UNA SPECIE DI ETERNITÀ
RICCARDO DAL FERRO
Di fronte a ciò che mi sovrasta non mi sento sminuito. Certamente piccolo, ovviamente sperduto, ma per nulla insignificante.
Ovviamente, le immagini provenienti dal James Webb Telescope ci spingono a chiederci quale sia il valore di tutto quel che facciamo. Siamo impegnati ad esplorare lo spazio e la mente, ad innalzare cattedrali in questo piccolo sasso cosmico, a considerare valori inalienabili e diritti universali, ma al cospetto del firmamento così nitido, tutto appare minuscolo, transitorio, effimero.
Ed è giusto che sia così: l’eternità degli astri, come diceva Blanqui, deve atterrire l’essere umano poiché il peggior sentimento da provare di fronte al sublime è l’indifferenza.
D’altra parte, che cosa dovremmo farne di tutta questa piccolezza?
Alcuni sono convinti che essa sia la prova definitiva che nulla ha un significato, che ogni senso è opzionale e ridicolo. Tutto quel che facciamo, dalla dichiarazione dei diritti dell’uomo alle costituzioni democratiche, dalla manipolazione genetica alla mappatura del nostro cervello, tra un milione di anni non avrà alcun valore. Né l’amore che consideriamo così fondamentale, né l’affetto per i nostri figli, né la paura per le incertezze politiche: nulla di tutto ciò ha senso di fronte all’eternità.
Ma ecco che il pragmatista che sta in me risponde: se quel che faccio io oggi non avrà alcun senso tra un milione di anni, perché quel che accadrà tra un milione di anni dovrebbe avere senso per me? Se quel che accade nell’eternità mi può schiacciare, perché dovrei pormi il problema dell’eternità?
Mi rendo conto che la filosofia, fin troppo spesso, ha barattato le questioni pragmatiche a misura d’uomo con le domande universali che ci danno la speranza di poter adottare lo sguardo di dio. Sub specie aerernitatis, così ci piace pensare alla filosofia, vero?
Ma quando Spinoza usò quella formula non avrebbe mai pensato che essa sarebbe stata usata per nutrire tracotanza invece che umiltà. Sì, perché l’idea di poter guardare alle cose “sotto la specie dell’eternità” non significa poter abbrancare d’un colpo d’occhio l’intero creato, ma avere l’umiltà di prendere le distanze dalla pretesa di verità che il nostro sguardo istintivamente nutre.
Nessuno possiede lo sguardo di dio e un pensiero “sub specie aeternitatis” altro non desidera che rendere umile, nella scarsa comprensione degli eventi cosmici, l’essere umano che voglia essere curioso invece di giudicare.
In questi giorni, quando con entusiasmo ho condiviso sui miei social le prime immagini prodotte dal James Webb Telescope, ho ricevuto molte reazioni negative: alcuni erano infastiditi da quel che un “binocolo molto tecnologico” (cit.) poteva mostrarci, alimentando la nostra “vergogna prometeica”, così come Gunther Anders chiamava la sensazione di essere inferiori alle nostre macchine; altri si mostravano oltraggiati dall’idea che si spendessero soldi per quelle foto così buie invece di spenderli per la ricerca sul cancro (non rendendosi conto che una buona parte delle tecnologie legate alla radioterapia devono moltissimo anche a missioni che sperimentano materiali al di fuori della nostra atmosfera); altri ancora, amareggiati, esprimevano il desiderio di non aver mai visto quelle immagini, perché forse l’uomo si è spinto troppo in là, troppo oltre, svelando misteri che era meglio restassero tali.
Devo dire che lo spaesamento di fronte a tali commenti è stato per me più perturbante delle foto del JST stesso, dimostrando ancora una volta che l’esplorazione dello spazio è, in verità, l’esplorazione di noi stessi.
Ma, al netto di tutte queste caricature, ciò che mi è parso lampante è che il fastidio e le obiezioni di fronte ad un obiettivo così incredibile come quello di aver messo in orbita una macchina eccellente, un occhio all’altezza della nostra sete di conoscenza, altro non era che il tentativo di affermare che la propria interiorità avrà sempre la meglio sui fenomeni esteriori. Non importa quanto e cosa scopriremo, la mia sensazione di aver capito di più e meglio non potrà essere scalfita da alcuna prova empirica. E questo, sinceramente, mi pare un grande peccato.
È un peccato perché davvero lo sguardo verso il firmamento è uno sguardo dentro di noi: le immagini del telescopio James Webb non sono “il cosmo in sé” ma la migliore e più accurata rappresentazione che possiamo farci della realtà da noi più lontana e, in questo modo, ci dà uno spiraglio ulteriore su cosa noi siamo in relazione a quella vastità. Come scrisse Stanislaw Lem nel suo capolavoro Solaris: “Non siamo in cerca di altri mondi, il nostro ci basta e ci avanza. Siamo in cerca di gente, vogliamo vederci allo specchio”.
Questo significa che il rifiuto di meravigliarsi di fronte alla vastità che il JWT ci concede è il rifiuto di una parte della propria interiorità. Esplorare lo spazio profondo significa anche guardare a quel che una tale immagine suscita in me; significa mettere in discussione i criteri con cui categorizzo la realtà; significa mettere alla prova la mia capacità di sopportare, concepire, rappresentare. Se Kant aveva ragione (e, dal mio punto di vista, ne aveva da vendere), il JWT è solo un altro modo con cui possiamo nutrire il fenomeno della realtà che si presenta ai nostri occhi: ma siamo sempre noi di fronte a uno specchio a chiederci cosa saremo mai al cospetto di un abisso così insondabile.
Qualcuno potrebbe dire che anche questo è sofisma, che in fin dei conti il gioco non vale la candela, ma io non credo che tale opinione abbia un senso compiuto: tutto quello che siamo è il frutto di chi ha deciso di valicare confini prima ritenuti invalicabili o fin troppo comodi per essere messi in discussione. Tutta la vita umana è l’atto di non accontentarsi del “familiare” o del “casalingo”, per gettarsi nell’Unheimlich e nell’inconcepito. Tutta la vicenda culturale, scientifica e umana di cui siamo portavoce è il salto oltre quel che la maggioranza non avrebbe mai il coraggio di raggiungere o scavalcare.
In fin dei conti, il nostro sguardo di fronte alle foto del JWT, proprio come gli occhi di Aristotele davanti all’orizzonte, ci ricorda tutti i nostri limiti. E i limiti ci rammentano il limite ultimo, quello che non vogliamo mai ricordare: la morte.
Credo che stia tutta lì la tracotanza di chi sbeffeggia una conquista scientifica come quella del James Webb: nel rifiuto di morire. Lo sguardo sub specie aeternitatis, invece di aiutarci a dare un senso alla nostra piccolezza e ai nostri limiti, diventa la scusa buona per espellere la morte, la misura e, di conseguenza, la paura di essere inadeguati. L’atto di umiltà della filosofia si trasforma nell’atto di arroganza della soggettività che vuol vincere sulle altre soggettività e che vuol sostituire le immagini del cosmo in cui ci riflettiamo con il quadro da noi dipinto che vogliamo vedere in ogni momento: un quadro a immagine e somiglianza di quello che immaginiamo di essere, non di quel che vediamo realmente.
Esplorare lo spazio significa produrre nuove immagini del mondo circostante e quindi comprendere meglio come siamo fatti noi. La conseguenza inevitabile è quella di accorgerci che, di fronte a tutto questo, siamo piccoli eppure fortunati poiché possiamo comprendere, all’interno dei nostri umani limiti, alcune cose su noi stessi e sul mondo circostante.
Per questo, in fin dei conti, il James Webb Telescope non è solo un telescopio, uno strumento scientifico: è il nostro sguardo spinoziano, sub specie aeternitatis, che ci rende più umili, più svegli e più consapevoli del nostro eccentrico posto nel cosmo.
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA ENDOXA LUGLIO 2022 Riccardo Dal Ferro VIAGGI NELLO SPAZIO