L’INFERNO DENTRO
RICCARDO DAL FERRO
In un bellissimo racconto di Arthur C. Clarke, I nove miliardi di nomi di Dio, un manipolo di scienziati viene a sapere che alcuni monaci tibetani, fin dalla notte dei tempi, sono impegnati a scrivere uno ad uno i nove miliardi di nomi con cui Dio può essere chiamato. Leggenda vuole che, una volta scritto l’ultimo dei nomi, l’universo finirà. Così, gli scienziati costruiscono un grande elaboratore il cui compito sarà quello di velocizzare il millenario processo. Quando il supercomputer è pronto, gli scienziati lo portano nel monastero e lo accendono davanti ai monaci increduli: nel giro di pochi minuti, i nove miliardi di nomi vengono sparati fuori dalla macchina sottoforma di schede perforate e, terminato il lavoro, uno degli scienziati dice: “Visto? L’universo è ancora qui”. Ma, una volta uscito dalla porta del tempio, si accorge che le stelle iniziano a spegnersi.
Questa parabola descrive alla perfezione la nostra innata capacità di progettare l’inferno che desideriamo, e anche se l’inferno è popolarmente visto come il luogo in cui Dio e Satana, in combutta per il dominio del mondo, ti relegano se non hai seguito le regole, credo che sia un’immagine troppo semplificata.
Infatti, l’inferno non è un luogo scavato nelle profondità della Terra da entità divine che giocano col nostro destino: sarebbe consolatorio pensarla così, e per quanto l’inferno possa essere la destinazione ultima delle nostre malefatte, pensare che esso sia un luogo distante dal cuore e dalla mente ci solleva in parte dalla responsabilità di essere creature umane. A ben guardare però, l’inferno è più vicino di quanto pensiamo.
Nel fumetto “Sandman”, Neil Gaiman mette in bocca queste parole ai fantasmi di due bambini: “Ora che l’inferno è stato chiuso, dove credi andremo?” e l’altro risponde: “Non credo che l’inferno sia un luogo dove andare, credo sia una condizione che ci portiamo dentro”.
La stessa idea viene espressa dal Lucifero di John Milton quando, spiando le creature dell’Eden, si trova a mormorare tra sé: “Me misero, l’inferno è ovunque io vada” quando capisce che egli è il costruttore della propria infelicità. Non c’è nemmeno bisogno che Dio, il suo nemico, lo guardi e lo punisca: egli è perseguitato dall’invidia, dal rimorso e dall’incapacità di trovare pace e, in questo senso, non è il padrone ma lo schiavo del suo stesso inferno.
Tutta questa letteratura è volta a far sentire quando sia gravoso il peso delle nostre scelte e dei nostri atteggiamenti quando si tratta di temere l’inferno: ben lungi dall’essere un luogo del mondo, esso è uno stato dell’anima, la traduzione di un’incapacità profonda che perseguita l’essere umano strappandogli la sua agognata serenità.
L’inferno, in questo senso, non è la punizione per aver mentito: l’inferno è la condizione stessa della menzogna, dell’invidia, della vergogna, della tracotanza, del rimpianto. Non serve pensare che una volta compiuto un gesto nefasto, nella prossima vita io verrò punito: il passo nel regno della sofferenza si fa nel momento stesso in cui si compie un atto nefasto. L’inferno è il disordine in cui cadiamo nel momento in cui contravveniamo alla necessità di comportarci in modo decente.
La religione ha convinto gli esseri umani che una volta compiuto un atto terribile ci sarà sempre il tempo e la possibilità del perdono e che il momento del delitto e quello della punizione saranno differiti, permettendo all’individuo di redimersi, di espiare, di fare ammenda. Ma questo è il grande abbaglio che ci spinge a compiere atti malvagi, a tradire l’amicizia, a violentare l’innocenza, a rompere i patti: il fatto che il rischio di non essere scoperti e di conseguenza puniti possa venire a nostro vantaggio. Se c’è un inferno amministrato da qualche divinità, potremo sempre illuderci di poter sfogare la nostra cattiveria mentre gli occhi del dio non ci guardano, e in questo modo farla franca.
Se solo avessimo avuto la forza di comprendere che non c’è alcun occhio a guardarci se non quello della nostra coscienza e che l’inferno è l’erosione stessa del rapporto tra i miei atti e la mia coscienza, quanto minor male avremmo compiuto nella vita. Se solo avessimo capito che la menzogna e la punizione non sono differite, che il delitto e il castigo non sono separati, che l’occhio della mia coscienza sa sempre tutto di quel che faccio ed è molto più attento di qualsiasi divinità. Se solo avessi saputo tutto questo, quanto sarebbe più piccolo l’inferno che mi sono scavato.
Invece, eccoci qua, indaffarati a compiere le nostre nefandezze sperando di non essere scoperti, oppure illudendoci che ci sia sempre il tempo di chiedere scusa, di pagare il debito. E, di menzogna in menzogna (a noi stessi, prima che agli altri), siamo architetti di un inferno perfetto: quello che abbiamo progettato per noi stessi.