L’INCONTROLLABILE PROLE: PHILIP ROTH E LA TRAGEDIA DELLA GENITORIALITÀ

ameRICCARDO DAL FERRO

Mi fa da sempre sorridere che “paternalismo” sia una parola che si riferisce ad un tentativo di controllare, di avere sotto potere, di dominare. Ancor più “patriarcato”, termine che spesso viene usato al posto di “tiranni”, “sovranità del maschio”. La cosa che mi fa sorridere è che l’evento della paternità (e della genitorialità in generale) è un atto di perdita di controllo e di dissoluzione di ogni potere.

Devo premettere che io non sono padre. O meglio, non sono padre di esseri umani (ma neanche di molluschi, crostacei o altri primati), al massimo sono padre delle mie scelte e dei miei libri. Perciò, tutto quello che posso esprimere va preso con le pinze poiché si tratta di esperienza derivativa e statistica. Quel che posso dire della paternità l’ho imparato da mio padre e dai libri di Philip Roth.

Partirei da quest’ultimo, che mi pare più proficuo nel tentativo di mettere in piedi un discorso abbastanza generale da essere riconosciuto: nella letteratura di Roth, essere padri e genitori (ma soprattutto padri, perché Roth era un maschio, bianco, etero e privilegiato, quindi da cancellare) è al tempo stesso una gioia e una tragedia.

Una gioia perché significa poter formare un individuo usando i migliori principi che ci pervadono, trasmettendo l’educazione e i valori che abbiano a nostra volta appreso, veder esporsi nel mondo questo nuovo essere umano che, usando l’eredità genetica e culturale che gli abbiamo lasciato, può tentare di trovare la propria strada e felicità rendendoci orgogliosi. Questa è la parte gioiosa dell’essere genitori: riconoscere se stessi nei traguardi della prole che abbiamo dato alla luce.

Ma è anche e soprattutto una tragedia perché le righe precedenti sono una menzogna straordinaria. La gioia di veder tradotta la propria esistenza in quella dei figli è una finzione che ci distrugge tanto più sopravvive: i figli rappresentano lo scatenarsi dell’imprevedibile nella vita, la sfida più straordinaria nei confronti di quel che siamo, il crollo delle certezze che consideravamo intoccabili. I figli sono lì per distruggere l’immagine che avevamo di noi stessi e ogni atto di “dominio” nei loro confronti non è un sopruso verso la prole ma un atto di autodifesa.

Detta così può sembrare melodrammatica: “Rick, mi pare che tu stia esagerando” e certamente la speranza è che, mettendo alla luce un altro essere umano, le ricompense siano più delle perdite. Ma la letteratura di Philip Roth ci mette di fronte ad una questione intollerabile: i figli sono davvero l’Altro da noi e se siamo guidati dal sogno di vedere nostre copie che vagano nel mondo, saremo presto stroncati.

L’esempio perfetto è Seymour Levov, nel capolavoro Pastorale Americana.
Tutta la città sognava che i figli di Levov “lo svedese” fossero esatte copie di quell’individuo tanto eccezionale e ammirato: atleta straordinario, studente modello, figlio affettuoso ed educato, lavoratore indefesso, bello e affascinante, Seymour era lo stereotipo dell’americano all’inseguimento di un sogno già avverato. Presto Seymour si ritrova a capo di un’azienda di successo, sposato ad una modella che aveva sfiorato il concorso di Miss America, una casa bellissima e tutte le carte in regola per costruire una famiglia di cui essere orgogliosi. Le aspettative di Seymour erano le aspettative dell’America che lo circondava, l’incarnazione di quel sogno americano che ha percorso il Novecento e sembra sempre più infranto sotto i colpi della realtà. E la realtà, per “lo svedese”, giunge sotto la forma di una adorabile bambina di nome Merry.

Merry è l’irruzione del caos nella vita perfettamente pianificata di Seymour. Dopo un’infanzia serena ma minata dalla balbuzie che preoccupava tutti, passa un’adolescenza molto turbolenta resa ancor più vivace dall’attivismo filo-comunista e le proteste per la guerra in Vietnam, e poi il tutto sfocia in un attentato terroristico dove un uomo perde la vita e di cui Merry è l’artefice e assassina. La vita di Levov viene disintegrata dall’evento della paternità, tutto ciò su cui si poteva basare il trionfo della sua esistenza si trasforma nel movente per la totale devastazione: la linearità si sgretola, il mare del caos avanza e tutti sono dispersi in un fuggi-fuggi terrorizzato.

La genitorialità, ben lungi dall’essere la produzione di copie di sé e quindi l’atto di controllo, è l’irruzione del caos nella vita. Il rapporto gerarchico più forte che la vita possa conoscere, ovvero quello genitori/figli, è la più radicale messa in discussione dell’identità di coloro che “dovrebbero” avere il potere e che invece sono in potere della prole. Essere genitori significa perdere il controllo, non acquisirlo.

Proprio in questo senso vanno letti i tentativi per essere iper-protettivi, eccessivamente accudenti, e in questo quadro interpretativo rientrano i fenomeni del “mammismo” e della difficoltà di staccarsi dal covo genitoriale, sempre più drammatica: il genitore, faticando ad accettare la sua perdita di controllo sulla propria vita, rischia spesso di dominare i figli non con la repressione e la violenza, ma con la comodità e il comfort.

Non è questo, ovviamente, il caso di Merry Levov.

La tragedia di Pastorale Americana è tale perché non c’è alcuna spiegazione convincente al male che si scatena nella famiglia dello svedese. Philip Roth denuncia in modo aspro il tentativo di razionalizzare il comportamento di Merry, ma in questo modo altro non fa che denunciare il tentativo di tutti noi quando cerchiamo di razionalizzare i comportamenti assurdi dei nostri figli: la ricerca delle colpe e delle responsabilità, uno straccio di spiegazione, la catena causale che ha portato quel pargolo a diventare un mostro. Come può quel bambino diventare una assassino da adulto? Com’è possibile che quel figlio tanto amato sia diventato violento e incontrollabile? Riusciremo a trovare la spiegazione per i comportamenti intollerabili di nostra figlia? Tutte queste sono le domande che imperversano nella mente di molti genitori, molti più di quanti si possa immaginare, e che non avranno mai risposta perché i figli sono letteralmente l’Altro, e la loro esistenza è irriducibile a quella di chi li ha messi al mondo.

Merry Levov fa esplodere un ufficio postale perché è Merry Levov, non per i mille motivi con cui lo svedese tormenta la sua vita in cerca di una colpa, di una causa conclamata. Merry Levov diventa maoista non perché sua madre abbia sbagliato a impartirgli qualche lezione o perché Seymour si è sempre dimostrato tanto patriottico: lo diventa perché la vita ci riserva un’innata dose di imprevedibilità e noi lo dobbiamo accettare. Merry distrugge la sua vita senza che questo abbia a che fare con i suoi genitori: lo fa perché non poteva che andare in quel modo e la ricerca delle responsabilità, nel romanzo di Roth, è solo l’ennesima tortura che i genitori infliggono a se stessi.

Essere genitori significa, insomma, accettare la mancanza di controllo rappresentata dalla mera esistenza dei propri figli. Significa capire che non basta aver partorito una creatura per poterla forgiare a immagine dei propri desideri, bisognerà anche sapersi ritrarre quando l’Altro si manifesterà, senza il bisogno di ridurre quell’esistenza alle nostre decisioni, ai nostri valori e alle nostre caratteristiche. I figli posseggono un corredo genetico in tutto e per tutto simile a quello dei genitori e ricevono un’educazione che li rende simili nelle caratteristiche psicologiche ai membri della famiglia. Ma ciò che i figli portano con sé, prima di tutto, è una dose irriducibile di diversità e il genitore che non accetta questo verrà distrutto dagli eventi, proprio come Seymour Levov.

L’altra cosa che ho imparato da mio padre è che i genitori lasciano la propria eredità soprattutto in negativo: i figli imparano più dagli insuccessi che dai successi, dalle rotture che dalle linearità, e l’eredità che lasciamo ai figli è costruita molto più su quello che il genitore non vuol mostrare di sé, più che di quello che vuol trasmettere. Anche questo è un fatto difficile da accettare perché denota la nostra impossibilità definitiva di avere sotto controllo le variabili dell’esistenza. La gratitudine che provo nei confronti di mio padre è rivolta soprattutto a ciò che mi ha insegnato involontariamente rispetto a ciò che mi ha impartito consapevolmente, e questa è una lezione che terrò per sempre stretta a me.

Ma, di nuovo, questi sono i ragionamenti di un figlio che non vuole essere padre, forse per evitare di dover mettere in discussione tutto questo, un giorno. Per il momento, provo ad avere un po’ di controllo sulla mia vita, per il caos c’è sempre tempo.

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