LE METAMORFOSI DELL’AMORE
FABIO CORIGLIANO
Nel 1816 Wolfgang Goethe e Charlotte Kestner, nata Buff, si incontrano a Weimar dopo più di quarant’anni dal loro primo incontro nel 1772 a Wetzlar, nell’Assia, dove il giovane Goethe, avviato alla carriera legale per volontà del padre, si trasferì per iniziare la pratica presso la locale Corte Imperiale di giustizia.
La storia è piuttosto nota: Goethe frequenta Charlotte (detta Lotte) e altresì il suo promesso sposo, Johann Christian Kestner, con il quale altresì sviluppa sentimenti di fraterna amicizia. Lotte e Wolfgang iniziano a frequentarsi tutti i giorni, approfittando degli impegni lavorativi di Johann Christian. Infatti mentre il promesso sposo di Lotte continua a lavorare indefessamente presso la stessa Corte Imperiale in cui anche Goethe avrebbe dovuto impegnarsi per portare a termine il suo praticantato, i due “amici” preferiscono passare le loro giornate all’aria aperta. Il giovane Wolfgang, com’è evidente, non ha alcun tipo di vocazione per la carriera legale, e lo dimostra attraverso la sua decisa assenza dalle aule del tribunale, privilegiando invece l’esposizione ai sentimenti che gli derivano dal godimento della natura e alle emozioni che giorno dopo giorno inizia a provare per Lotte.
Lotte e Johann Christian assistono alla “costruzione di un amore”, per utilizzare l’espressione molto evocativa di un brano di Ivano Fossati, che poi, scappato da Wetzlar, Goethe consegnerà alla storia attraverso il romanzo I dolori del giovane Werther.
Il “triangolo” che si viene a creare fra i tre giovani è molto singolare: a quanto pare, dopo aver compreso le emozioni di Wolfgang, i due promessi sposi decidono di suggellare la loro amicizia di gruppo donando all’amico forestiero una silhouette di Lotte e altresì un nastro rosa tolto all’abito indossato dalla stessa durante il primo incontro con il giovane Goethe — pur non prevedendo che la reazione di Goethe sarebbe stata molto più audace di quanto i due “fidanzati” si sarebbero mai potuti attendere. Alla fine dell’estate, infatti, nel corso di una delle ricorrenti passeggiate, Wolfgang bacia sulla bocca Lotte, che non può non confessare al futuro marito l’ardito gesto, motivo per il quale nella prima metà di settembre Goethe si vede costretto a lasciare Wetzlar, evidentemente cosciente del disonore che aveva arrecato all’amico, o forse incapace di comprendere il motivo della scelta dell’amica, che non aveva mai disdegnato l’amore platonico di Wolfgang, opponendogli solamente la già avviata promessa di matrimonio, o forse ancora nel timore di un cedimento della giovane Löttche, che lo avrebbe costretto a intraprendere una seria relazione con la donna “sottratta” all’amico fedele.
Lotte sposerà Johann Christian avendone quattro figli (i bambini avuti complessivamente dalla coppia sono stati molti di più, ma solo quattro sono sopravvissuti), mentre Wolfgang dopo due anni pubblicherà il libro più famoso e letto dell’epoca, avviandosi a diventare uno tra i più noti e osannati scrittori tedeschi del suo secolo, riverito e celebrato, amato sino alla follia da quei lettori che per emulare le sorti del giovane Werther misero fine alla loro vita. Dopo varie peripezie Goethe si trasferisce a Weimar nel 1775, ove rimane per il resto della sua vita (salvo un periodo di due anni dedicato al viaggio in Italia), e dove sposa Christiane Vulpius, da cui ebbe cinque figli, dei quali solo August sopravvisse.
Esattamente quarantaquattro anni dopo la repentina fuga notturna da Wetzlar, dunque, Lotte e Wolfgang si incontrano nuovamente a Weimar.
Vi sono alcuni documenti e memorie che si riferiscono a quell’incontro, ma è il genio di Thomas Mann ad averlo reso, a sua volta, un’opera d’arte, nel suo Carlotta a Weimar, ed è qui che si innesta questa piccola ricostruzione di come l’”altare di sabbia/in riva al mare” (per tornare all’evocazione di Ivano Fossati, mescolando volutamente sacro e profano) viene distrutto dalla forza letale delle onde degli eventi. Non sembra del tutto fuori luogo ricordare la densa immagine che Leibniz fornisce del “muggito” prodotto dal moto ondoso nei Nuovi saggi sull’intelletto umano: «Per intendere questo rumore bisogna che se ne percepiscano le parti che lo costituiscono, cioè il rumore di ogni singola onda, benché ciascuno di questi brusii non si faccia conoscere che nell’insieme confuso di tutte le altre onde, cioè dentro questo muggito stesso, e non potrebbe essere notato, se questa onda che lo produce fosse sola. Perciò bisogna che si sia turbati, almeno un poco, dal movimento di ogni singola onda e che si abbia una qualche percezione di ciascuno di questi rumori, per quanto lievi siano, o altrimenti non vi sarebbe neppure quello di centomila onde, perché centomila niente non possono fare qualche cosa».
Sono le piccole percezioni che formano le impressioni, quel “non so che”, come si esprime Leibniz, che produce i nostri ragionamenti, chiari nel loro insieme ma confusi nelle loro singole parti, quei piccoli disordini che formano il grande ordine. Leibniz continua a conclude: «In conseguenza di queste piccole percezioni si può anche dire che il presente è carico del passato e gravido dell’avvenire, che tutte le cose cospirano fra di loro e che nella più piccola delle sostanze, occhi penetranti, come quelli di Dio, potrebbero leggere la connessione di tutte le cose dell’Universo».
I singoli piccoli disordini lasciano turbati e perdurano nella composizione del grande ordine che è uno, ed è dato dalla connessione di tutte le cose dell’Universo. Una vita. Una vita che è complessivamente un ordine in cui il presente è carico del passato e gravido dell’avvenire, una vita come quella del Goethe sessantasettenne che incontra nuovamente Lotte e nella ricostruzione manniana dell’avvenimento cerca di ricostruire i piani temporali della sua stessa esistenza.
È noto che Mann ha utilizzato atti e documenti ufficiali per “riscrivere” una parte della storia dell’incontro tra i due, ed è proprio a quella “riscrittura” che conviene riferirsi per comprendere il mistero dell’amore attraverso un tentativo di analisi che traendo spunto dalla riflessione leibniziana orora cennata, unisce in una direttrice fantastica Goethe, Thomas Mann e termina in un’osservazione interlocutoria sul senso delle qualità umane che si trova in filigrana tra le pagine di Paolo Godani, nel volume Tratti. Perché gli individui non esistono (Ponte alle Grazie/Salani, Milano, 2020).
Nella ricostruzione manniana, l’incontro finale tra Lotte e Wolfgang a Weimar viene preannunciato e presagito da una serie di incontri che Lotte è costretta di subire al suo arrivo. Giunta nella città in cui risiedeva Goethe, da poco vedovo, insieme alla figlia Lottina e ad una domestica, con la scusa di voler far visita alla sorella, Lotte viene coinvolta immediatamente in un turbinio di vivo interesse della cittadinanza per quella che non si esita a definire una celebrità. La musa del Werther, l’ispiratrice del grand’uomo, il modello di una delle storie sentimentali più diffuse e condivise nell’epoca del romanticismo è accolta al suo arrivo da una esasperata ed esasperante generale manifestazione di interesse che le impedisce di muoversi dall’albergo l’Elefante presso il quale alloggia. Ma se in un primo momento tutto questo maniacale interesse sembra disturbarla e quasi offenderla, la galleria di personaggi che riescono a colloquiare con lei, forse al di là delle sue intenzioni, pare fornire un contrappunto notevole al sentimento di apprensione e imbarazzo con il quale la stessa aveva salutato l’uscita del Werther, dal momento che Goethe vi aveva racchiuso una parte della sua vita e dei suoi sentimenti, donandoli “in pasto” al pubblico, senza preoccuparsi della reazione delle persone reali presenti nel romanzo e del contraccolpo che questa non richiesta notorietà aveva provocato loro.
Gli incontri che si susseguono sembrano anzi rinforzare il suo stesso amor proprio, consentendole di vincere la sua iniziale ritrosia, anche attraverso alcuni atti di accusa all’uomo-Goethe, di cui vengono snocciolate senza alcuna esitazione tutte le meschinità. All’amor proprio succede la denigrazione e il rimprovero: «per quarantaquattr’anni, caro signor dottore, dopo i diciannove anni che avevo allora, quel suo contentarsi è rimasto un enigma per me, ed un enigma tormentoso, perché dovrei nasconderlo? Accontentarsi dei ritratti, della poesia, del bacio dal quale, come dice lui, non nascono figlioli». Per quale motivo Goethe non aveva cercato di conquistare definitivamente il suo amore? Per quale motivo la Lotte del romanzo non aveva i suoi occhi, ma gli occhi neri di un’altra donna conosciuta successivamente? Come aveva potuto, Goethe, accontentarsi di non averla e desiderare altre donne?
È un senso di rivalsa quello che domina la mente e lo spirito di Charlotte Kestner, nata Buff.
Il fatto che Goethe si sia dimostrato così “infedele” al suo amore e alla sua stessa figura umana (gli occhi di Lotte nel romanzo) non la esimono dal credere di avere (ancora) un ruolo costante nella sua vita. L’amica di un tempo, come si descrive lei stessa, non può accettare che la sua stessa personalità, la sua stessa individualità, le qualità di cui è asseritamente portatrice e proprietaria si siano mescolate e disperse, come accade alle onde di Leibniz, pur producendo un ordine complessivo all’interno del quale Goethe pare sguazzare.
Lotte è convinta di poter vantare un diritto su Goethe, ed è questo lo spirito con il quale si accinge ad accettare l’invito del di lui figlio August a prendere parte ad un pranzo organizzato per festeggiare il suo arrivo in città. L’avere un diritto su Goethe fomenta la fantasia di Lotte, spingendola a indossare un abito al quale ha apposto tutti i nastrini rosa dell’antico abito, lasciandolo tuttavia sguarnito di quello che era stato donato all’antico amico, come a ricordare attraverso il simbolo dell’assenza di un elemento dell’abbigliamento, l’incompletezza della sua stessa figura — incompletezza dovuta all’enigma che ha presieduto alla sua vita negli ultimi quarantaquattro anni. Ci sarebbe da chiedersi chi dovesse sentirsi incompleto: Lotte o Wolfgang? Questa prerogativa però la fa sentire forte, dopo tutte le storie meschine che le sono state raccontate dai suoi ospiti sulla vita del Maestro e della sua famiglia. La meschinità dell’uomo di lettere e la solidità della persona comune.
È Goethe, in un colloquio con il figlio, a mettere in evidenza l’aspetto miserabile e vile del comportamento di Lotte: «dici che la visita fa chiasso in città? […] una faccenda pènible, anzi orribile. Il passato congiura contro di me insieme alla stoltizia per creare turbamento e disordine. Non poteva rinunziarci, la vecchia, e risparmiarmelo?». Alla risposta del figlio, che nel frattempo aveva già avuto un colloquio con la donna, nel corso del quale aveva scoperto che il motivo ufficiale della visita a Weimar era un incontro con la sorella, Goethe oppone un’aspra considerazione: «naturalmente: è a loro che fa visita…per golosità. Giacché è golosa di gloria, senza intuire come fama e infamia si sfiorano in modo penoso». Ed è in modo altrettanto penoso che la solidità tanto vantata da Lotte si converte in grettezza nelle conversazioni che precedono di qualche giorno il pranzo e a cui è dedicata più della metà del romanzo. Durante quei colloqui fama e infamia si sfiorano e la figura aulica di Lotte si tras-figura, assumendo le sembianze di una donna misera e bugiarda, infida e vile.
La prerogativa di Lotte si traduce quindi in un diritto vile sulla persona di Goethe, alimentato dal risentimento per il venir meno della sua centralità, per la perdita della sua singolarità, per la privazione di cui si sente vittima — pur essendo stata lei stessa, a conti fatti, ad averlo rifiutato e ad averne provocato la fugace partenza. Lotte si sente però insostituibile ed è possibile che, credendo di trovare davanti a sé lo stesso uomo di un tempo, ritenga di poter suscitare in lui gli stessi antichi sentimenti con la sua sola presenza.
Ma giunta a casa di Goethe si accorge che tutto è mutato: «Carlotta lo riconobbe ed anche non lo riconobbe: l’una e l’altra cosa profondamente la scossero»; «era lui e pur non era lui».
Goethe non aveva mantenuto la stessa singolarità che lo caratterizzava agli occhi di lei, dal momento che la sua vita era cambiata, aveva vissuto talmente tante esperienze in quel lungo lasso di tempo, da non permettergli di essere più se stesso, o meglio attribuendo al se-stesso un cangiante dinamismo che la poesia aveva tradotto in un equilibrio di tutti i piccoli disordini, che apparentemente pareva aver dato vita al grande ordine.
Lotte durante il ricevimento non riesce nemmeno a comprendere se Goethe si fosse accorto di lei. Lotte sempre uguale che associa il profumo di colonia del suo ospite all’ambrosia che annuncia la presenza del divino.
Ma Goethe non cova alcun tipo di risentimento nei suoi confronti. L’infatuazione è stata un’esperienza che ne ha preannunciate altre, che gli ha fatto comprendere come l’amore, a sua volta, non sia null’altro che un grande ordine che si regge sui piccoli disordini di cui è composto.
L’equilibrio di Goethe si manifesta nel mettere a disposizione della forestiera la sua casa, la sua carrozza, ed il posto a teatro.
Una sera, dopo aver partecipato ad uno spettacolo dal palco di Goethe, tornando all’albergo con la sua carrozza e il suo domestico, si accorge che l’antico amico si trova accanto a lei, avvolto in un mantello nero. Il dialogo che si instaura tra i due è un’invenzione di Thomas Mann che in qualche modo potrebbe corrispondere ad un onirico soliloquio di Carlotta, e coincide con l’atmosfera trasognata il fatto che Goethe continui ad alternare il “tu” al “lei” con grande sconcerto e frustrazione dell’interlocutrice. È lì che Carlotta espone tutta la sua riprovazione in una scenata a cui Goethe assiste con estrema serenità. Sorridendo, si rende conto che Carlotta è gelosa, e che la sua visita a Weimar era solamente un pretesto per sfogare la sua rabbia e la frustrazione causate dalla gelosia, dall’aver scoperto di essere anche lei, come il protagonista di una vicenda raccontata da una delle sue ospiti nel colloquio del primo giorno, più una personificazione che una persona. La sua frustrazione arriva sino alla disperazione nel momento in cui comprende di non poter vantare alcun tipo di diritto sull’antico amico, nemmeno il diritto vile che credeva di possedere, di non essere nemmeno la Prima, ma di vivere in una sorta di empireo affollato dalle altre donne amate dal suo Wolfgang, a partire dalla donna conosciuta immediatamente dopo la fuga da Wetzlar, la “proprietaria” degli occhi neri: «la mia sola paura è che un giorno questo venga in luce e che la gente possa scoprire che lei è quella vera, quella che ti accompagna nei campi elisi come Laura il Petrarca, facendo crollare la mia immagine, abbattendo la mia statua dalla sua nicchia nel tempio dell’umanità. Questo è ciò che talvolta mi turba sino alle lagrime». E Goethe lo conferma: «Laura è forse il solo nome che deve risuonare su tutte le dolci labbra? Gelosia di chi? Di tua sorella, no, della tua stessa immagine e del tuo secondo tu? Quando una nube si trasmuta creando nuove forme non è forse la medesima nube? E i cento modi di chiamare Iddio non dicono tutti l’unico — ed insieme voi, amate creature? Questa vita non è che mutare di forme, unità nella pluralità, durare nel permutare. Tu e lei, voi tutte non siete che Una nel mio amore — e nella mia colpa».
Carlotta continua a vivere nel suo “come sarebbe stato se”, ed è per questo che si sente moralmente superiore rispetto a Goethe. Goethe ha il “cuore placato” nel ricordo delle metamorfosi dell’amore.
Così vicini, eppure così lontani.
Il senso di pace che prova Goethe di fonte alla scoperta delle metamorfosi dell’amore è quello che si sperimenta ogniqualvolta ci si rende conto che le qualità, come asserisce Paolo Godani, prendono a prestito singoli individui per manifestarsi, ma fanno parte di un mondo comune. Le caratteristiche che connotano un individuo (gli occhi della Schiava turca del Parmigianino, una certa somiglianza di alcuni nei su una guancia ad una costellazione, un sorriso, un odore, i capelli ed altri elementi che formano la particolarità di una certa bellezza) non sono di sua proprietà ma potrebbero appartenere a chiunque, sono ripetibili. Possono essere ritrovati in altri individui.
I tratti che in un istante di estasi possono sembrare di esclusiva proprietà di un solo individuo, possono ripetersi, e dalla particolarità di un tratto non si può desumere la particolarità dell’intera persona, dal momento che i tratti rimangono sempre gli stessi nella loro possibilità di comunione, trasmutando come le nubi — pur cambiando apparentemente forma. Come osserva un’interlocutrice di Lotte nella sua prima giornata a Weimar, «egli era per noi più una personificazione che una persona — anche se non è sempre facile tener distinti tali due aspetti e se bisogna considerare che sono alla fine le qualità di una persona a metterla in grado di diventare una personificazione». Appunto, le qualità, i tratti, esprimono la personificazione, che non è altro se non il mondo comune dei tratti di cui gli individui sono portatori.
Il che serve anche a spiegare, per estensione, per quale motivo i tratti che a volte sembrano tanto lontani, nello spazio o nel tempo, sono in realtà più vicini di quanto si possa credere, o al contrario quando questi appaiono così vicini, sono in realtà così lontani da renderli assenti. Sono tratti che si ripetono e cospirano (con la parola evocata da Leibniz) alle metamorfosi degli amori, che come insegna Platone può trasformare se stesso e gli oggetti, sino a provocare in alcune ipotesi una continua ricerca dell’amore passato in altre persone e poi anche nel gusto dell’astrazione. L’amore assoluto o perfetto, esiste solo negli occhi incantati di chi ama, e per un solo istante — o forse, ancora meglio, non esiste, dal momento che quel solo istante è a sua volta un tratto che può ripetersi in altri diversi istanti e non può avere proprietari, come suggerisce il Goethe di Thomas Mann.
Ecco perché non ci si dovrebbe mai sentire insostituibili né proprietari assoluti ed esclusivi di tratti.
Si sarebbe quasi tentati di pensare, lungo questa traiettoria che unisce mondi così lontani eppure così vicini (Leibniz, Goethe, Mann), che in definitiva l’amore non esiste, se non nelle sue continue metamorfosi e che l’unico modo di coltivarlo risieda nella disponibilità ai mutamenti.
Eugenio Colorni, raffinato studioso di Leibniz lo aveva capito molto bene. In una lettera a Ursula Hirschmann del ’39 infatti scriveva: «la mia nuova scoperta è questa: che voler bene a una persona vuol dire ascoltarla, capire anche quello che non dice, “tradurre le sue parole”, e principalmente non “stilizzarla” non farla entrare in uno schema che già a priori si ama e si odia. Il pericolo sempre nella vita dell’uomo sono le “identificazioni” il trasformare tutto in quei tre o quattro “tipi” che costituiscono il mondo affettivo che ci portiamo dietro dall’infanzia. La forza e la vitalità dell’amore consiste appunto nel vincere, nel rompere queste “identificazioni”, nel “subire” una persona e “ascoltarla” così come è, e non nel farle violenza, per farla rientrare in uno di quegli schemi. Nota che questa predica è rivolta a me».