SULL’ INFERNO ETERNO (QUALCHE CONGETTURA)

2516772525_43c3ed449d_bCARMELO VIGNA

Le mie sono “congetture” filosofiche a partire da un dato di fede. Cioè: il mio punto di vista, qui, è quello di un credente (cristiano cattolico) che riflette su un contenuto della Rivelazione di Gesù di Nazareth, utilizzando un apparato categoriale di natura filosofica. Per tentare di capire meglio ciò in cui crede.

Che cosa si può dire – da cristiani – intorno a questa “cifra simbolica”, che torna d’attualità ogni qual volta siamo assediati, quando non vinti, dal male? A mio avviso, si può dire molto e si può dire poco. Un piccolo paradosso, sulle prime; ma solo in apparenza. Si può dire molto, se proviamo a rievocare o descrivere i mali più terribili del nostro mondo, come ad es. le guerre, le epidemie, i terremoti, le carestie, le tempeste ecc. Spesso sono infatti citati come “un inferno”. Si può dire poco, se intendiamo penetrare il mistero di questa stessa cifra a partire dalla tradizione ebraico-cristiana (ma poi anche a partire dalla tradizione musulmana o a partire da altre tradizioni religiose). C’è, in altri termini, un “inferno” nella storia (più o meno sempre presente in qualche parte del mondo) e c’è un inferno (creduto) nell’aldilà della storia. Di fatto, l’inferno della storia può essere comunque di una certa utilità per congetturare qualcosa intorno all’inferno dell’aldilà: perché l’inferno dell’al di qua è manifesto, anche se resta, in fondo, inspiegabile nelle sue cause, mentre l’inferno dell’aldilà non solo non è a noi manifesto, ma è anche particolarmente inspiegabile, perché lo si considera e lo si predica eterno. Un inferno eterno, in effetti, è per noi (quasi) “inconcepibile”. Sembra qualcosa di assurdo. Tanto che alcuni teologi (cristiani) se la cavano o negando questa antica dottrina (vedi i sostenitori dell’apocatastasi) o depotenziandola (l’inferno eterno c’è, ma è vuoto – ha detto qualche teologo dei tempi nostri). Solo che i testi delle Sacre Scritture, non lasciano scampo. Dicono e ridicono in modo inequivocabile che le pene infernali sono eterne.

Lascio da parte l’inferno dell’al di qua, cioè poi il tema del male nel mondo, su cui si riflette da millenni e su cui può forse bastare por mente alle osservazioni geniali di S. Agostino (in qualche modo debitrici della sua formazione filosofica di tipo neoplatonico). Il male, dice in sostanza S. Agostino, seguito poi da tutta la tradizione teologica occidentale, non esiste. È solo un “buco” del reale. Esiste solo il reale “bucato”, cioè esiste solo il “malato”. Lascio, ripeto, questa dottrina da parte, e mi dedico un poco al tema, che è il mio, dell’inferno dell’aldilà.

Ebbene, come si può pensare l’eternità dell’inferno senza cadere in considerazioni assurde o comunque poco illuminanti? A mio avviso, bisognerebbe far capo soprattutto a una antica figura che ogni tanto ricorre nella Sacra Scrittura (in entrambi i Testamenti: Per una pagina in cui sono allineati i principali riferimenti biblici, vedi: https://it.cathopedia.org/wiki/Indurimento): la figura dell’“indurimento del cuore”. Il cuore “indurito” è il cuore che persiste nel compiere il male e che non ascolta più il richiamo del bene. L’indurimento del cuore è, peraltro, un processo graduale: può avere soste o accelerazioni, a seconda delle circostanze. In ogni caso, è caratterizzato dal rifiuto di “tornare indietro”, di “pentirsi” e “risalire la china” del male. E questo evidentemente accade per via del fatto che il compimento del male sembra arrecare piacere, molto piacere. In altri termini, il cuore indurito sembra quasi non avvertire dolore per il male compiuto o sembra avvertirlo come un che di inessenziale. Tanto la dose di piacere è grande. Così grande che val la pena lasciare sullo sfondo quel che in certo modo potrebbe fare da impedimento.

Quale piacere? Certo, il piacere del corpo, anzitutto, come accade nel piacere della gola o nel piacere del sesso (che sono le due fonti principali di quel piacere). Possono esservi altre fonti di piacere, certo, diverse da queste due (che dovrebbero assicurare la sopravvivenza della singolarità e la sopravvivenza della specie). Sono i piaceri più legati all’anima: il piacere del successo o della gloria, il piacere che si ricava dall’esercizio del potere, il piacere della ricchezza o quello della bellezza o quello della forza. In tutte queste forme di piacere – del corpo e dell’anima – l’io viene sempre molto gratificato. Il narcisismo così trova pascolo in abbondanza. E un essere umano finisce per non tollerare niente che gli stia a pari o che lo limiti.

La manifestazione più comune di questa umana condizione, quando si fa grave, è data, a mio avviso, da vere e proprie forme di follia; soprattutto da quella forma di follia che usiamo etichettare come “paranoia”. Ebbene, nel suo delirio narcisistico il paranoico di solito surdetermina le ferite che gli altri gli infliggono e, nel contempo, lascia giganteggiare il proprio senso di onnipotenza. L’idea che possa aver lui ferito altri non lo sfiora più di tanto. Come non lo sfiora più di tanto la percezione dei propri limiti. Tutto in lui lavora al servizio del controllo ossessivo delle circostanze e delle persone.

Una struttura psicologica, così organizzata, tende a smarrire qualsiasi riferimento significativo alla realtà. Questa perdita del “principio di realtà”, che è l’altra faccia della chiusura paranoica della psiche, una volta consolidata, rende praticamente impossibile il cambiamento (come pentimento), perché il cambiamento dovrebbe essere propiziato proprio dalla graduale ripresa del contatto con l’alterità reale. L’ego-sintonia fa il resto.

Si sa che nella comune esperienza psichiatrica o psicoanalitica si sperimentano casi di malati che vengono dichiarati inguaribili. Ma lasciamo da parte, per un momento, la possibilità che il terapeuta si inganni e prendiamo questa inguaribilità solo come emblema di una impossibilità strutturale, cioè come emblema di una impossibilità permanente. Ora, la permanenza, intesa in senso forte, esclude di suo la temporalità. Detto in altri termini: se qualcosa sempre permane, quel qualcosa è un che di eterno. Ecco come, a mio avviso, la permanenza irreversibile del narcisismo egosintonico può essere veicolo già di una certa immagine dell’inferno. Comunque, difficile da tener ferma. Perché concepire l’assenza totale del tempo è per noi possibile solo in negativo. Noi siamo nel tempo, viviamo nel tempo, pensiamo e agiamo nel tempo. Possiamo congetturare qualcosa di là dal tempo, certo, ma questo qualcosa è per noi intelligibile solo come il non-tempo. Eterno è in realtà per noi lo stesso che non-temporale.

Ritorniamo ora alla corazza paranoide di prima. Chi vive dentro quella corazza, non ne ha consapevolezza riflessa, e comunque non ne vuole uscire, anche perché ha perso per via la nozione dell’esistenza di qualcosa d’altro oltre la propria corazza. A costui non “vengono in mente” se non cose all’interno della corazza. Perciò non può che volere solo quelle. Per volere altro, dovrebbe, appunto, averne notizia.  Ma dall’esterno a lui proprio non arriva nessuna notizia. Così, egli sta di fatto nella corazza come in una situazione voluta.

Basta forse riflettere bene su quest’ultima considerazione per poter ragionevolmente concludere che Dio non ci “manda” mai all’inferno, ma “prende atto”, piuttosto, del fatto che noi vogliamo andare – e restare – all’inferno; che noi vogliamo andare e restare presso una realtà opposta a quella che egli è. Come dire: ci va bene l’odio, la distruzione, la morte, le tenebre (mentre Dio è – secondo Rivelazione – amore, creazione, luce e vita). Ma se non si vuole stare con Dio, è anche impossibile “avere a che fare” con Dio. Questa impossibilità è poi la “condizione infernale”.

Ho accennato prima alle Sacre Scritture (e in genere alle religioni del Libro) per avvertire che la “descrizione” delle pene dell’inferno è sempre da considerare “interna” a una qualche Rivelazione. E in effetti, se l’inferno eterno è al di là della storia, come possiamo noi sapere se l’inferno esiste realmente e pure sapere che cosa esso realmente è? Per saperlo, bisogna necessariamente che qualcuno dell’aldilà ce lo venga a dire. Che ce lo “riveli”. Solo che discernere una rivelazione attendibile (in questo genere di cose) da una rivelazione inattendibile è impresa molto difficile, anche se non impossibile. Molto difficile, perché si può “lavorare” solo su indizi storici… Ebbene, gli indizi storici effettivamente esistono, a mio avviso, e ci istruiscono continuamente su due versanti: il versante divino e il versante umano.

Il versante divino, anzitutto. Se restiamo ancora (per brevità) alle Sacre scritture (e in generale alle religioni del Libro), dobbiamo convenire sul fatto che l’inferno è sempre rivelato come luogo dei tormenti più atroci: c’è come fuoco divorante, c’è come pianto e stridor di denti, c’è come confusività, c’è come fitte tenebre. E poi c’è come disperazione, odio, crudeltà, distruttività senza fine… Insomma, si può dire che tutte le condizioni di negatività dell’inferno di qua sono presenti anche nell’inferno di là, accresciute però enormemente di intensità e di potenza. E sono dette condizioni eterne. Impossibili da reggere, si direbbe, per la vita di un essere umano. Terribilmente ingiuste, verrebbe anche da pensare. Eppure, esse sono rivelate come divine disposizioni. E dunque, come possono essere ingiuste disposizioni, se Dio (come ancora da Rivelazione) è il Giusto? E, anzi, il Santo? Per trovare qualche plausibilità alla compossibilità dell’esserci di un Dio giusto e santo e dell’esserci della condizione infernale eterna, bisogna – anche per questa via – ammettere che la divina disposizione di finire all’inferno non può essere intesa come una sorta di “decisione punitiva” del Giusto e del Santo; la divina disposizione di finire all’inferno deve essere intesa, piuttosto, come un risultato della libera volontà (in causa, s’intende) di un essere umano che il Dio giusto e santo (misteriosamente) rispetta, pur avendo continuamente messo la sua creatura in guardia – attraverso i Profeti – quanto al pericolo (primo indizio), e soprattutto pur avendo mandato il Figlio Eterno per salvare l’umanità (secondo indizio – decisivo).

Sul versante umano, ora. Che uno di noi finisca all’inferno, volendo liberamente finirci, è in qualche modo pensabile, solo se l’inferno sembra a lui cosa buona. Il male, inteso come male, non può, infatti, essere oggetto del desiderio umano. Quindi, che un essere umano decida per l’inferno, è pensabile solo se a lui l’inferno appare, appunto, come cosa buona (si usava ripetere nelle Scuole il principio: Omne agens agit propter bonum, vel apparens bonum). Quindi solo il “sembrare buono” (in statu viae) può dar conto, in qualche modo, della libera decisione a favore del tipo di vita che poi condurrà dell’inferno. Ma si aggiunga: il “sembrare buono” senza esserlo non è l’oggetto dell’intenzionalità prima di un essere umano. L’intenzionalità prima (strutturale) di un essere umano termina sempre su qualcosa come realmente buono. Quel “sembrare” può, tutt’al più, rivendicare per sé un misterioso primato di fatto. Che poi è un primato da combattere, e tendenzialmente da eliminare (il cosiddetto “peccato originale” – altro grande indizio, fortemente sottolineato dalle Sacre Scritture; v. Gen., 3). Si dovrebbe cominciare da qui, dunque, per non finire all’inferno. E si dovrebbe proseguire guardando all’Uomo di Nazareth e alla lunga schiera dei suoi testimoni (i Santi della Chiesa di Dio). Altro formidabile indizio. E tanti indizi fanno…una prova!

Desert Heat … Inferno” by On Location in Los Angeles is licensed under CC BY-NC-ND 2.0.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA TEOLOGIA

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