L’INTELLIGENZA DI UNA CITTÀ NEL SEGNO DI UN DESIGN AT LARGE
LUIGI CAMERIERO
Proviamo a chiudere gli occhi per un momento.
Immaginiamo di salire su un treno a lievitazione magnetica che viaggia a 500km orari tra ampie radure o palazzi che svettano verso il cielo, e di ritrovarci così, nel giro di poche ore, in una città dove c’è del verde dappertutto, terra-tetto per usare un concetto edilizio.
Scendiamo dal treno, entriamo in questa città e immaginiamo di sentire il suono dell’acqua, ovunque, un suono che proviene da fontane, piscine e laghetti che accerchiano il nostro spazio visivo con un intonato e lieve fruscio che sovrasta quello delle auto che vediamo allo stesso tempo circolare intorno a noi, e che sembrano in confronto all’acqua così silenziose da farci chiedere dove sia il loro motore e, soprattutto, l’autista che non si vede.
Pensiamo di osservare per un attimo queste auto non solo per strada, ma che volano al di sopra della nostra testa.
Manteniamo ancora gli occhi chiusi, e immaginiamo ora di fare due passi su quel lungo viale alberato, tirato a lucido, che si apre davanti a noi e fermiamo per qualche secondo il nostro sguardo sulle persone che incontriamo.
C’è qualcosa di strano, vero?
Sembrano in effetti tutte microfonate e con strani orologi che sembrano uscire dal polso più che esservi poggiati sopra.
Immaginiamo ancora per un secondo che proprio da quel polso sorga una olografia ricca dei più svariati contenuti tali da consentire a tutti coloro che sono sotto il nostro sguardo di entrare con l’immediatezza di un clic nella gestione di tutti i servizi di quella città che stiamo qui fantasticando, magari per scambiare un documento, stipulare un contratto, fare una prenotazione in albergo o la spesa alimentare ovvero per consentire dACQUAi fruire di tutti i mezzi possibili di una super mobilità integrata in grado di spostare ciascuno in poco tempo, immaginiamo in 15 minuti, da un lato all’altro della città, se occorre con il dovuto supporto metereologico.
Potremmo continuare ad immaginare cose di questo tipo forse all’infinito, ma ora riapriamo gli occhi e ritorniamo “a terra”.
Ecco, forse per qualcuno di noi ora sarà finito un sogno per altri un incubo, ma indipendentemente da ciò è appena il caso di convenire che questo viaggio emotivo che abbiamo appena condiviso non ha nulla di onirico, e che le cose che ci siamo qui immaginate sono solo una piccola parte di un grande disegno politico culturale che prende il nome di città intelligente.
Un progetto in apparenza solo di matrice urbanistico ambientale, ma nella sostanza di natura sistemica, su cui si stanno impegnando risorse finanziarie e intellettuali di particolare importanza come è per giunta comprovato dai numerosi esempi di smart cities già in essere in diverse parti del mondo e che con buone probabilità diventeranno il punto di approdo dell’intero pianeta.
Si pensi a tal riguardo che quando nel 2016 Sadiq Khan fu eletto sindaco di Londra, uno dei suoi primi progetti fu proprio quello di trasformare la città in una smart city, investendo da un lato sulle nuove tecnologie, dall’altro su infrastrutture sostenibili come ad esempio Cross rail, il progetto di una nuova rete metropolitana della città che in parte è entrato in servizio proprio quest’anno.
Per accelerare la trasformazione di Londra in una smart city questo lungimirante Sindaco ha pertanto istituito lo Smart London Board, un think tank aperto a esperti provenienti da mondi differenti, dall’industria alle università, incaricato di elaborare un progetto innovativo che rivoluzionasse la città negli anni a seguire.
Oggi, a cinque anni di distanza, Londra è la prima smart city al mondo.
Questa è la conclusione cui giunge la “Top 50 Smart City Governments”, la classifica delle prime 50 smart city elaborata dall’Eden Strategy Institute, la società di consulenza specializzata proprio nello studio delle città del futuro.
Una classifica che posiziona Londra al primo posto, seguita nelle prime dieci posizioni da Singapore, Seoul, New York City, Helsinki, Montreal, Boston, Melbourne, Barcellona, e Shanghai.
Questo solo per confermare come sia proprio vero che per vedere bisogna avere visioni, tanto che le storie di queste città rappresentano oggi le migliori best practice internazionali di come tali grandi metropoli hanno saputo trasformarsi investendo in infrastrutture moderne e sostenibili.
A questo punto, come si usa dire entriamo, però, in medias res, e facendo un passo indietro cerchiamo di capire da dove siamo partiti, dove ci troviamo e dove con ogni probabilità arriveremo.
Cominciamo con il riferire che il tema dell’intelligenza artificiale e, più in generale, il come questo possa urbanisticamente applicarsi ad una città, nelle sue più ampie declinazioni sia simboliche sia allegoriche sia geografiche, è un tema al tempo stesso affascinante e delicato.
La città, e soprattutto i suoi modelli edilizi, hanno infatti da sempre rappresentato l’ubi consistam di una civiltà e del suo tempo fino al punto da poterci consentire di affermare che della città l’urbanistica, se vogliamo, è sempre stata la sua morale.
L’incipit di un’epoca si coglie, ad onor del vero, molto facilmente osservando la piantina di una città più di quanto non si possa al contrario comprendere dalla moltitudine delle sue leggi.
È nel segno di questa inclinazione della città che un brillante narratore come Italo Calvino, che sulla città ha scritto pagine indimenticabili, ci aveva già in passato avvertiti che di essa non si godono le sette o le settantasette meraviglie, ma le risposte che saprà dare a una nostra domanda.
Non possiamo in questa sede ripercorre i modelli urbanistici che hanno attraversato la storia dell’umanità, dal Neolitico ad oggi passando per le città greche e romane, ma possiamo senz’altro convenire sul fatto che negli ultimi due secoli, il modo di intendere il governo del territorio si è evoluto di pari passo con l’evoluzione della civiltà industriale, a cominciare dalle misure a tutela dell’igiene dei centri abitati sempre più utilizzate per scongiurare i pericoli sanitari derivanti dalla prima industrializzazione, evolvendo verso l’edificazione completa nei centri urbani, soprattutto per ragioni di coesione sociale, fino a giungere, più di recente, alla ricerca di modelli smartness dell’uso del territorio.
Ebbene, l’idea di città intelligente nasce proprio sul finire di questa evoluzione industriale intorno agli anni Duemila assumendo, a livello globale, e in prima istanza, le vestigia di una di città ad alto contenuto di automazione dove soprattutto le c.d. ICT avrebbero fatto la differenza, per poi via via affrancarsi, negli anni successivi, in favore di una etimologia larga, inclusiva, sistemica e trasversale in grado di attrarre e risolvere al tempo stesso – concettualmente in radice e operativamente in prassi – l’intreccio e la sovrapposizione delle varie dinamiche urbane e sociali post industriali con quella certa impronta deregolatorio/federale che nel frattempo prendeva abbrivio un po’ in tutto l’Occidente.
Si trattava, quindi, di attrarre, risolvere ed in particolare di gestire la fusione non soltanto degli interessi urbanistici in senso stretto, ma anche delle istanze esterne differenziate e locali, nell’ottica di una ricerca di bilanciamento di ogni più ampio profilo del governo del territorio nessuno escluso – una esatta «odernación del territorio» per usare una espressione della Costituzione spagnola –, dall’edilizia all’urbanistica, dalle reti ai servizi pubblici, dall’uso degli strumenti informatici alle modalità partecipative nel solco di quella logica incorporazionista dell’urbanistica che è stata per giunta da subito sposata dalla Corte costituzionale investista di chiarire in parte qua il nuovo corso in Italia inaugurato dal Titolo V.
Detto in altri termini, le complessità che si stavano storicamente, sociologicamente e giuridicamente presentando in questo scorcio di tempo avrebbero dovuto favorire, come in verità hanno davvero favorito, l’ingresso di quel nuovo paradigma urbanistico-sistemico proteso verso l’idea, come direbbe Carlo Ratti, di una rinnovata senseable city che à la Maurizio Ferraris potesse in qualche modo lasciare l’homo faber nel capanno degli attrezzi favorendo una nuova documanità in grado di guardare al futuro non più e soltanto come una proiezione del passato.
L’idea, quindi, di una città bensì intelligente in quanto capace però di inverarsi nei termini di un ecosistema davvero dinamico e proattivo in cui pubblico, privato e cittadini contribuiscano in modo sinergico al raggiungimento di un progresso continuo ed ecocompatibile che in qualche modo possa farsi chiave di volta di quella linea culturale green friendly caldeggiata nei migliori studi a trazione multidisciplinare che si stanno da tempo occupando del tema e affacciando nel panorama scientifico nazionale come, ad esempio, quelli sulle smart cities promossi e curati in Italia da Giuseppe Franco Ferrari.
È proprio da questi studi che emerge difatti con chiarezza la stretta interdipendenza tra le varie sensibilità professionali a dimostrazione della esistenza di una irriducibile complex science sottesa al tema in parola che, in buona sostanza, oggi ancor più di ieri, ci rivela, pandemia durante, come gli esseri umani siano davvero svantaggiati senza la tecnica e le tecnologie delle più svariate ramificazioni, e come le ragioni di stampo etico-giuridiche sarebbero inutili e mal poste se venissero solo declinate, nell’epoca dell’internet delle cose, in modo del tutto separato da molte altre di natura scientifica, architettonica o ingegneristico-matematico, o ancora medica, o socio-economica per non dire climatico-ambientale o demografica.
E in effetti, se ci soffermiamo sui follow up più recenti dedicati proprio al tema del clima e dell’ambiente, in senso ampio inteso, ci rendiamo conto che oltre la metà della popolazione mondiale oramai vive nei centri urbani, un numero di persone che cresce senza soluzione di continuità e che, entro il 2050, arriverà ai due terzi della popolazione mondiale.
In particolare, secondo le stime ONU, entro il 2050 la popolazione della Terra sfiorerà i 9,7 miliardi di abitanti e, di questi, il 68% sceglierà di spostarsi nei centri urbani, con un conseguente ed inevitabile aumento dei consumi di energia, della produzione di rifiuti e delle emissioni di gas serra.
Si tratta di numeri impressionanti che non possono non condurci nella direzione auspicata di un ripensamento del modus vivendi della città come peraltro segnalato da quei pensatori più visionari, come Ferdinando Menga, che non per un caso ha, senza mezzi termini, inquadrato la questione che ci occupa nei termini di una vera e propria emergenza del futuro di stampo intergenerazionale.
Rendere, dunque, le grandi città più vivibili, investendo sulla rigenerazione dell’intera filiera urbanistica, sui più autentici alfabeti emotivi della cittadinanza come lo sono le aree interne dei piccoli comuni e dei borghi abbandonati, mettendo per l’effetto le tecnologie più innovative al servizio del contesto e delle persone, incentivando allo stesso tempo sistemi di mobilità anche condivisa che riducano l’inquinamento aumentando la qualità dei servizi di trasporto, sono solo alcune delle sfide che le città nel mondo stanno affrontando proprio in questi anni.
Non a caso nel nuovo smart index 2020 le infrastrutture delle città sono esaminate tenendo nel debito e rigoroso conto sempre i quattro specifici driver della:
- a) sostenibilità, ovvero trasporto, energia e ambiente;
- b) resilienza, ovvero la capacità di governare i processi di stress derivanti dai più svariati eventi; c) accessibilità, cioè la facilità di accesso alle reti di comunicazione fissa e mobile;
- d) inclusività, vale a dire la possibilità di partecipare da parte dei cittadini alle scelte urbanistiche.
Così come non è un caso se il più prestigioso dello IESE Cities in Motion Index (CIMI) del Center for Globalization and Strategy, metta in fila ulteriori e fondamentali parametri da cui ricavare l’intelligenza di una città anche in termini di sensibilità, quali:
l’economia
la cultura
la coesione sociale
la governabilità
l’ambiente
la mobilità
la diffusione internazionale
la tecnologia
la programmazione urbana.
Sia chiaro: questi parametri, al di là dei numeri e dei dettagli che possono essere studiati con più accuratezza attraverso la lettura di questi complessi dossier, ci spiegano soprattutto una cosa, val a dire che la città non è mai una monade isolata e avulsa dai suoi cittadini, ma è sempre un progetto collettivo che richiede uno sforzo condiviso, deciso ed ineludibile.
Del pari, non basta solo evidenziare l’importanza di questi cluster quanto piuttosto occorre ribadire la necessità che gli stessi vengano valutati con scrupolo umanistico e implementati in modo olistico proprio al fine di evitare che quel rischio del clivage sempre in agguato nei grandi processi di cambiamento faccia poi sì che si verifichi, a causa del volatile dispositivo tecnologico implicato e delle spinte commerciali ad esso connesse, non una soluzione performante della città, ma una irrecuperabile eterogenesi dei fini come quella, a tratti distopica, della non più città o della città stupida alla Rem Koolhaas o della città degli esclusi provocatoriamente denunciata, e non a torto, da Fabio Ciaramelli.
Ciò detto, e salvo a farlo a mo’ di divertissement, è ora evidente che sarebbe azzardato prevedere come le cose che abbiamo qui affrescato potranno trovare concreta realizzazione.
Su una prospettiva possiamo tuttavia senz’altro spingerci, e cioè sul fatto che, come ci ricorda Melvin Kranzberg, le tecnologie non sono né buone né cattive, ma neppure neutrali; e che, proprio per questo, dipende da tutti noi decidere come utilizzarle per il nostro benessere.
D’altronde, come da tempo va insinuando la saggia Pollicina dell’età dolce di Michel Serres arriveremo ben presto ad un punto di non ritorno, e ciò accadrà con ogni probabilità, come ben ci riferisce Luciano Floridi, quando comprenderemo che l’Artificial Intelligence prima ancora d’esser una nuova forma di intelligenza è una inaggirabile nuova forma di capacità di agire dell’uomo.
Dunque, se è plausibile presagire che si realizzerà presto questo scenario, allora è altrettanto ragionevole pensare che non sia un errore predisporsi ad assumere da subito quella postura intellettuale che meglio si confà a chi voglia articolare i temi della città del futuro nel segno di quel design at large di matrice anglosassone.
Un design che, come noto, costruisce il futuro nella consapevolezza popperiana della necessità di selezionare le infinite possibilità in esso presenti e, pertanto, un design che, come ci spiegherebbe Herbert Simon, non si limita a soppesare le poche cose così come oggi sono sotto i nostri occhi quanto piuttosto ad immaginare le tante cose che sono nella nostra mente e come potrebbero realizzarsi un domani.
Dopo tutto il futuro è ora e, se non volgiamo farci cogliere impreparati, vale sempre la pena di tenere in conto le visionarie parole pronunciate in Dallo Steinhof da un insuperato Massimo Cacciari che suggeriva di non dimenticare mai, a tal proposito, che laddove dobbiamo andare già dobbiamo essere.