L’IMMAGINAZIONE COME CHIAVE DI LETTURA DELL’ALTRO DA SÉ

271101168_43d33b79bb_bGIULIA BELTRITTI

La figura dell’altro, del diverso, dello straniero, al posto di divenire elemento perturbante, può rappresentare una preziosa chiave di lettura nella definizione di “identità” all’interno del mondo globale: “Esiste una identità, la mia, la nostra, ma essa può essere costruita all’infinito”, alla domanda “Chi sono io?”: Julia Kristeva afferma che la miglior risposta non è, con tutta evidenza, la certezza, ma l’amore per il punto interrogativo. Nell’epoca del multiculturalismo e dell’iper-connessione diviene così sempre più necessario tenere in considerazione l’altro da sé, vedendolo non come minaccia al proprio mondo interiore bensì come risorsa per ampliare ed arricchire quello stesso mondo, salvandolo dal divenire una monade intrappolata in un universo arido e limitante. Contrapponendosi al paradigma moderno che fa dell’individualismo la chiave di volta di ogni realizzazione del sé, l’altro, il diverso, acquista una valenza a tratti ostile assumendo la veste di impiccio fastidioso, elemento di disturbo che costringe il singolo a oltrepassare i limiti del proprio intimo e rassicurante orizzonte. Essendo tuttavia l’uomo progettato per essere “soggetto relazionale”, dipendente dal mondo e parte costitutiva di quest’ultimo, si fa sentire sempre più forte l’esigenza di un nuovo paradigma che consideri l’altro da sé come un tassello imprescindibile nella costruzione di un universo morale condiviso. Unica entità reale in grado di rendere il singolo vulnerabile e al tempo stesso interconnesso, lo straniero permette all’individuo moderno di consolidare o mettere in discussione i propri ideali, creando al contempo una realtà dinamica, contaminata e in perenne ascolto. Sorge dunque la necessità di una teoria etica che non veda l’altro da sé come miniera da saccheggiare per il proprio tornaconto personale, bensì lo metta al centro della decisione morale e lo renda protagonista della dinamica interna alla motivazione ad agire rettamente.

Fonte di ispirazione per questa nuova “etica relazionale” sembra essere, ad uno sguardo attento, la proposta di R. M. Hare, il quale pone al centro della sua teoria la presa in carico degli interessi altrui grazie al meccanismo dell’immedesimazione. All’interno di tale meccanismo risulta imprescindibile il ruolo giocato dall’immaginazione: è infatti grazie ad un atto immaginativo che il soggetto morale riesce a mettersi nei panni dell’altro da sé, acquisendone al contempo le stesse motivazioni e potendo in questo modo ampliare il proprio punto di vista senza rinunciare all’imparzialità della scelta morale. L’immaginazione dunque, vista come la capacità di pensare il contenuto di un’esperienza sensoriale, in occasione di un particolare stato affettivo, diventa risorsa per far partecipare lo straniero alla propria identità, rendendo questo “co-sentire” un tassello indispensabile in vista dell’equa considerazione di tutti gli interessi in gioco. Per comprendere al meglio come l’immaginazione sia elemento chiave in una teoria, quella di R. M. Hare, di tipo analitico e fondata sulla logica degli enunciati prescrittivi, si deve analizzare come essa si inserisca nella dinamica del meccanismo di immedesimazione. Tale meccanismo diventa rilevante a causa di una caratteristica interna al linguaggio della morale: l’universalizzabilità, ossia il fatto che devono darsi gli stessi giudizi morali su azioni che si ammette essere esattamente uguali o simili negli aspetti rilevanti. Da ciò consegue che, se un soggetto afferma di dover fare una certa cosa ad una certa persona, è tenuto a pensare che la stessa identica cosa debba essere fatta a lui nel caso si trovi nell’esatta situazione dell’altro. Il fatto di dover prescrivere la stessa azione nei casi simili implica che il soggetto tenga in egual considerazione gli interessi di tutti e per far ciò è necessario che egli si immedesimi negli interessi degli altri valutandoli di eguale importanza rispetto ai propri. In altre parole ci si deve rappresentare completamente la situazione dell’altro, attraverso l’immedesimazione, incluse le sue motivazioni e le sue preferenze: questo implica il fatto che il soggetto coinvolto nel giudizio morale, tratti la persona al cui posto immagina di essere, in termini uguali a sé stesso. In questo modo si vuole cercare di massimizzare le preferenze di tutti rispondendo alla seguente domanda: “Il mio giudizio morale è la decisione migliore per ogni individuo che potrebbe essere coinvolto nell’azione e in base a tutte le preferenze e conseguenze in gioco?”. Ne deriva che la prescrizione universale rappresenta la preferenza imparziale complessiva, cioè il principio che noi preferiremmo vedere applicato nelle situazioni simili a questa, a prescindere dalla posizione occupata da noi stessi. Se nessuno infatti è depositario della verità, è dovere di ciascuno riconsiderare i propri ideali: solo tenendo in considerazione le esigenze e i desideri dell’altro da sé, al pari delle nostre, si può pensare a una contaminazione che, anziché restringere, allarghi il panorama valoriale condiviso, rendendoci a tutti gli effetti cittadini del mondo. In vista di tale obiettivo la teoria delle preferenze di R. M. Hare si fonda su un’assunzione portante, che rivendica la possibilità di una piena conoscenza da parte del soggetto morale delle esperienze e degli interessi altrui. Tale consapevolezza gli consentirebbe di compararle con le proprie, applicando poi il calcolo utilitario per giungere a un giudizio morale che faccia il meglio per tutti coloro che sono coinvolti nella scelta e che massimizzi l’utilità generale. Il confronto si attuerebbe in pratica tra le preferenze più o meno intense del soggetto decidente, quelle proprie e quelle altrui acquisite mediante l’immaginazione.

Quest’ultima rappresenta, nel pensiero di R. M. Hare, il secondo dei tre stati necessari al processo di immedesimazione, nel quale ragione e sentimento compartecipano attivamente per rendere la figura dell’altro più accessibile ai nostri occhi. Si nota così che, dopo lo stato cognitivo, basato sulla conoscenza dei fatti empirici relativi alle esperienze altrui, segue lo stato affettivo caratterizzato dal processo immaginativo e, infine, lo stato conativo, ossia la decisione morale di assumere in modo razionale le preferenze altrui come proprie, nel caso queste si rivelino universalizzabili e più benefiche di altre. Per rendersi presenti gli interessi dell’altro dunque, non solo si devono conoscere le esperienze in cui è coinvolto ma risulta indispensabile che l’individuo si metta empaticamente al posto altrui, percependo di conseguenza, in modo immediato e a-razionale, cosa si prova a vivere una determinata esperienza. Lo stato affettivo rappresenta così l’elemento valutativo della decisione morale in quanto, mettendosi nella condizione dell’altro si valuta se favorire i suoi interessi rispetto ad altri nel caso questi portino a massimizzare il benessere generale. Pertanto, facendo un esempio concreto riportato dallo stesso R. M. Hare, si può osservare che, se devo guidare mantenendo la distanza di sicurezza per evitare di causare incidenti che potrebbero provocare danni seri a chi mi precede, devo sapere come si sentirebbe la persona che fosse urtata. Questa osservazione provoca in me la preferenza a non causare una tale esperienza dolorosa, in considerazione del fatto per cui, se capitasse a me, io soffrirei e ciò mi induce a moderare la velocità e a rispettare la distanza. Se ho questa consapevolezza, significa che posso immaginare la sofferenza, anche se non l’ho mai direttamente provata. Chi sperimenta la sensazione di essere al posto dell’altro, mantenendo ovviamente la propria identità, sviluppa senza dubbio la volontà di evitare quel dolore in futuro o di farlo cessare per la persona che lo sta provando. Ma attenzione però: non si tratta di un amalgama indistinto in cui “io” e “loro” diventano un tutt’uno, bensì di un “io morale” che, volgendo lo sguardo verso il mondo, prende consapevolezza dell’estraneità rendendola intelligibile. Qui ancora una volta viene in aiuto Julia Kristeva, che ci ricorda come non si debba integrare l’altro, ma piuttosto rispettare il suo desiderio di vivere diversamente, che si riconnette al nostro diritto alla singolarità.

Lo sguardo omeostatico necessita dunque di un’immedesimazione simpatetica con l’altro, o meglio, di una strategia di “inversione dei ruoli” basata su un ponderato e razionale ricorso alla propria facoltà immaginativa. Ecco che allora quest’ultima diviene un fattore essenziale per un efficace ragionamento morale in quanto essa è connessa alla necessità di saper compartecipare ai sentimenti ed ai desideri degli altri, intendendo con altri tutti quelli che, anche solo di sbieco, vengono

influenzati dalle nostre scelte di condotta: “Requisito del pensiero morale è la completa simpatia, non la pura e semplice empatia”, afferma R. M. Hare. È dunque l’immaginazione, e non la semplice empatia, a costituire il sentimento morale vero e proprio e a fondare le basi per una scelta imparziale. Se infatti attraverso il meccanismo simpatetico veniamo influenzati dai piaceri e dai dolori altrui in modo che la pena o il sollievo provati ci spingano ad approvare o disapprovare le condotte che provocano negli altri piacere e dispiacere, tale sentimento non è ancora definibile come sentimento morale. Questa capacità di co-sentire, risentendo della vicinanza e della lontananza rispetto alle relazioni che noi abbiamo con le persone con cui simpatizziamo, dà luogo a una benevolenza limitata: in altre parole l’empatia è un principio necessario ma non sufficiente per la moralità. Solo la facoltà immaginativa ci permette di allargare il nostro punto di vista in modo illimitato facendo sì che l’approvazione o la disapprovazione di una condotta non venga influenzata dal tipo di relazione che noi abbiamo con chi agisce o con chi subisce gli effetti dell’azione, ma si trasformi in imparziale considerazione di tutti gli individui, anche di coloro che non sono necessariamente in diretto contatto con noi. La conseguenza che ne deriva è la costruzione di un contesto mentale più ampio che non guarda alla parzialità dei nostri sentimenti immediati, ma li analizza riflessivamente e criticamente grazie a una approvazione o disapprovazione che si caratterizza per la sua stabilità e autorevolezza. Solo così l’obbligo morale può estendersi dalle relazioni tra vicini e cari agli altri distanti e all’umanità in senso ampio, di cui si può immaginare la vulnerabilità, superando i limiti intrinseci alla comunicazione simpatetica, limitata da fattori come la vicinanza, l’affetto o la somiglianza. In questo modo, stranamente, lo straniero ci abita: è la faccia nascosta della nostra identità che chiede di essere riconosciuta e legittimata. Risulta così evidente come l’immaginazione, dal punto di vista di R. M. Hare, rappresenti la possibilità di aprire e trasformare i nostri panorami mentali e farci cogliere non solo l’esistenza di altri, ma soprattutto l’interconnessione morale che essi hanno con noi. Allargando il nostro punto di vista diventiamo capaci di accedere a intere grammatiche del piacere o del dolore diverse dalla nostra, e quindi anche di mettere quest’ultima in discussione permettendoci di entrare in contatto con l’alterità senza sovrapporci ad essa, bensì vedendola per ciò che è: l’unica possibilità che ci rimane per la costruzione di un universo morale più equo e interconnesso.

sky mirror | squircle” by striatic is licensed under CC BY 2.0.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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