VIVA LA MAMMA! LE EMOZIONI INTELLIGENTI DI MARTHA CRAVEN NUSSBAUM
PIER MARRONE
Di qualcuno devi pur fidarti, no? Infatti, se hai bisogno di occuparti del bene di qualcosa di specifico, dovresti andare da qualcuno che ha le corrette conoscenze vere giustificate relativamente a quell’oggetto ed è considerato un esperto nel campo di cui fa parte quell’oggetto. È un argomento che nella storia umana è stato avanzato innumerevoli volte e che è a fondamento di tutte le critiche epistocratiche alla democrazia. L’epistocrazia è quella teoria che sostiene che dovrebbero essere gli esperti a condurre il governo della cosa pubblica, ma l’argomento dovrebbe avere una portata più generale e forse addirittura universale. Nessuno di noi può sapere tutto e quindi se devo riparare la caldaia dell’acqua calda non faccio una telefonata alla mia collega che si occupa di letteratura irlandese, perché non ho evidenze sufficienti che sia in grado di riparare la mia caldaia, che si è guastata nel momento più inopportuno.
Così capita che tendiamo a fidarci dei colleghi per quanto riguarda le valutazioni professionali. Perché non dovremmo comportarci proprio così, almeno in assenza di precedenti indicazioni contrarie che ci facciano apparire come dubbi i giudizi dei colleghi che si sono guadagnati la nostra fiducia? Li immaginiamo che, grazie alle loro fatiche durate anni e anni, abbiano appreso l’arte del giudizio ponderato e siano anche, almeno qualche volta, capaci di esprimerlo in una forma sintetica e efficace. Queste sono state le considerazioni di sfondo che devono avermi attraversato la mente in maniera in gran parte inconsapevole alcuni mesi fa quando sono andato a fare un giro in libreria e ho visto negli scaffali della sezione “filosofia” un volume di Martha Craven Nussbaum, la filosofa più famosa al mondo, tradotta in molte lingue e autrice alluvionale di molti ponderosi saggi.
Il libro si intitola L’intelligenza delle emozioni e la quarta di copertina riporta il giudizio di un collega, Marco Vozza, che avevo conosciuto parecchi anni fa e che certamente è conosciuto e apprezzato nei nostri giri di professori di filosofia. Vozza qualificava il saggio sulle emozioni intelligenti o sull’intelligenza emozionale (ancora non avevo capito di cosa si sarebbe trattato) come “Il più importante contributo contemporaneo alla teoria delle emozioni”. Difficile resistere a questo qualificato endorsement, tanto più che di qualcuno, appunto, devi pur fidarti anche nel tuo campo specifico.
Qui, però, devo confessare un mio pregiudizio che risale a alcuni anni fa. Allora: avevo avuto tra le mani un altro saggio di Martha Craven, pardon: Martha Nussbaum, che trattava un tema che prometteva di essere interessante, ossia il ruolo delle emozioni nella politica. Per chi come me è convinto che la politica sia una razionalizzazione della guerra, condotta per fortuna senza le armi, questo non può non essere un tema del più grande interesse. Per quanto possiamo essere razionali, sono pur sempre le emozioni e gli interessi che ci guidano (e ci determinano, secondo me). E quando parliamo di razionalità, stiamo parlando di strategie e procedure che sono messe al servizio dei nostri interessi e delle nostre emozioni, almeno nella misura in cui queste possono essere determinanti nel raggiungimento dei nostri migliori interessi. Come sosteneva David Hume, la ragione è, ed è necessario sia, schiava delle passioni, ossia della determinazione dei nostri interessi e dei nostri scopi. Su questi interessi e questi scopi la ragione non ha nulla da dire, almeno sino a quando alcuni tra questi non entrino in palese contraddizione reciproca. La ragione si esercita, invece, sulla scelta dei mezzi necessari a raggiungere i nostri scopi, quelli che appaiono maggiormente idonei a dare soddisfazione ai nostri interessi e a farci vivere emozioni positive.
Capirete come fossi, a partire da queste premesse, fortemente attratto da un libro che Martha Craven, pardon: Martha Nussbaum, aveva intitolato Emozioni politiche. Il titolo era interessante, ma il sottotitolo forse lo era ancora di più: perché l’amore conta per la giustizia. Io, infatti, penso che l’amore non conta per la giustizia e non dovrebbe, anzi, contare. L’amore per me è discriminatorio e mi pare difficile amare troppe persone, senza contare che l’ideale di amare l’umanità mi appare insensato, ma anche se mi apparisse sensato, troverei invece ancora insensato introdurre nei codici legali che regolano le nostre vite in comune delle norme che ci imponessero di amare chicchessia. Quindi, pensavo che MN mi avesse lanciato una bella sfida, perché mi avrebbe proposto delle idee molto diverse dalle mie, che, però, in effetti feci fatica a trovare, non in quanto diverse dalle mie, ma in quanto idee di un qualche spessore teorico.
Su quel libro scrissi due articoli. Uno lo proposi a una importante rivista filosofica de Il Mulino. Il direttore della rivista (del cui comitato faccio parte) mi guardò perplesso mentre gli esponevo le perplessità che avevo su MN e il taglio critico del mio articolo. Non disse quasi nulla, ma mi invitò a guardare le pareti della sede della casa editrice dove ci trovavamo: pullulava di foto di MN e dei suoi libri. Non che non le avessi viste, ma avevo pensato che, anzi, un articolo critico su un’autrice così di punta potesse suscitare un qualche utile dibattito. Povero ingenuo. Uno dei revisori anonimi ai quali l’articolo venne sottoposto mi rimproverò di non aver dimostrato che l’amore non conta in politica, mostrando una notevole confusione mentale sulla divisione dei compiti, perché a me, come critico di una tesi, non spetta l’onere di nessuna prova, se non di quelle che porto a sostegno del fatto che la tesi che critico è mal fondata o infondata. Insomma: l’impressione che ne ricavai fu che il mio articolo non avrebbe trovato accoglienza presso una rivista della casa editrice italiana di riferimento di MN, così lo sottoposi a un’altra rivista, che alla fine lo pubblicò.
Io non so se il mio sia stato un caso isolato, credo però di sapere che gli articoli di critica alla figura evidentemente monumentale di MN sono quasi totalmente assenti. Non so bene che cosa questo significhi. In privato molti mi confermano giudizi negativi o complessivamente o settorialmente relativamente al monumento, ma non li pubblicano mai. Perché? Una risposta la diede il direttore della rivista alla quale per primo sottoposi il mio articolo, che disse che degli autori che non piacciono, semplicemente non occorre parlare. Ma io penso che sia vero precisamente il contrario. È troppo facile scrivere qualcosa per dire che sei d’accordo con qualcuno. Non mi sembra sia poi questa grande fatica. E perché allora farlo, come continuamente si fa, infarcendo gli elogi per i viventi con caute e paludate e iper-prudenti osservazioni che non sollecitino troppo la permalosità di autori e editori? Le ragioni sono più di una. Una è il nudo fatto che occorre pubblicare per la propria carriera e i propri scatti stipendiali. Un’altra è che l’università, come tutte le burocrazie, è un ambiente tendenzialmente conformistico, dove atteggiamenti e prese di posizione fuori dal coro non sono viste di buon occhio e possono avere delle ripercussioni sulle proprie aspettative di avanzamento.
Questi sono alcuni dei motivi, ma non tutti. Non meno importante è il fatto che MN è una filosofa che può andare bene a tutti. Non ha espresso mai delle tesi né fortemente né minimamente controverse, ma si è resa protagonista di una filosofia all’acqua di rose, troppo profumata per dare fastidio, se non a chi non ama i toni melensi e l’esibizione dei presunti propri buoni sentimenti, esibiti a scopi narcisistici, con un narcisismo però del tutto innocuo e che qualche volta fa perfino tenerezza. Perfino quando in un altro libro ha espresso il suo amore per i peti (lo ha fatto davvero!) viene da pensare che MN potrebbe essere un brand di deodoranti per i bagni. Volevo però avvisarvi, a scanso di equivoci, mi dovesse mai capitare l’occasione non entrerò mai in ascensore con MN.
Così per mostrarci quanto le emozioni sono intelligenti, MN ci riversa addosso per più di cento pagine il lavoro del lutto conseguente alla dipartita della propria mamma sommergendoci di informazioni epocali. Ad esempio, che appresa della morte della propria mamma e dovendo fare una conferenza, guarda caso sulle emozioni “non ero, come al solito, brillante e padrona di me stessa, o meglio non solo così; ero allo stesso tempo una persona invasa dal mondo [evidentemente prima o MN era estranea al mondo, oppure era stata lei a invadere il mondo. Mi chiedo, al caso, quanti se ne siano accorti]”. Così mentre ci informa che, precipitatasi in ospedale dall’Irlanda, trova la mamma, molto amata dalle infermiere, con la sua vestaglia più bella e il rossetto, che lei voleva sempre perfetto, non manca di dirci che per giorni ha pianto in maniera straziante.
Qualche giorno fa parlavo con un infermiere che mi informava che quando un paziente muore lo “infiocchettano” ossia gli legano un lenzuolo attorno alla testa per tenergli chiusa la bocca, che rimanendo aperta con il rigor mortis non farebbe una bella impressione. Il rigor mortis inizia qualche ora dopo la morte e si sviluppa completamente di solito entro 12 ore fino a durare anche per circa un giorno e mezzo, dopo di che i processi di decomposizione del cadavere cominciano a farsi evidenti e il cadavere non può certo essere lasciato nel suo letto. Quindi se MN è arrivata entro le 36 ore dalla morte della mamma, come sembra di capire, le infermiere dovevano averla già “infiocchettata”, pulita e ripulita, e anche imbellettata.
Nei processi della morte non c’è nulla di dignitoso e parlare del cadavere della propria mamma come di una sorta di bambolina mi sembra leggermente disonesto. Ma questo forse sarebbe la cosa di minor peso di fronte a una prima e definitiva e più importante conclusione che MN teoretizza a partire dallo strazio della dipartita dell’anziana genitrice, ossia che le emozioni implicano “sempre il pensiero di un oggetto, associato a quello della rilevanza o importanza dell’oggetto stesso: esse implicano sempre stima e valutazione”. Ma questa è davvero una tesi così importante o non piuttosto un banale truismo? Voglio dire: qualsiasi emozione implica un’intenzionalità, ossia il fatto che è diretta verso qualcosa, solo che questo qualcosa può essere inesistente (ad esempio nel caso io ami gli unicorni) oppure essere indeterminato (ad esempio quando siamo vittime di attacchi di panico) oppure possono essere indotte da eventi patologici che accadono nel mio corpo, ad esempio un’infiammazione cerebrale che può causare stati simili alla schizofrenia. E per quanto riguarda lo schizofrenico, anche lui ha delle emozioni persecutorie indirizzate a degli oggetti. Io ad esempio a lungo sono stato oggetto delle attenzioni minacciose di un compagno di studi che soffriva di schizofrenia, il quale mi bloccava per strada o mi seguiva con un’aria poco rassicurante. Tutto finì quando lo presi di petto e gli dissi che se mi avesse fermato un’altra volta gli avrei rotto una gamba. Quale tra noi due aveva un corretto contenuto conoscitivo delle proprie emozioni? Io ero una minaccia inesistente per questo uomo malato? A un certo punto deve avere avuto il giusto contenuto rappresentativo di un futuro possibile, ma antecedentemente a questo io ero realmente una minaccia per lui? Ovviamente no.
Si dirà che il mio esempio è fuorviante, perché usualmente noi non siamo malati di mente. È vero, tuttavia vorrei notare come spesso anche noi incappiamo in errori del genere, ad esempio quando pensiamo che ci sono persone che ci detestano, mentre a malapena sanno della nostra esistenza o, più spesso forse, quando crediamo che alcune persone ci siano amiche nel nostro ambiente di lavoro o in altri ambiti concorrenziali (come potrebbe essere la politica) mentre ci considerano dei concorrenti. Cos’è un contenuto cognitivo allora? Un modo per orientarsi nel mondo, certamente, ma questo contenuto può essere sbagliato. Ossia, dire che le emozioni sono orientate cognitivamente significa dire una banalità, perché il fatto stesso che siano state selezionate dall’evoluzione le rende tali in più di un senso, ma invece non rende vero il contenuto di questi strumenti emotivi, che infatti possono essere falsi.
Pagine e pagine per ripetere questo truismo da parte di MN, ma a quale scopo? Non è facile comprenderlo, se non si comprende uno degli artifici retorici piuttosto frequenti nelle opere di MN (almeno in quelle che io conosco. Forse esisterà al mondo qualcuno, oltre a MN, che ne abbia letto tutte le opere. Vi dico subito che io non mi candido a questo prestigioso ruolo): creare un bersaglio generale sul quale tutti possono concordare, senza entrare nei dettagli per identificarlo in maniera precisa. Così accade anche per chi insinuerebbe che le emozioni non siano una struttura cognitiva (io preferisco parlare di strutture orientate all’intenzionalità. Mi è difficile capire come l’amore di una madre per il proprio neonato sia una struttura cognitiva, mentre facilmente comprendo come orienti a comportamenti evolutivamente vantaggiosi), ma siano qualcosa di prossimo all’irrazionalità o siano contrarie alla ragione.
Ora, in ambito di filosofia contemporanea, ma lo stesso varrebbe almeno a partire dalla filosofia moderna, chi sostiene una posizione di questo genere non so chi sia. Uno, che fosse parecchio a digiuno di filosofia potrebbe dire che i colpevoli potrebbero essere individuati nei cosiddetti filosofi razionalisti, ma nessuno tra di loro ha avuto una posizione di questo genere. Il capofila di questo gruppo di filosofi, così imprecisamente individuato, ossia Descartes è anche l’autore di un libro importantissimo, che si chiama Le passioni dell’anima, che è un’analisi dettagliata del ruolo delle emozioni nella vita umana. Non se ne parla mai come di ciò che è contrario alla ragione. Chi riteneva che le emozioni avessero degli effetti distorcenti da tenere sotto controllo (ma chi non potrebbe sottoscrivere un’opinione del genere?) erano i filosofi Stoici, il cui precetto principale per altro era “vivere secondo natura” (secondo quello che loro consideravano natura, che andrebbe probabilmente scritto con la maiuscola). Non è fuori luogo ricordarlo, perché MN qualifica la propria teoria come neo-stoica, con un’importante clausola. Per MN infatti gli Stoici avevano una concezione svalutativa delle emozioni, mentre lei, well-educated e high-brow, ne pensa soprattutto bene e ne pensa molto bene quando sono coinvolte delle donne, che come ci informa non sono soggette alla rabbia come gli uomini (chissà sulla base di che cosa è capace di dirlo).
Questa della rabbia è un’esemplificazione importante, perché gli Stoici non è del tutto vero avessero un’opinione generalmente negativa delle passioni. Sarebbe piuttosto corretto dire che per gli Stoici la maggior parte degli uomini è generalmente posseduta da emozioni negative, come la rabbia appunto. Sono queste le passioni che devono essere emendate e controllate. Ma ci sono altre passioni che invece anche per gli Stoici negative non sono affatto, come la gioia. Il saggio stoico si esercita a sopprimere le emozioni negative, come la rabbia appunto, ma pratica quelle positive, come ad esempio la gioia. E il precetto di vivere secondo natura è l’idea che l’universo è retto dal Logos. In questo universo nulla accade per caso, ma tutto è giustificato in maniera tale che nulla è realmente negativo. Quanto noi giudichiamo come negativo, lo è solo per una distorsione prospettica del nostro giudizio, mentre quando noi esercitiamo il retto giudizio, tutto ci appare giustificato.
Quindi, MN individua due bersagli fittizi: uno stoicismo che non c’è e un razionalismo che non è mai esistito. Anzi: MN, come spesso le capita, va oltre e esagera (perché non farlo del resto, dal momento che nessuno la contesta?) e accusa il razionalismo di aver espulso le emozioni dal pensiero. Ma questo è semplicemente falso. Ad esempio, il famoso cogito cartesiano è la semplice affermazione della presenza del pensiero di cui fanno parte tanto ciò che potremmo forse chiamare ragione quanto ogni altro tipo di pensiero. Quindi, sarebbe del tutto sensato dire dal punto di vista del più rigoroso razionalismo cartesiano: “provo un’intensa rabbia, quindi penso, quindi sono”; o anche semplicemente “provo un’intensa rabbia, quindi sono”.
Né mancano pagine e pagine per spiegare che anche gli animali pensano e hanno emozioni, cosa che oramai viene data per acquisita dall’etologia e dalla psicologia animale almeno dagli anni Settanta del secolo scorso. Tutto condito con la sicurezza di chi esibisce una grande idea. Certo, l’idea non è affatto piccola ed è, anzi, della più grande importanza per le sue implicazioni (ad esempio, perché potrebbe costringerci a riconoscere lo status di “persone” ad alcune specie animali, con tutto quanto di positivo potrebbe venirne in termini di inclusione etica e di inclusione nelle nostre categorie giuridiche), ma la scoperta di questa nuova configurazione morale, conseguente alla sagace scoperta che gli animali hanno delle emozioni e praticano i territori del pensiero non si deve certo a MN. Anche la polemica di MN verso il comportamentismo psicologico (ossia verso l’idea che noi non possiamo conoscere altre menti, bensì solo e esclusivamente altri comportamenti) è una polemica molto datata e non più frequentata nel pensiero contemporaneo.
Avrei voluto qualcosa di più da un contributo che ci viene descritto come il più importante contributo contemporaneo a una teoria delle emozioni, e non sapere che cosa MN cenava durante i giorni più prossimi al lutto che pare abbia colpito solo lei (non vedo altra motivazione per affliggerci per più di cento pagine con la mamma di MN. Perfino lei si sarebbe ribellata, mi viene da pensare). Ma, in realtà, avrei voluto qualcosa anche di meno da MN, che mi sono convinto sia però impossibile da ottenere; avrei voluto che MN mi parlasse meno di sé e più di idee, implicazioni, esperimenti, più di fatti e meno delle sue soggettive interpretazioni di una moltitudine di opere artistiche da Dante a Proust alle noiosissime pagine su Mahler, che hanno probabilmente qualche pregio, ma soprattutto l’insopportabile difetto di far parlare MN e non gli autori, come quando MN rimprovera a Dante di non avere una visione politica liberale.
Avrei voluto anche, perché no?, meno pagine e maggiore capacità di sintesi, ma proprio questo avrebbe probabilmente significato chiedere a MN di comprimere il suo narcisismo. Gli Stoici identificavano il cosmo con il Logos. Se questa teoria è vera, allora significa che anche l’opera di MN, per non parlare della sua stessa esistenza, che io mi auguro si protragga a lungo, è giustificata. Che io non riesca a comprendere in che modo, dipenderà dalla mia prospettiva personale assolutamente parziale, ma, se potessi dare un consiglio non richiesto a MN, le direi che le monadi hanno porte e finestre e anche scale e che il loro punto di vista non coincide con l’universo. Né l’universo coincide con il nostro piccolo ego, questo è certo.
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA Endoxa novembre 2021 Intelligenza Pier Marrone