a sostegno della condanna a morte di Johnson (La Fanciulla, Atto III). «E di quale giustizia parli tu, / vecchio bandito?», replica Minnie (soprano), reindirizzando allo sceriffo l’accusa di cui egli stesso si fa portavoce, e allo stesso tempo evidenziando come una simile idea di ‘giustizia’ sia fondamentalmente strumentale al suo capriccio. La questione dell’oppressione e dell’ingiustizia ci aiuta a scorgere meglio l’impostazione della concezione pucciniana del potere e della critica nei confronti del suo impiego da parte di autorità ‘pubbliche’ e ‘private’. Rimane ora da chiedersi se in queste opere sia ravvisabile anche una qualche àncora di salvezza, un rifugio dinanzi alla pervasività del potere economico e politico.
4. La riflessione che ho cercato di stendere in queste righe deve compiere un ultimo (o forse primo) passo per illustrare gli spunti che, da un punto di vista filosofico-politico, possono trarsi dai lavori di Giacomo Puccini. In questo ritratto del potere si intravvede infatti un discorso parallelo, che comunica l’idea o, comunque, la speranza di una possibile liberazione dell’individuo dalla stretta del denaro, delle istituzioni, delle leggi e dell’arbitrio di chi li possiede. A questa ‘liberazione’ sembra accedersi attraverso l’arte, quell’arte che, entrando dentro l’opera, viene espressa non soltanto come forma della narrazione (la musica), ma anche come parte del suo contenuto, ovvero – potremmo forse dire – come significato e non solo come significante. Vi sono certamente altre dimensioni che, a seconda dell’opera di riferimento, assumono valenza morale e, per alcuni versi, politica. Penso, ad esempio, ai valori della fedeltà e del rispetto per l’amato, intorno ai quali ruotano le vicende delle Villi (1884) e di Edgar (1889), o ancora alla carità e al perdono di Suor Angelica e di La fanciulla del West. La dimensione artistica sembra, tuttavia, percorrere i drammi pucciniani come un’autentica protagonista, forse la sola, vera protagonista che accompagna l’autore nei vari momenti della sua produzione musicale.
Molti personaggi, infatti, si aggrappano all’arte in alcuni momenti-chiave. Ad esempio, mentre Geronte e di Lescaut ordiscono il piano per rapire Manon, il coro degli studenti sembra effettivamente cantare sulla scena, intonando un motivetto scherzoso nei loro confronti. L’elemento del canto ritorna poi nel coro di minatori in La fanciulla del West, che malinconici ricordano i parenti lontani, e poi nei versi del Venditore di canzonette ne Il tabarro, che sembra in parte dar voce agli scaricatori del porto («…chi aspettando sa che muore / conta ad ore le giornate»). Nella Rondine, inoltre, Magda racconta il proprio ‘finale’ del sogno di Doretta «sedendo al pianoforte», dunque – si può intuire –cominciando a suonare e a cantare. Nella Bohème, invece, quattro forme d’arte sembrano incarnate dagli amici della soffitta: la pittura con Marcello (baritono), la musica con Schaunard (baritono), la filosofia, cioè la scrittura scevra da profitto economico, con Colline (basso), mentre a far da protagonista è la poesia di Rodolfo, che torna insistentemente nell’aria di Mimì. La giovane fioraia dichiara infatti di amare «quelle cose […] che parlano d’amor, di primavere, / di sogni e di chimere / quelle cose che han nome poesia» (Bohème, Q. I). Ad accomunare tutti questi casi è, a ben vedere, la presenza costante di un ‘dispositivo’ che, intromettendosi nei meccanismi di produzione della ricchezza, del potere e del diritto, ne ostacola per un momento l’operare, rendendo la pressione di tali fattori irrilevante per gli eroi pucciniani.
Troviamo una posizione ancora più radicale in Tosca, dove l’arte sembra addirittura trascendere questa sorta di funzione negativa e soggettiva per assumere un ruolo – si potrebbe dire – positivo e oggettivo. Ciò accade non soltanto per la centralità del personaggio di Floria Tosca (soprano), la quale ‘vive d’arte’, in quanto cantante nella diegesi, e affronta a viso aperto la prepotenza di Scarpia. La figura che più ci interessa è Cavaradossi, pittore e rivoluzionario promotore della Repubblica Romana, il quale non perde l’occasione di contrastare, al costo della vita, il potere che Scarpia stesso rappresenta. Va detto che il «cavalier» Cavaradossi non è uno degli ‘ultimi’, un quivis de populo, ma fa parte di quella «élite politica e artistica romana» intorno a cui ruota tutta la vicenda (come affermano C. Abbate, R. Parker, A History of Opera, Milton Keynes 2015). È però interessante che in questo caso si affianchi ad un’aristocrazia politica un’élite artistica, poiché un accostamento sinfatto enfatizza la – possibile, quantomeno, se non effettiva – contrapposizione fra queste due forze. Quando nel primo Atto il pittore intona la celebre romanza Recondita armonia, contemplando il modo in cui «l’arte nel suo mistero / le diverse bellezze insiem confonde», egli compie sì una riflessione estetica, ma in questa particolare circostanza essa risulta in un’operazione fondamentalmente politica. Il mistero dell’arte, infatti, invoca anzitutto un elemento religioso, dal momento che il soggetto del dipinto in questione è una figura religiosa: Maria Maddalena. Interviene, inoltre, un aspetto ‘in senso stretto’ politico, giacché presto apprendiamo che questa Maddalena ha il volto della marchesa Attavanti, sorella del bonapartista Angelotti (basso), «prigioniero politico» – si dice nel libretto – che ella cerca di nascondere alle forze di polizia capeggiate da Scarpia.
Per certi versi, dunque, è come se il dipinto di Cavaradossi cercasse simbolicamente di liberare il discorso religioso e quello politico dal potere del suo nemico, tanto che il Sagrestano (basso), intuendo la pericolosità di quest’operazione, gli suggerisce a più riprese: «scherza coi fanti e lascia stare i santi!» (Tosca, Atto I, sc. 3). Il gesto del pittore si compie, però, attraverso la sussunzione di quei due elementi sotto un terzo fattore, evidentemente rappresentato dal «pensiero» di Tosca, la quale per tre volte è invocata nel corso della romanza, da ultimo con l’intenso Si bemolle che precede la chiusura. In questo contesto, evidentemente, Tosca non rappresenta tanto l’amore per cui Cavaradossi perde infine tutto, quanto piuttosto l’amore che cattura ogni altra istanza politico-economica (nel senso, cioè, dell’oikonomìa), disattivandone l’efficacia normativa o, si potrebbe dire con Foucault, governamentale. Tosca, in questo senso, impersona l’arte in quanto tale, che richiama la politica alla sua «inoperosità centrale», come suggerisce Giorgio Agamben ne Il regno e la gloria (2009) a proposito della poesia. La potenzialità dell’arte risiede, quindi, nella sua virtù inoperosa e inoperante, e forse in tal senso contribuisce a definirla come forza rivoluzionaria.
L’arte, osservava il pittore socialista William Morris, è uno strumento del «benessere» (wealth) e non della «ricchezza» (riches) poiché, a meno di rinunciare alla propria ‘essenza’, non insegue il profitto e non si lascia sussumere dal «commercio competitivo» o – potremmo aggiungere noi – dalle strutture di potere fondate su di esso. Nelle sue lezioni su Art. Wealth, and Riches (1883) e su Art and Socialism (1884), Morris sembra intendere l’«arte» come produzione senza scopo di lucro, capace di aprire l’uomo alla possibilità di una vita «dignitosa» senza rapporti di subordinazione e «schiavitù» (masters and slaves). Per questo, infatti, egli riteneva la dimensione dell’arte una prerogativa delle lower classes, sostenendo che una «rivoluzione sociale» dovesse partire dalla «ricostruzione dell’arte del popolo, vale a dire del piacere della vita». La sentenza di questo socialista britannico riassume, per certi versi, il discorso politico (o estetico-politico) racchiuso anche nel melodramma di Giacomo Puccini. Esso, come si è visto, sembra mostrare la possibilità e l’estrema difficoltà di una simile ‘rivoluzione’, restituendoci allo stesso tempo uno stimolo – forse ovvio, ma non troppo – a ripensare l’arte (e così la musica) in una prospettiva collettiva, sociale, pubblica, dunque politica proprio in quanto im-politica.
ENDOXA - BIMESTRALE MUSICA Armonia Endoxa luglio 2021 Pier Giuseppe Puggioni