INTELLIGENZA E PENSIERO

10870227223_6997ca31d4_b (1)FABIO POLIDORI

Difficile rinunciare all’idea che l’intelligenza sia un valore, per di più un valore assolutamente positivo. Anche nei casi in cui la si ritrovi al servizio di intraprese malvagie, un margine di ammirazione, magari pudica e silenziosa, sembra non esserle lesinato. Il senso comune non ha difficoltà, insomma, ad ammirare individui e prestazioni che brillano dei risultati ottenuti grazie a un uso particolarmente ingegnoso di risorse mentali. Senza entrare nella questione di quanto possa essere considerata un “valore” una dote che in certa parte – biologica – non sarebbe acquisita per merito personale ma, appunto, ricevuta in dono, qualche considerazione sull’indiscutibile valore positivo dell’intelligenza è possibile. Più precisamente, circa il suo valere anche come criterio per misurare, indistintamente, ogni prestazione di carattere mentale o spirituale (e, di questi tempi, anche meccanico). In tale senso, la domanda da porsi potrebbe essere: l’ambito ricoperto dall’intelligenza coincide con l’ambito di ciò che chiamiamo pensiero? È possibile, e soprattutto lecito, misurare il pensiero esclusivamente con il metro dell’intelligenza?

      Potrebbero sembrare domande che presuppongono una determinata nozione di “pensiero”, la quale tuttavia non è così facilmente e incontrovertibilmente disponibile; sono perciò domande che hanno una funzione esclusivamente euristica, servono cioè a muoversi in un ambito nel quale non bisogna fidarsi troppo dei punti fermi, che sembrano offrirsi persino copiosi. Sono, anche, domande che introducono la possibilità di individuare due dimensioni che presentano aspetti non solo diversi ma, in certi casi, persino in contraddizione. Insomma, se è vero e del tutto acquisito che un pensiero possa essere intelligente oppure no, non è del tutto pacifico che una prestazione intelligente sia anche una prestazione pensante. I recenti esempi ricavabili dall’estesissimo ambito di ciò che viene chiamata “intelligenza artificiale” dovrebbero bastare a confermarlo, dato che difficilmente tale espressione potrebbe essere considerata equivalente, e quindi rimpiazzabile, con quella di “pensiero artificiale”. Anzi, alcuni dei limiti più evidenti dell’intelligenza artificiale si riscontrano nel fatto che le prestazioni di macchine intelligenti non assomigliano affatto a prestazioni di pensiero.

      Non abbiamo però ancora positivamente affrontato cosa possa significare “pensiero”, né cosa si intenda in questo contesto per “intelligenza”. In effetti, alcune definizioni piuttosto convincenti di questo secondo termine sono state fornite, in tempi relativamente recenti, da un filosofo come Henri Bergson. Da esse è sicuramente possibile ricavare un tratto comune a tutte: l’abitudine. L’intelligenza sarebbe contraddistinta, ritiene Bergson, dal contrarre determinate abitudini derivanti dal nostro agire in quella che egli stesso chiama “vita pratica”. Il che è un po’ come dire “sbagliando s’impara”, così come significa che lo stupido, il non intelligente, non è colui che sbaglia ma colui che non impara. In tal senso l’intelligenza rappresenta sicuramente una funzione indispensabile per la vita, non solo per quella umana ma anche per quella del resto del vivente, dato che non esitiamo a riconoscere l’intelligenza di molti comportamenti da parte di animali e forse anche piante. Ma la sua collocazione nell’ambito della vita pratica e, all’interno di essa, la sua funzione di mera contrazione di abitudini in vista di esigenze pratiche future, sembra offuscarne un po’ il fascino. Anche se poi non ne sminuisce affatto l’importanza, anzi: per essa ne va niente meno che della nostra stessa sopravvivenza, anche individuale.

      In altri termini, e su questa base, essere intelligenti – per viventi e, in gradi diversi, macchine – significherebbe avere sviluppato competenze (contratto “abitudini”) in grado di svolgere operazioni che risolvono problemi quanto più rapidamente possibile (anche la lentezza, in tal senso, è un problema, un ostacolo). Possiamo da qui prendere le mosse per far reagire tra loro ciò che va sotto il segno dell’abitudine, o delle abitudini, e ciò che intendiamo, magari anche solo parzialmente, con “pensiero”. Il quale certo ha bisogno anch’esso di avvalersi di competenze (di “abitudini”), ci mancherebbe; dalle quali però altrettanto certamente non ha la possibilità di ricevere quelle sollecitazioni che lo inducono a svolgere quella che per il momento indichiamo come una funzione critica. Questa funzione consiste infatti principalmente nel prendere le distanze dallo sguardo consueto e socialmente condiviso con il quale osserviamo la realtà e ci regoliamo al suo interno; consiste nel distinguere, all’interno di ciò che ci si presenta come ovvio e come scontato, quanto non lo è affatto; consiste, secondo il filo di queste considerazioni, non già nel risolvere problemi bensì, al contrario, nello scoprirli e nel sollevarli là dove sembra che non ce ne siano affatto. Per questo motivo, la funzione critica può anche essere definita come problematica.

      Da questo punto di vista pensare indica quindi un agire volto a sovvertire quanto appreso e acquisito dall’intelligenza, la quale brilla per le prestazioni con cui ci consente di affrontare e risolvere un gran numero di problemi della vita pratica ma che, nei confronti di se stessa, risulta opaca e sorda. E ciò proprio perché l’abitudine consiste nel dare per scontato tutto il processo che ha condotto al suo contrarsi e stabilirsi. Da questo punto di vista è anche, senza dubbio, una comodità irrinunciabile. Tanto irrinunciabile da costituire la principale insidia proprio nei confronti dell’esercizio critico e problematico cui è chiamato il pensiero. Un altro po’ di filosofia a questo punto può essere utile per mostrarlo e, allo scopo, mi riferisco ad alcuni brevi passaggi che si trovano all’interno di un libro di Gilles Deleuze, un libro sicuramente molto bergsoniano, come del resto il suo autore, che si intitola Differenza e ripetizione.

      Nel capitolo centrale, “L’immagine del pensiero”, Deleuze cerca di mettere in luce come i filosofi abbiano sempre perseguito l’intenzione di far incominciare il pensiero da una sorta di purezza priva di presupposti. Impresa ardua se non impossibile, anche quando “la filosofia si pone dalla parte dell’idiota inteso come uomo senza presupposti”, ossia dalla parte di chi non avrebbe contratto le abitudini dell’intelligenza. Anche in questo caso, però, i presupposti permangono, quanto meno nella forma di quel pensare che è il pensare comune, quel pensare, verrebbe da dire, che si forma come intelligenza e grazie al contrarre quelle abitudini che si riconoscono come universalmente condivisibili: “il presupposto implicito della filosofia si trova nel senso comune come cogitatio natura universalis, donde poi la filosofia può prendere il suo avvio”. La filosofia stessa dunque, che costituisce l’ambito in cui confluiscono e si condensano le istanze critiche e problematiche del pensare, si ritroverebbe ad avere non poche difficoltà a sottrarsi a quella che Deleuze definisce una certa “immagine del pensiero” e che è l’immagine che le viene fornita proprio dal pensiero universale per natura, il quale si sostiene sull’esercizio dell’intelligenza e delle sue modalità: una certa disposizione al vero, la “buona volontà del pensatore”, “una natura retta del pensiero”. Ma “finché il pensiero si ferma al presupposto della sua buona natura e della sua buona volontà, nella forma di un senso comune, di una ratio, di una cogitatio natura universalis, esso non pensa affatto, ma resta prigioniero dell’opinione, irrigidito in una possibilità astratta”.

      È evidente che anche qui si manifesta il piano del conflitto della filosofia con la doxa, con quel “pensare” cui va riconosciuta piena intelligenza e che non deve essere affatto collocato su un piano di inferiorità rispetto a un pensare presunto “più alto”. E questo proprio perché ne costituisce e continua a costituirne il presupposto. Se il pensare “autentico”, cui la filosofia da sempre aspira, non può che tentare di prendere una certa distanza dalla doxa stessa, deve allo stesso tempo riconoscere come a questa non manchino risorse formidabili, che sono quelle dell’intelligenza. Così come quest’ultima, in un momento di distrazione da sé, potrebbe anche avvertire che non è capace di contenere tutto il pensare.

“rimpianto”  by Matiluba is licensed under CC BY 2.0

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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