LE RADICI SONO IMPORTANTI

307412741_3266965920217667_7598717878020828270_nPEE GEE DANIEL

Flit si aggirava a piccoli passi per il corridoio con le mani sopra le reni, la schiena bella dritta per osservare per l’ennesima volta la via crucis di foto di famiglia che accompagnavano l’ospite dall’anticamera sino al tinello, che era l’ultima stanza della grande casa.

Quante volte nella sua vita aveva percorso quella sequenza di ritratti, sin da piccino, sin da quando per guardarli dritto per dritto doveva salire sulle spalle del cuginetto, e ogni volta che i suoi sottili occhi a mandorla ci si erano posati sopra l’impressione era sempre stata la medesima: “Io non appartengo a costoro!”.

Sin dalla più tenera età si era fatto convinto che le sue origini dovessero essere rintracciate parecchio distante dall’avita magione dei suoi, e d’altronde non ci voleva poi molto ad accorgersi delle differenze fisiognomiche e antropometriche. Lui scuro, magro, lungo, loro, tutti loro, bianchicchi, biondo-rossicci, grassocci, bassetti.

Nelle riunioni di famiglia appariva come una mosca in un bicchiere di latte. Il fatto che li sopravanzasse di almeno una spanna, già dai tredici anni in poi, lo faceva spiccare in ognuna di quelle immagini incorniciate, rendendo ancor più evidente la discrepanza. Un gruppo di famiglia di una cinquantina di cristiani e lui l’unico con quell’aspetto.

L’unica caratteristica che lo imparentasse alla schiera dei McGuffin, almeno ai membri maschi della casata, erano i baffi. Non c’era un McGuffin in tutta la zona compresa tra il fiordo di Tay e il fiordo di Forth che dalla pubertà in poi non sfoggiasse un bel paio di mustacchi. Quelli a manubrio erano i più frequenti.

Con lui non avevano insistito. Era lui che se li era fatti crescere, come a ribadire un’affiliazione che l’occhio tendeva a non cogliere. I barbigi ricci, stentati, duri, neri come stecche di liquirizia, tuttavia, non facevano che rimarcare la differenza col resto del parentado per quanto stonavano se giustapposti ai fulvi cespugli che schiumavano i prolabi altrui.

“Ho fatto bene!” si congratulava con se stesso in attesa di essere convocato per la cena in compagnia dei famigliari, mentre finiva di osservare un po’ sommariamente le tante riunioni comandate.

Aveva fatto bene a contattare quel sito internet, questo intendeva. “DNA Research” era il nome. Ci si iscriveva, si pagava una quota di un centinaio di sterline, quelli inviavano a casa un kit per isolare il corredo genetico e, quando lo si fosse rispedito al mittente, avrebbero localizzato le origini del richiedente in base ai suoi fenotipi.

Flit si era già perlustrato il cavo orale con l’apposito scovolino, che poi aveva provveduto a rispedire alla ditta, sigillato nell’apposita soluzione di mantenimento. C’era solo da attendere qualche giorno per l’elaborazione delle tracce organiche. Si era ormai agli sgoccioli.

“Flit, è pronto! Manchi solo tu!” udì riecheggiare dalla spaziosa sala da pranzo. Ci si avviò con passo flemmatico, sbirciando ancora una volta tutti quei volti pallidi o rubizzi, a secondo delle quantità di whiskey ingerite, contornati da lucenti criniere color grano.

Aveva cominciato ben presto a sospettare di essere rampollato da un seme diverso da quelli ospitati dai soffici lombi dei McGuffin. Per quanto i cuginetti lo trattassero alla pari e non uno dei beneamati congiunti avesse neanche mai lontanamente suggerito una tale eventualità, quella semplice quanto innegabile constatazione era da sempre motivo d’angoscia per lui.

Che fosse frutto di un tradimento era quantomai implausibile: non c’erano che frotte di celti slavati e ricoperti di una peluria arancione fino a migliaia di miglia di distanza da lì, e la madre del resto era sempre stata una persona sedentaria e senza troppi grilli per la testa.

Quello che aveva girato il mondo era il padre, in qualità di etnografo, anche se ormai era da molti anni che aveva stabilito una duratura stanzialità presso i suoi luoghi d’origine, almeno da quando era stato creato cattedratico presso la vicina facoltà accademica.

Erano sempre stati tutti buoni e comprensivi con lui, questo non poteva negarlo, ribadì a se stesso, mentre affondava i denti dentro uno stufato di pecora con cipolle e il sugo bruno gli impiastricciava i baffi crespi e il mento. Non ci sarebbe stata famiglia migliore in cui crescere, certo, anche se questo non gli bastava più, già da un pezzo. Gli erano anzi attaccatissimi. Ancora ricordava le ultime parole del nonno ormai moribondo, quando si era congedato da questo mondo avvicinandolo a sé e sussurrandogli in un orecchio la misteriosa frase: “Bene ha fatto tuo padre a strapparti alle grinfie di quei selvaggi!”.

Ora fremeva.

Ingollò gran parte della cena spiccicando poche parole di circostanza. La sua testa era altrove. Sullo smart-phone gli era appena giunta la notifica che la DNA Research aveva concluso le sue analisi sugli aminoacidi ordinari che, in gruppi da venti, andavano a costituire le molecole proteiche che individuavano i suoi caratteri ereditari. Non vedeva l’ora di correre a casa a consultare il portale.

Bastava inserire user name e password. Il sistema prevedeva una sezione dedicata alle radici genetiche di quello specifico account.

Quando finalmente venne il momento, all’ultimo clic gli si squadernò davanti agli occhi la carta geografica del mondo colorata di un grigio sbiadito, marcata in un solo punto da un azzurro piuttosto intenso. Strano, meditò prima ancora di puntare il naso sull’alone che circoscriveva la piccola porzione di mappa: di solito i nostri genomi provengono da almeno cinque o sei parti del pianeta, anche molto distanti tra loro. Difficile che la propria filogenesi sia tutta circoscritta in un’area tanto ridotta.

Inforcò gli occhiali e scoprì che secondo quanto era venuto fuori dai macchinari a centrifuga dei loro laboratori, il sangue che ribolliva nelle sue vene trovava la sua matrice in un’isola sperduta nell’oceano, così piccola che si faticava a distinguerla da un minuscolo puntino sullo schermo. “Wawaguy” lesse, ingrandendo l’immagine. Mai sentita.

I giorni dopo si informò su come raggiungerla. Non sarebbe stata una passeggiata, da quello che afferrò subito. Eppure non c’era ostacolo al mondo capace di frapporsi tra lui e il profondo bisogno che sentiva di conoscere la propria reale scaturigine. Era come un nucleone calamitato dal nucleo originale, questa era la sensazione.

Ci volle più di un giorno di volo, con quattro coincidenze. Atterrato agli antipodi rispetto al luogo donde era salpato, fu condotto da una jeep scassata fino alle propaggini della civiltà, laddove l’ultima strada di terra battuta cedeva il passo a una natura fitta e rigogliosa. Tra foreste di mangrovie e predatori con tre occhi e quattro file di canini giunsero fino a una piccola pista, ricavata a colpi di machete. Da lì si imbarcò su un biplano male in arnese che lo trasvolò sino a un marcio porticciolo che si protendeva sulle acque melmose di una vasta laguna.

Da lì un barcaiolo sdentato lo pagaiò sino a un isolotto non più largo di un cargo commerciale, dal cui centro torreggiava un vulcano dal comignolo fumante. Ecco quella che poteva finalmente chiamare casa!

Una volta approdato, partì dritto al naso, un piede davanti all’altro, attratto dall’accrocco di capanne che il suo occhio coglieva oltre una linea di palme. Quando fu abbastanza vicino poté udire un lungo fischio seguito dal rumore simultaneo di una moltitudine di ipotetici flagelli che fece vibrare l’aria tersa sopra la sua testa.

Non ebbe il tempo di ragionare che già un cerchio di lance acuminate gli si era conficcato nel terreno tutto attorno, componendo una gabbia estemporanea più alta di lui. Subito a seguire gli piovve in testa una rete di canapa che gli si strinse addosso fino ad agglutinarlo.

Si sentì trascinare per molti metri, lasciando un solco nella bianca sabbia dietro di lui. Quando il trasloco si arrestò, una corona di volti incuriositi occupò il contorno del suo campo visivo. In quei volti riconobbe se stesso. Era la prima volta in vita sua che gli capitava.

Stesse tonalità, stesse forme, stessa plica oculare. L’emozione fu ulteriormente acuita quando comprese che anche i suoi osservatori si rispecchiavano nelle sue fattezze, tanto da liberarlo immantinente, metterlo comodo e offrigli cibarie e bevande al cocco molto dissetanti.

Parlavano un linguaggio incomprensibile, fatto di schiocchi di lingua e suoni gutturali, eppure si capiva di come si stupissero dei suoi vestiti e di quei baffi stentati che gli coprivano il labbro superiore, mentre tutti gli altri lì si presentavano glabri e vestiti solo di uno striminzito gonnellino. Per non parlare delle donne, che giravano sotto il sole con i seni turgidi al vento.

Si parlavano a gesti più che altro. Gli fu chiaro che quell’esiguo gruppo umano lo riconosceva come proprio membro. Un sentimento caldo e rinfrancante lo pervase.

“Alla fine sei tornato!” esclamò a schiocchi e gutturali il vecchio che aveva delle penne di pappagallo appuntate tra i capelli. Flit assentì sulla fiducia.

Pernottò sotto il tetto di un milione di stelle, si cibò di platano e frutti sugosi, si rotolò nella sabbia con giovani ragazze, si lavò nelle acque verdi di una piscina naturale.

A meno di una settimana il vecchio con le penne di pappagallo in testa lo chiamò da parte. Gli fece un lungo discorso a schiocchi e gutturali cui lui assentì sulla fiducia per tutto il tempo.

In conclusione, il vecchio emise un lungo fischio, portandosi i mignoli agli angoli della bocca. Giunse una coppia di omoni, che recavano una ciotola rudimentale dentro cui ardeva un fuocherello alimentato da tanti bastoncini. In mezzo al fuoco c’erano dei gusci di noce arroventati.

Il vecchio ne prese uno con la punta delle dita callose.

La coppia di indigeni fece il giro per afferrare Flit per le spalle e tenerlo fermo. Flit non capiva.

Il vecchio avvicinò il guscio di noce arroventato ai baffi di Flit tanto da strinarli completamente, non curante delle urla di dolore del nuovo arrivato.

Sotto i peli bruciati apparve un piccolo tatuaggio, fatto anni prima proprio in quelle sperdute lande. Si notava il disegno di un vulcano sormontato da una falce di luna.

Siccome era stato fatto quando Flit non era che un pargoletto, la crescita tissutale lo aveva dilatato sino a deformarlo.

“È lui il prescelto!” confermò il vecchio a schiocchi e gutturali. Flit non capiva.

All’imbrunire fu scortato su per una stradicciola che conduceva sino alla cima del vulcano. Lui seguì le guide docilmente, convinto che si trattasse di una specie di gita turistica.

Ad attenderli c’era un altarino composto da arbusti intrecciati. Sopra l’altare c’era una grossa zucca cava. Gli fecero cenno di portarla alla bocca.

Appena la avvicinò alle labbra avvertì un odore forte e dolciastro. Non era acqua di cocco quella!

Gli intimarono di bere, sempre più incupiti. Di fronte alle sue titubanze, gli spinsero il contenuto della zucca giù per la gola sino all’ultima goccia.

Si sentì subito stordito. Chiedeva chiarimenti, ma la piccola folla intorno a lui lo fissava di rimando con assoluta indifferenza.

Incominciò a barcollare sull’orlo del vulcano, che gli buttava addosso dei vapori sulfurei.

Il vecchio con le piume di pappagallo si fece avanti. Gli diede una garbata spintarella con la punta dell’indice. Flit cadde dentro la bocca del vulcano, gridando: “Ma che fate, stronzi?”.

L’antico destino era stato infine adempiuto.

ENDOXA - BIMESTRALE LETTERATURA

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