IN VIAGGIO CON LO SPAZIO

Outer-Space-Seamless-Pattern-Graphics-4669595-1-1-580x386MARIO RICCA

Muoversi nello spazio cosmico presuppone aver presente ‘verso dove si va’, quantomeno un altrove. Il problema consiste nel dove immaginarlo rispetto a un resto complessivamente immisurabile. Immaginare lo spazio come ‘spazio da attraversare’ è già trasformarlo e, ancor più nel caso dei viaggi spaziali, farlo. L’attraversamento implica l’assunzione di un punto di partenza e di un orizzonte (se non proprio un punto d’arrivo). L’attraversare stesso può essere pensato solo quando si concepisca l’origine del movimento in relazione a una mèta, anche se non definita e, quindi, eventualmente mobile anch’essa; al limite, coincidente solo con la direzione il cui proseguimento diventi mèta di sé stessa. Già pensare di muoversi attraverso lo spazio produce comunque una modificazione nel significato del ‘dove si è’, del punto dal quale di parte. Esso sarà visto, anche se soltanto con l’immaginazione, come se a osservarlo fosse qualcuno posto già al punto di arrivo, alla sua estremità distale. In relazione a essa, il punto di partenza acquisirà il significato di estremità prossimale. Il discorso vale per qualsiasi spostamento nello spazio, anche terrestre. Con riferimento allo spazio cosmico, tuttavia, assume un significato supplementare e di carattere intrinsecamente trasformativo e/o generativo. È interessante, a questo proposito, riprendere la definizione di distale fornita dal vocabolario Treccani online (https://www.treccani.it/vocabolario/distale/) con riferimento alle sonde della diagnostica medica per immagini:

nei dispositivi di trasmissione di immagini per mezzo di guide ottiche a fibre, per es., quelli usati nell’endoscopia medica, estremità distale della guida è quella verso l’oggetto esaminato, in contrapposizione a estremità prossimale, quella cui s’accosta l’occhio o si collega il dispositivo elettronico d’osservazione

‘Sonda’, nelle sue proiezioni polisemiche, è termine marcato da molteplici contesti d’esperienza. Quello medico e quello dell’esplorazione spaziale sono due tra altri. In generale, il termine sonda riassume e prefigura esperienze in cui lo spazio non è pienamente visibile, non è completamente praticabile, è dunque ancora ignoto. La sonda anticipa l’arrivo e quindi la congiunzione corporea dell’osservatore con l’ambiente osservato. La sonda si spinge dove il corpo non può arrivare. Saliente, nello spettro semantico di sonda, è l’inoltrarsi con uno strumento al posto del corpo per determinare cosa il corpo – in verità, l’intera unità mente-corpo – dovrà e potrà fare in relazione ai propri fini. Una sorta di protesi che estroflette l’unità corpo-mente al di fuori di se stessa e la proietta dinamicamente attraverso lo spazio.

Qui, emerge un’analogia importante tra le sonde diagnostiche e le sonde spaziali. Entrambe svelano lo spazio mentre lo attraversano. Scrivono e riscrivono il significato della sequenza dei possibili punti di arrivo man mano che si muovono in quel che prima non appariva visibile, toccabile ecc. Tuttavia, nel mostrare il significato dell’orizzonte – mobile come tutti gli orizzonti – del movimento, al tempo stesso rimodellano il punto di partenza, l’origine del viaggio. E questo per la elementare ragione che ‘origine’ è una parola dal significato strutturalmente retrospettivo. Solo quel che segue definisce il suo significato sostantivo. ‘Origine’ è sempre di qualcosa. Questo qualcosa, tuttavia, appartiene sempre al futuro. Un futuro di cui l’origine è, dunque, inevitabilmente con-seguenza (J. Sallis, Force of Imagination: The sense of the elemental, Indiana University Press, Bloomington – Indianapolis, 2000, 26 ss.).

A pensarci bene, anche la vista, nel suo spingersi in lontananza, rende prossimo quel che è lontano e, così, riscrive dinamicamente il significato di quel che è prossimo. La vista traccia relazioni ponendo a contatto elementi trasformati in segni. Come segni, quegli elementi, reagiscono gli uni sugli altri modellando reciprocamente e in modo interpenetrativo il significato di ciascuno di essi. La relazione stabile tra il lontano e il prossimo è solo il risultato di questo processo. È uno spazio già semantizzato che, in qualche modo, dà per conosciuto il distale. Tuttavia, la conoscenza di quel che è distale è la risultante di un preventivo processo di sondaggio, non preesiste a esso, a meno che il viaggio non sia l’iterazione di un attraversamento dello spazio già compiuto (benché, anche in questo caso, l’identità tra la prima mèta raggiunta e quella attuale sia frutto di un’astrazione).

Ordinariamente si definisce appunto il viaggio come un movimento da un punto A un punto B, da un punto di partenza a una mèta. Questa mappatura del movimento presume che sia A, sia B, siano già conosciute da chi indica il viaggio. La mappatura dello spazio precede la descrizione del movimento all’interno di esso. Indubbiamente, poi – e la letteratura se ne è occupata in innumerevoli modi e occasioni – il viaggio resta un’esperienza personale. L’imprevedibilità di quel che può accadere tra partenza e arrivo rende ogni spostamento diverso dall’altro e induce a coniare la massima per cui: la méta autentica del viaggio non è quella finale ma il viaggiare stesso, che a sua volta trasforma il significato del punto di arrivo perché spesso trasfigura lo stesso viaggiatore.

Quando si ha a che fare con sondini diagnostici, sonde spaziali e super-telescopi, però, le cose vanno diversamente. In questi casi, non ci sono mappe. Anzi, l’inaudito, il non-saputo, è la sostanza della mappa, più che il suo territorio di riferimento, il suo spazio immanente. Lo spazio da attraversare è uno spazio in trasformazione. Uno spazio che scriverà la mappa retrospettivamente. In questa prospettiva dinamica, anche il guardare oltre le possibilità attuali è assimilabile, almeno metaforicamente, al viaggiare.

La prima immagine elaborata grazie ai segnali inviati dal telescopio Webb regala con cruda presenzialità l’effetto di retroazione cognitiva che ha il vedere oltre.

webb

La comparazione con le immagini restituite da Hubble è stupefacente. Con Webb il cosmo non solo si palesa nella sua densità, quanto a presenza e multiformità dei corpi celesti, ma rende quasi tangibile la sua profondità. A guardare quell’immagine non fanno impressione solo i colori vividi di ciò che è ben visibile ma ancor più il grigiore indistinto, eppure percepibile, di quel che si preannuncia come esistente eppure più lontano. Di primo acchito, l’Alterità del cosmo rispetto a noi osservatori umani – immedesimatici nell’occhio di Webb – sembra quasi distribuirsi su due dimensioni, rendendoci così esenti dalla scena. Un po’ come avverrebbe di fronte a un quadro o a una vasca d’acquario pieno di squali. Basta però applicare all’immagine, grazie alla sua nitidezza, il nostro sapere prospettico, il nostro abito cognitivo coincidente con la consapevolezza che il più piccolo, così come il più sfocato, è ordinariamente anche più lontano, basta questo gesto mentale, appunto, per essere risucchiati in una vertigine rigenerativa – se così può dirsi – rispetto alla stessa percezione di noi stessi, una sorta di propriocezione prospettica rispetto allo spazio nel quale siamo collocati. Più semplicemente, l’abito a leggere in prospettiva le immagini fa sì che quell’altrove cosmico venga immediatamente incorporato riqualificando dall’interno – se così può dirsi – l’origine, il prossimale, nel quale ci collochiamo come osservatori. In qualche modo, è un po’ come se fosse la profondità del cosmo a guardarci e – come direbbero sia Merleau-Ponty (Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003), sia John Dewey (Come pensiamo, Raffaello Cortina, Milano 2019) – a farci qualcosa. Indubbiamente, il nostro mutare cognitivo e incorporato si riverbera, ancora, su quel che vediamo, inducendoci immediatamente a tradurre la profondità del cosmo, nella quale siamo improvvisamente presi, inghiottiti, in un modo ancora nuovo.

Profondità e lontananza significano tempo. E tempo significa anche movimento (almeno potenziale). La luce degli astri non parte da un orizzonte lineare. L’apparente linearità di esso è solo un effetto retrospettivo generato dalla simultaneità della nostra visione come ricettori del messaggio luminoso proveniente dai corpi celesti. Essi si trovano invece a distanze differenti. E, appunto, quel che è più piccolo o fioco, alla vista, non è detto sia anch’esso effettivamente più piccolo o fioco se visto da vicino. Disambiguare le immagini richiede un ulteriore livello di interpretazione del messaggio luminoso, per il quale l’occhio naturale non è sufficiente. Una stella e una galassia tratte dell’arazzo restituitoci dall’immagine di Webb possono apparire adiacenti e di eguale grandezza/luminosità. Questo è però solo un effetto della distanza. Addirittura, quel che vediamo come adiacente potrebbe essere a distanze fuori dalla nostra capacità di incorporamento – incommensurabili alla nostra esperienza attuale dello spazio mediata dal corpo e dal suo dimensionamento riflessivo rispetto al contesto terrestre. Ma non solo. Ciò che la vista ci fa apparire con-presente potrebbe invece risultare una combinazione tra sincronico e asincronico. Alcuni dei corpi celesti visibili da noi e da Webb potrebbero non essere più… mentre la luce da essi emanata viaggia ancora nel cosmo come informazione-segno. Un segno che produce un effetto reale (su di noi) benché il suo referente passato non esista più; quasi come se la sua sorgente di significato non abitasse (solo) il passato ma anche il futuro, il futuro che siamo noi osservatori grazie alla nostra distanza dall’origine; o forse sarebbe meglio dire ‘da una delle origini’.

In ogni caso, inoltrarsi anche solo con l’immaginazione attraverso il cosmo e in direzione di una stella costituisce in senso (che definirei) materiale un modo di incarnare il futuro anteriore. La visione restituita dal telescopio Webb, da questo punto in avanti, può essere trasformata nell’anticipazione di un futuribile viaggio fisico attraverso lo spazio. Solo che l’immagine, presa nel suo complesso, precostituisce, ri-forgia la nostra stessa capacità di immaginare la mèta, il fine. La foto di Webb induce irresistibilmente in noi (o, almeno nella gran parte di noi) una reazione interpretativa che genera una situazione comprendente nella quale ogni definizione di possibili mète è sovradeterminata. Detto più semplicemente, quell’immagine ci fa sentire dentro qualcosa che ci sovrasta e surclassa perché ci comprende in modo rigenerativo. Noi la vediamo eppure siamo, siamo stati e saremo stati all’interno di essa, già prima di vederla. E mentre la vediamo essa sta avvenendo, includendo noi stessi. Dimodoché l’incontro con essa è una sorta di emergenza di quel che è stato e sarà ma in senso processivo, cioè come se fosse determinabile ma in solo asintoticamente, infinitamente dilazionato nella sua determinazione.

Colui che partisse – ammettendo che fosse dotato degli strumenti tecnologici per spingersi verso le lontananze comunicate da Webb e per raggiungerle – non sarebbe solo colui che si muove nel futuro anteriore perché viaggia verso la visione della stella o della galassia che fu ma che è, anche, la sua destinazione futura (del resto se il viaggiatore non vedesse la luce passata di quella stella non potrebbe muoversi verso di essa). Chi iniziasse ad allontanarsi dalla Terra vedrebbe il luogo di partenza a distanza, come una possibile mèta retrospettiva e, progressivamente, osserverebbe un passato che potrebbe essere anche la méta di un suo futuro ritorno. Inevitabilmente, finirebbe per rileggere progressivamente l’identità di colui che è partito come l’estremità distale rispetto alla sua posizione attuale. Posizione che trasformerebbe simultaneamente l’osservatore stesso, il punto di arrivo e il punto di partenza.

A dispetto delle apparenze, l’ultima considerazione non è soltanto un’astrusa elucubrazione speculativa. Mentre si viaggia nello spazio (facciamo finta che ciò avvenga in un presente per ora impossibile) a una velocità abbastanza prossima alla velocità della luce per non rendere il viaggio infinito (nonostante la curvatura del tempo a quella velocità), la forma dello spazio osservato muterà. Lo schiacciamento lungo l’orizzonte della visibilità, determinato dal tempo impiegato dalla luce per raggiungere il punto di osservazione, restituirebbe una visione del cosmo progressivamente diversa. La luce dei corpi celesti in ogni punto dello spazio sopravvivrebbe in ragione della distanza. Paradossalmente – ma tale solo dal punto di vista dell’osservazione dalla Terra – quanto più un corpo celeste fosse lontano, tanto più a lungo rimarrebbe percepibile sotto forma di informazione luminosa in ogni punto di osservazione, con un passato che si renderebbe presente rispetto all’osservatore. Se considerassimo la radiazione luminosa emessa dai corpi celesti (direttamente o di riflesso) come una traduzione di essi, in effetti avremmo tanti universi simultaneamente esistenti quanti sono i punti di osservazione. Passato, presente e futuro, in questo senso, si interpenetrerebbero in modo generativo come effetto del trasporsi metaforico – da intendersi in senso letterale ed etimologico (μετα-φορείν), come spostamento attraverso lo spazio – di porzione differenti di cosmo tramutate nella loro radiazione luminosa. Ogni punto dello spazio costituirebbe, dunque, una metafora di luoghi distanti semanticamente rigenerata dall’osservatore o interpretante (per esprimersi in termini peirceani). La responsività dell’interpretante modificherebbe a sua volta il modo di muoversi nello spazio e, in un certo senso, di contribuire a farlo.

Probabilmente, osservandosi da lontano – ma l’effetto si coglie già guardando le foto della Terra scattate dalle sonde lanciate attraverso il pianeta solare o dalla stessa stazione spaziale internazionale – l’osservatore umano vedrebbe sé stesso, la sua storia, gli spazi terrestri, in modo differente. La tendenza a eternare il presente dei terrestri (cfr. F. Menga, Etica intergenerazionale, Morcelliana, Brescia 2021, ed ivi ulteriori indicazioni bibliografiche) ne uscirebbe fortemente relativizzata. Come in una visione accelerata prodotta dal c.d. fast motion, quel che ci sembra forma, se non pure essenza, sarebbe assorbito nel movimento, mostrando costanti insospettate lungo la sequenza di adattamenti che scandiscono il tempo vissuto in quanto sintesi generativa e metaforica tra ogni entità e i suoi Altri, tra le differenze di entrambi rese differenti dal mutamento reciproco. Costanti che potrebbero a loro volta trasfigurarsi man mano che ci si allontanasse dalla Terra e si cambiasse, non solo mentalmente ma anche fisicamente. Molti antropologi (D. Valentine, Gravity fixes: Habituating to the human on Mars and Island Three, in “Hau: Journal of Ethnographic Theory”, 2017, pp. 185–209),  impegnati nell’analisi dell’esperienza umana nella prospettiva dei viaggi cosmici, ipotizzano che il futuro dell’umanità sarà probabilmente quello di esseri modificati geneticamente, magari bionici, gli unici in grado di sintonizzarsi sulle distanze e, quindi, suoi tempi del cosmo, della sua cangiante e poliprospettica simultaneità. Del resto, visto dall’alto di quel futuro possibile, che le condizioni di abitabilità della Terra potrebbero rendere anche l’unico, anche il senso di ciò che è ‘naturale’ o ‘autenticamente umano’, quindi per nulla non post-umano, muterebbe. Tuttavia, già il proporre alla mia stessa mente questa considerazione, in quanto rappresentante individuale della specie umana, certifica un’irruzione del futuro – innescata dalla presente fotografia dello spazio offerta dal telescopio Webb – che modifica l’attualità dell’umano.

Sarebbe di grande interesse un viaggio riflessivo sull’idea di naturalità e, quindi, anche di diritto naturale, nella dimensione spaziale extra-terrestre. Si consideri, in proposito, l’effetto che ha l’assenza di gravità sulla categorizzazione, sulla relazione organismo/spazio, e sull’incorporamento di esso appunto attraverso schemi e abiti cognitivi e comportamentali (per un riferimento alle esperienze degli astronauti in relazione al significato dei diritti umani nello spazio extra-terrestre, vedi M. Ricca,  Cultures in Orbit, or Justi-fying Differences in Cosmic Space: On Categorization, Territorialization and Rights Recognition, in “Int. J. Semiot. Law”,  2018, pp. 829–875. https://doi.org/10.1007/s11196-018-9578-5). Una riflessione che non potrebbe non essere portatrice e intrisa di rigenerazione semantica dovuta al mutamento nella percezione del significato dell’esperienza umana imposta da un’Alterità, la nostra rispetto a noi stessi, coincidente con il porsi al di fuori dello spazio e quindi del tempo terrestri e delle connesse costanti locali. Per esempio, quale potrebbe essere la cifra semantica dei diritti umani da applicare, insieme, a coloro che fossero rimasti sulla Terra e a coloro che vi ritornassero? Considerando che ciascuno dei due sarebbe modificato non solo dal viaggio ma anche dal sapere del viaggio e dalle informazioni ricevute da chi rimane da parte dei viaggiatori: cioè dal dialogo tra queste alterità in trasformazione? Chiedo, al lettore, se la scoperta dell’America non abbia prodotto innanzi tutto nell’esploratore europeo seduto sulle spiagge dell’Atlantico a guardare la sua origine distale, all’Europa, a casa, un mutamento assimilabile a quello appena descritto.

Viaggiare nello spazio sarebbe comunque un viaggiare con lo spazio, uno spazio che si trasformerebbe, e insieme ci trasformerebbe, insieme al suo farsi, al suo procedere. L’intero processo consisterebbe in una costante rigenerazione semantica del ‘distale’ e del ‘prossimale’, da intendersi, per giunta in maniera, onnidirezionale e reticolare. E questo se non altro perché le direzioni del viaggio potrebbero essere innumeri all’interno di un cosmo che, anche a causa della sua immanità (che in senso pascaliano può polisemicamente davvero risultare feroce rispetto a ogni certezza antropica attuale), si presenta, almeno per quanto ne sappiamo adesso, a-centrato. Una mancanza di (pensabilità di un) centro che acquista forma soprattutto se il nostro cosmo è pensato come uno spazio locale immerso in un universo la cui velocità di espansione supera quella della luce. Se ciò corrisponde – come le ultime ricerche sembrano indicare – alla situazione cosmica che ci implica, allora ciò che si allontana da noi più velocemente della luce produce simultaneamente un’espansione dello spazio incolmabile da un’informazione che non possa viaggiare a una velocità superiore a quella della luce. Come in un paradosso di Zenone inscenato negli e dagli spazi siderali, vi sarebbe un orizzonte degli eventi cosmici che non riusciremmo mai a raggiungere. Un’impossibilità che ci rende incapaci di calcolare il dove siamo rispetto a quel che è, a uno spazio che può essere conosciuto solo come non-conoscibile (cfr. L. Susskind, La guerra dei buchi neri, Adelphi, Milano 2009, 369 ss.).

La prima immagine del telescopio Webb, pari a una porzione di spillo dell’orizzonte cosmico, ci costringe a interrogarci in modo irresistibile. Eppure, misteriosamente e quasi inspiegabilmente, essa stessa esce interpellata dal nostro sguardo. Il significato di quell’immagine risulta trasfigurata persino dalla sola proiezione di un viaggio attraverso ciò che la sua visione espone potenzialmente e in modo per ora solo futuribile alla nostra azione. Catturati nella comprensione riflessiva di questo gioco incrociato di sollecitazioni e inferenze semiotiche, l’unica modalità d’essere si presenta l’accettazione di quanto l’Altro, l’Alterità da noi siano l’Altro di noi stessi. Quello che l’immagine del telescopio ci mostra è, in altre parole, parte di noi stessi, sia come passato, sia come futuro, e ciascuno di essi, a sua volta, in ragione dell’Altro. Noi siamo lì in mezzo e non possiamo non porci, perché questo siamo, in movimento (anche quando tentassimo di rimanere fermi, ancorandoci a una immaginaria boa metafisica). Di fronte a quell’immagine, non resta da fare che una constatazione fatale e, al tempo stesso, originaria. Ed è questa: ‘Vedo non so perché’. Dove il ‘vedo’ è, in effetti, un ‘sto vedendo’, un presente continuo riflessivo, che è già un immanente, costante spostarsi in avanti, che trascende continuamente, intrinsecamente sé stesso. L’essere si mostra pensabile solo come continua trans-mutazione, la cui sostanza reagisce sempre, quasi per un endogeno spostamento metaforico, sulla forma. E in questa trasformazione le dimensioni estetica, etica ed esistenziale si danno simultaneamente interpenetrate, scindibili solo sospendendo il gioco mutuamente generativo tra futuro, passato e presente.

‘Vedo non so perché’ mi sembra l’unico commento che possa farsi alla prima immagine del telescopio Webb. ‘Vedo non so perché’ dice dell’iterazione di un infinito inizio che a partire da sé stesso risignifica sia l’origine sia l’orizzonte, rendendo incommensurabilmente mobile ogni ‘distale’, ogni ‘prossimale’. In breve, il mistero dell’intima, costitutiva Alterità di ogni (senso del) presente rispetto a sé stesso. Nella nostra esperienza, anche se non ce ne accorgiamo, gli elementi orchestrati dal pensiero non sono però diversi dai corpi celesti restituiti da Webb alla nostra immaginazione viaggiatrice, che è anticipazione di un’esperienza possibile. Il viaggio nella prima foto di Webb ci fa consapevoli del nostro essere presente che sta avvenendo. Le conseguenze di quella foto e di ciò che essa dice degli umani sulla disposizione antropologica a pensare il diritto, l’esperienza giuridica, a qualsiasi latitudine, potrebbe essere di immensa, cosmica, portata. Questa, però, sarà la nostra storia

 

Senza categoria

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: