RE-INVERTARSI LA CITTÀ PER VIVERCI E NON FUGGIRE

5691389598_9530653265_bDOMENICO CHIRICO

La parola rabata deriva dal verbo arabo ra-ba-ta che vuol dire attaccare, legare, stringere, annodare. La parola rabata ha poi il significato più consono al nostro caso di sobborgo, periferia, dintorni. Sobborgo quindi legato alla città, fuori ma connesso, lontano ma vicino. In alcuni borghi del sud c’è una rabata, come a Tricarico ed è ora pienamente legata al tessuto storico della città.

Mentre ciò che osserviamo oggi nelle grandi e medie città italiane, soprattutto quelle storiche, è uno scollamento continuo tra il centro ed i suoi dintorni. Il centro perde senso, abitanti, vita e diventa disabitato. A Roma l’area intramoenia, delle mura aureliane, di via XX Settembre (vicino Porta Pia dove passava l’antica strada che portava dalla Nomentana al palazzo del Quirinale) è quella dove c’è il più alto tasso di dis-occupazione di immobili. I benestanti del centro diventano anziani e le loro case non vengono abitate dalle nuove famiglie. Diventano B&B. Le poche famiglie assediate da alberghi, ristoranti e turisti passano il tempo a pianificare la fuga o a chiamare i carabinieri per denunciare schiamazzi notturni e diurni. Fondamentalmente però il centro non esiste più in quanto comunità di persone; pochi ed arrabbiati abitanti passano il tempo a difendersi da non residenti che usano la città storica come un fast food. Non pare diversa la situazione in altre città storiche italiane.

Le aree semi centrali a Roma poi sono diventate dei divertimentifici dove gli abitanti sono assediati da locali notturni e movida senza fine. Fenomeni forse esasperati dalla pandemia ma che di fatto stanno esasperando la vita ed il benessere comune. Zone un tempo residenziali e semi-centrali, come quella di Piazza Bologna, sono un inferno notturno. Con decine di locali dove non c’è mai un controllo di nessun genere e dove la mano delle molte mafie che investono in città è molto pesante. Le persone cominciano a sognare i condomini chiusi, propri delle aree ricche o della provincia. Le zone protette con buona pace dell’agorà e della sua ricchezza. Intere aree periferiche di Roma si stanno strutturando in questo modo, con agglomerati più o meno decenti che crescono intorno a supermercati e centri commerciali.

Il centro storico di Roma ha però altri abitanti che lo animano. E che sono emersi con forza durante la pandemia. Grazie alle sue reti di solidarietà soprattutto nel quadrante della stazione, Roma è abitata da migliaia di senza fissa dimora. Intorno alla stazione è facile vedere baracche, tende, persone che si sono costruite fortuiti giacigli per la notte. Il gruppo di studiosi di Mapparoma, che ha fatto una meritoria opera di descrizione della città scomponendola per mappe, ha chiamato queste persone gli invisibili. Anche se in realtà sono molto visibili per i bivacchi che allestiscono un po’ ovunque ed anche di fronte a ministeri, uffici pubblici, alla stazione centrale. A Roma si contano almeno 7800 senza fissa dimora con statistiche naturalmente approssimative ed a fronte di una capacità di accoglienza in strutture sociali di soli 3000 posti. Poi ci sono le occupazioni abitative che sono la risposta romana alla carenza di edifici di edilizia pubblica e molte sono nel centro città o in zone semicentrali. Si stima che più di 10.000 persone abitino in occupazioni abitative che, a dire il vero, sono tra le risposte più efficienti in una città diseguale. Come è il caso dell’occupazione abitativa Spin Time Labs, nell’ex sede nazionale dell’Inpdap. Un enorme immobile intramoenia, a due passi dalla basilica di San Giovanni. Un luogo dove abitano 400 persone di cui 120 minori e 24 nazionalità diverse. Molti italiani e tanti stranieri. Un piano per chi viene dall’Africa ed un piano per chi viene dal Sud America. Un altro misto. Un teatro attivo, la redazione della rivista Scomodo, un co-working, una trattoria, laboratori di artigiani – una piccola e rumorosa agorà. Un luogo vivo che, tra le proteste di un po’ degli abitanti della zona, ha portato nel centro della città le varie contraddizioni del nostro tempo. I bambini dell’occupazione vanno nella scuola di quartiere e la animano, le attività che si svolgono nello stabile lo rendono un centro sociale di quartiere, le persone che lo vivono sono rispettose dell’area dove risiedono. E spesso litigano tra di loro se alcuni disturbano gli abitanti. Non pochi sono i problemi, ma è chiaro che la città diseguale trova nei suoi interstizi spazi di vitalità un tempo inaspettati. A fronte dello spopolamento del centro sembra che siano gli invisibili che riescano ad abitarci ed a trovarvi delle opportunità.

Peraltro, Roma si pensa ancora come negli anni ’50 e, mentre via Veneto è morta con vari locali sequestrati alla ‘ndrangheta, il centro rimane il luogo dove ci sono licei, alcune sedi universitarie importanti, teatri e cinema. A fronte di un’offerta culturale molto più povera in altre aree della città più periferiche.

In realtà la lettura centro-periferia per Roma sicuramente va bene soprattutto per le redazioni dei media mainstream, ma non per leggere la città attuale. La città, come raccontato, è diventata trasversale ed il gruppo di Mapparoma lo dimostra molto bene. Raccontando una città ricca che va da nord a sud dell’urbe, in cui però ci sono aree di povertà emerse con forza durante la pandemia. Ovvero tutti coloro che forniscono servizi ai ricchi si sono rivolti ai servizi sociali durante i primi mesi della pandemia, per poi rientrare ad essere quasi sempre working poors che abitano nelle case povere dei quartieri ricchi. E poi c’è quella che è definita la città del disagio, dove ci sono i maggiori agglomerati di case popolari, alti tassi di disoccupazione e dispersione scolastica. Molte richieste di accesso ai servizi sociali ed alle misure di sostegno del reddito. Ed il dato dell’astensione altissima alle ultime elezioni comunali, laddove la partecipazione politica aveva cinque anni fa premiato il Movimento 5 Stelle. La città del disagio è localizzata in alcune periferie dell’urbe, soprattutto del quadrante est ma in realtà le zone complesse sono trasversali. Alcune paradossalmente sono altamente vivibili per la vicinanza ad aree verdi molto belle. Alcune si stanno trasformando in zone di pregio con forti interessi anche speculativi per trasformarle in aree residenziali.

Il tema di fondo rimangono le diseguaglianze con cui interpretare la città e che ormai la percorrono ovunque. La pandemia ha fatto emergere nuove povertà con un fortissimo aumento di famiglie che, ad esempio, si rivolgono alla Caritas per i pacchi alimentari, anche in quartieri borghesi dove le parrocchie non avevano mai fornito questo tipo di assistenza. Accanto a questo elemento c’è il disgregarsi delle comunità; e, paradossalmente, dove esse esistono, come in una vecchia borgata di periferia o in un’occupazione abitativa, si riesce a sopravvivere meglio rispetto alle complessità quotidiane dei tempi. La pandemia ha infatti dimostrato come in alcune zone della periferia, in alcuni quartieri semi-centrali, in delle occupazioni abitative si sia velocemente organizzato un dispositivo solidale e di sostegno ai più deboli. Peraltro solidarietà spesso organizzata in modo spontaneo e senza la presenza di gradi sponsor. Piccole comunità resistenti che potrebbero essere poi il seme di alcuni, potenziali, cambiamenti positivi per il futuro.

In questo contesto a Roma rimarrebbe un unico dispositivo di allontanamento dei vulnerabili dal centro e dalla città in non-mondi: questo consisterebbe nel relegare ancora 5000 rom in campi che, come forme abitative, esistono solo nella fantasia degli amministratori pubblici. In realtà, sono veri e propri campi profughi e ghetti; ed infatti, nel silenzio generale, molti rom – peraltro italiani – stanno accedendo alle case popolari, avendo abbandonato il nomadismo da qualche centinaio di anni. Ma senza farlo sapere troppo in giro, altrimenti ci sarebbe sicuramente una destra che soffia sul fuoco ed uno scandalo. Ed invece, almeno su questo, la vecchia regola del civis romanus funziona. Come a funzionare è anche la presenza della Chiesa in città, ispirata dal suo motto “nessuno dovrebbe essere straniero”.

Infine c’è e non c’è la politica. In una polis disgregata, e che fatica a riprendersi, dovrebbe essere rivoluzionaria e saper riannodare i fili spezzati di una comunità che vive separata. Invece è sempre guidata dalla gestione dell’esistente. Dal sopravvivere a se stessi. Le ultime elezioni hanno portato in Campidoglio una classe politica di centro-sinistra che rappresenta solo in minima parte la città e le sue periferie. La nuova giunta si è data come priorità lavorare sulle fragilità sociali di Roma. Bisognerà capire, però, in che misura sarà capace di operare lontano dagli interessi criminali e speculativi che governano le grandi scelte – e che contribuiscono a rendere la città sempre più invivibile e meno attrattiva per le giovani generazioni. Perché una città così investe poco sulle nuove leve ed è specchio del generale calo demografico del paese. I tassi di emigrazione da Roma rimangono altissimi, con percentuali importanti tra diplomati e laureati.

Bisognerà capire quindi chi saranno i futuri cittadini ed abitanti. Ed in che modo potranno e sapranno costruire comunità solidali. Altrimenti la città, la polis, è destinata progressivamente a scomparire ed a diventare una Disneyland che attrae turisti e mafie per i loro business, In cui gli emarginati saranno soprattutto i suoi cittadini e coloro che vogliono costruire delle prospettive di coesistenza. Ai margini rimarrebbero masse di esclusi che, come accade a Dubai, lavorano per la loro sopravvivenza ed eventuale scalata sociale strumentale al sistema socio-economico e mai trasformativa.

“gli anni zero in una periferia occidentale” by Paolo Margari | paolomargari.eu is licensed under CC BY-NC-ND 2.0

ARCHITETTURA ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA URBANISTICA

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