CHE COS’È LA FILOSOFIA? L’ESSENZA DELLA FILOSOFIA OLTRE LA DISTINZIONE FRA ANALITICI E CONTINENTALI
GAETANO LICATA
- Definizioni di filosofia
Porsi la domanda che «cos’è la filosofia?» significa già fare filosofia, e trovarsi nella condizione dell’esule, dello spaesato. La filosofia, sostiene Heidegger, è un campo vasto e indeterminato; “indeterminato” significa che il pensatore, non appena viene posta la domanda sulla definizione della sua attività, si ritrova in qualche modo estraniato rispetto all’elemento del suo operare. La determinazione della filosofia è opera di quanti cooperano alla costruzione del sapere, nei suoi ambiti disparati, e preservano, ad un tempo, il senso stesso dell’indeterminatezza. Non esistono ambiti del sapere che non possano essere anche filosofici, né si possono limitare a priori i temi, le linee di ricerca e gli stili di pensiero. La filosofia, si dice, è ricerca della verità. Questa la definizione più comune, e quindi anche la più coprente rispetto ad un possibile punto di vista nuovo, che potrebbe affondare le sue radici nella tradizione antica. La filosofia è quella ricerca della verità che ha dato origine alla nostra scienza e quella attitudine critica che mette in dubbio, limita e determina questo stesso spirito di ricerca. La storia ed il sentire storico stabiliscono, col loro divenire di valori e di fini per l’uomo, l’adeguatezza delle linee di ricerca che estendono, di epoca in epoca, la nostra conoscenza e l’opportunità delle scelte pratiche che guidano i nostri comportamenti, sulla base di qualcosa che rimane sempre da pensare. “Filosofia” e “scienza” sono, in definitiva, due nomi che diamo ad aspetti diversi di una medesima impresa, a qualcosa di unitario. Sennonché la parola greca “philosophìa” ci parla da un sostrato antico che distingue ed avvicina saggezza e conoscenza scientifica, che include la riflessione sull’agire umano e sulla vita in comune, oltre che lo studio delle forme argomentative che fondano questi saperi. Queste possono essere risposte soddisfacenti da un punto di vista “meta-filosofico”, il punto di vista che cerca di stabilire il posto della filosofia fra le altre attività umane. Ma tentiamo di intraprendere un “ritorno a casa” dalla condizione di esilio e di estraniazione in cui ci pone l’inquietante domanda sull’essenza della filosofia.
- Wittgenstein: la funzione della filosofia
Il giovane Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus non vede nella filosofia nient’altro che un’attività di analisi del linguaggio e di verifica della sua sensatezza: il problema a cui Wittgenstein vuole trovare soluzione è l’individuazione delle condizioni in base alle quali le proposizioni sono dotate di senso. Le proposizioni filosofiche classiche sono dei “non-sensi” (4.003), in quanto hanno la presunzione di pronunciarsi su ciò che va al di là del mondo, al di là di quei “fatti” reali che le proposizioni sensate del linguaggio raffigurano. Questioni quali il mondo nella sua totalità, il suo senso metafisico (6. 44), l’etica (6. 42) o gli enigmi riguardanti la morte (6.4311 e 6.4312) non possono essere poste legittimamente come problemi filosofici. Per tutto ciò che appartiene al senso del mondo, della vita e della morte non esiste linguaggio sensato: è qualcosa di ineffabile cui Wittgenstein dà il nome di «mistico». Facciamo un esempio: la proposizione «la neve è bianca» è “sensata” in quanto riproduce uno stato di cose verificabile e i segni che essa contiene si riferiscono ad aspetti effettivi del mondo; lo stesso non può dirsi della frase: «dopo la morte rivedremo i nostri cari». La filosofia classica, che da sempre è stata anche e soprattutto metafisica, e che ha cercato risposte su Dio, sull’anima e sul mondo, deve dunque subire una radicale trasformazione. Il viennese paragona le proposizioni filosofiche ad una scala che ci permette di raggiungere un certo scopo ma che, nel momento stesso in cui ha assolto la sua funzione, deve essere abbandonata (6.54). Se il ruolo della filosofia è unicamente quello di fare critica del linguaggio, nel senso di ripulire e distinguere le proposizioni della scienza e, in generale, quelle dotate di senso dall’“ineffabile”, allora la filosofia non si presenta più come una dottrina o come un “sistema” di pensiero: essa rimane una semplice attività di chiarificazione del significato. Wittgenstein riattualizza così l’atteggiamento empirista e pragmatista della cultura filosofica anglosassone, rilanciandolo nella successiva tradizione analitica; eppure nella proposizione 6.52 egli afferma: «Noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati».
Nelle Ricerche filosofiche, trent’anni dopo, non si assiste ad un particolare spostamento di prospettiva riguardo alla funzione della filosofia: i risultati che essa consegue sono ancora la scoperta dei non-sensi, dei bernoccoli che l’intelletto si fa cozzando contro i limiti del linguaggio (§ 119). La filosofia su cui riflette ora Wittgenstein, rispetto al Tractatus, è specificatamente “filosofia del linguaggio”: dominante è il rifiuto dell’atteggiamento normativo della teoria. I nostri giochi linguistici non sono studi preparatori per una futura regolamentazione del linguaggio, approssimazioni idealizzate del linguaggio perfetto: essi sono termini di paragone che, attraverso somiglianze e dissomiglianze, possono gettare luce sullo stato di fatto del nostro linguaggio (§ 130). Vogliamo mettere ordine nella nostra conoscenza dell’uso del linguaggio, un ordine per uno scopo determinato, uno dei molti ordini possibili: non l’ordine. A tale scopo metteremo continuamente in rilievo le distinzioni che le nostre usuali forme linguistiche ci fanno trascurare. Da ciò può sembrare che puntiamo a riformare il linguaggio. Una tale riforma volta a determinati scopi pratici, come il miglioramento della nostra terminologia per evitare fraintendimenti nell’uso pratico, è possibile; ma non sono questi i casi con i quali abbiamo a che fare quando cerchiamo comprendere il linguaggio. Le confusioni a cui abbiamo accennato sorgono quando il linguaggio gira a vuoto, non quando è all’opera (§ 132). Non vogliamo raffinare o perfezionare il sistema di regole per l’impiego delle nostre parole. La chiarezza cui aspiriamo è una chiarezza completa, ma questo vuol dire soltanto che i problemi filosofici devono svanire del tutto. La vera scoperta è quella che mi permette di smettere di filosofare, quella che rende superflua la filosofia, così che essa non è più tormentata da questioni che si interrogano sulla filosofia stessa – e col “tormento” lo spaesamento che coglie chi si domanda «cosa è la filosofia?» rischia di divenire vera e propria alienazione. Invece si indica un metodo fornendo esempi; e la serie degli esempi si può interrompere: vengono risolti problemi, non un problema. Non c’è un metodo della filosofia, ma ci sono tanti metodi, tanti differenti terapie (§ 133). La funzione della filosofia risulta essere quella di “curarci” dai nonsensi, dalla mancanza di chiarezza dei problemi scientifici e dal dogmatismo in cui si cade quando si pretende di riformare il linguaggio, credendo che esista un solo modo di mettere ordine in esso. Il fatto che quel che si può fare col linguaggio è soltanto “descriverlo” è connesso al fatto che nel linguaggio quotidiano è depositata una norma ed una struttura concettuale che nessuna filosofia e nessuna teoria normativa possono alterare, pena il fallimento della teoria, proprio come una vanga che si piega sulla roccia.
Il compito della filosofia non è, in definitiva, quello di farci giungere alla scoperta di qualcosa di nuovo, ma quello di sciogliere le stesse problematiche filosofiche attraverso una attenta descrizione del linguaggio “reale”. La risposta di Wittgenstein alla domanda sull’essenza della filosofia è così molto pragmatica, riguarda problemi concreti e specifici: il filosofare è una terapia propedeutica di chiarezza per i problemi scientifici e per la filosofia stessa che, nel momento in cui opera adeguatamente, sparisce come problema, eliminando quel senso di spaesamento che la domanda sull’essenza della filosofia provocava.
2.1 Oltre la distinzione fra analitici e continentali
La domanda “che cos’è la filosofia” riguarda l’essenza di un’attività che ci mette in contatto con la nostra intera humanitas, col nostro essere uomini in comunità: è questa una chiave importante per fare della risposta alla domanda sull’essenza della filosofia una risposta che “pensa” e non una tesi solo erudita. La domanda è socratica e platonica… e se noi rispondessimo alla domanda dicendo che la filosofia è proprio la ricerca dell’essenza, lo stabilire le definizioni logiche degli enti dei quali ricerchiamo una conoscenza scientifica, non saremmo tanto fuori strada; ammesso che accettiamo una visione storica, colta e non improvvisata del fare filosofia. Del resto è proprio Aristotele, padre della filosofia e della scienza, ad affermare nel libro Z (Cap. 1, 1028b 2ss) della Metafisica, che “ciò che fin dall’antichità, e anche ora e sempre, ricerchiamo e problematizziamo è questo: che cos’è l’essere?”. Questa domanda, che secondo Heidegger chiama in causa la differenza degli essenti rispetto all’essere e la meraviglia che essa genera, provoca il cercare gli enti sulla base di una verità “greca” che è caratterizzata come alètheia, dunque come atteggiamento di scoprimento delle essenze della natura in un senso non religioso o magico, ma empirico. Ma la domanda è in realtà pensata da Aristotele, molto concretamente, in riferimento alla definizione logica delle sostanze: lo strumento tecnico di sistemazione della conoscenza, in vista di quella “filosofia per l’uomo” che è finalizzata alla buona vita della polis (Etica Nicomachea, X, 9).
Vorrei rispondere alla domanda sull’essenza della filosofia oltre certi steccati culturali, cerco una risposta unitaria che identifichi chiaramente l’attività filosofica nella differenza fra le scuole e nella comunanza della tradizione. Gli stili di pensiero che oggi, in modo approssimativo, influenzano maggiormente gli studi filosofici sono la tradizione analitica e quella continentale. Sebbene questa dicotomia contrapponga uno stile preciso (quello analitico) ad una grande varietà di stili e tradizioni, idealismo, esistenzialismo, ermeneutica, post-strutturalismo, fenomenologia, ermeneutica, neoscolastica (quelli continentali), essa è comunque densa di spunti per la comprensione di cosa significa filosofare. Queste due tradizioni odierne rimandano alla distinzione, risalente a Guglielmo da Occam, fra un indirizzo anglosassone nominalista ed empirista e il resto delle scholae medievali, ed alla distinzione, in epoca moderna, fra carattere empirista della filosofia inglese e carattere metafisico/innatista delle tradizioni tedesche francesi italiane e continentali in genere; rimandano inoltre, alla decisiva distinzione fra platonismo e aristotelismo che ha caratterizzato la filosofia medievale e la tradizione occidentale nel suo complesso. Queste due tradizioni si presentano oggi come inconciliabili, molto più della distinzione di stili che può esistere fra le diverse tradizioni continentali: lo dimostra il lavoro di sintesi fatto da molti filosofi continentali, Heidegger per primo. Non esistono ambiti del sapere che non possano essere anche filosofici, né si possono limitare a priori le linee di ricerca e gli stili di pensiero, ma l’indeterminatezza va riconosciuta e, in alcuni casi, custodita per mantenere un atteggiamento umile di fronte al nostro sapere e di fronte al nostro agire tecnico: è necessario accettare il nostro non sapere ed il nostro non comprendere, accogliere remissivamente il mistero della nostra esistenza e del cosmo; è necessario accettare di spostare le linee della nostra ricerca da ambiti che possono rivelarsi poco proficui – o addirittura deleteri – ad ambiti fondamentali per la protezione dell’uomo e del mondo naturale. La ricerca del vero è sempre guidata da fini e valori etici connessi alla concezione che l’uomo ha di sé stesso e del proprio cammino storico. La custodia dell’indeterminatezza, e il porre indirizzi e limiti al sapere, è proprio uno specifico tratto della filosofia rispetto al progredire spesso cieco delle scienze.
Andare oltre la distinzione fra analitici e continentali, significa cercare qualcosa di unitario, qualcosa che vale per entrambi i versanti come decisivo. Quanto emerge dalle riflessioni wittgensteiniane sulla filosofia, dalla discussione che Heidegger conduce nella conferenza Was ist das – die philosophie (1955), e quanto emerge dalle riflessioni aristoteliche più generiche riguardo al fare filosofia, mi sembra qualcosa di unitario: qualcosa sul quale Pierre Hadot ha recentemente insistito in merito alla filosofia greca. Il conoscere, la messa a punto delle definizioni logiche, il mettere ordine nelle conoscenze scientifiche, cui la filosofia è votata, sono tutte azioni finalizzate ad un obiettivo riguardante la vita delle comunità ed incentrato su un principio di saggezza spirituale molto più che su un principio di ricerca della conoscenza intesa come accumulazione disordinata di informazioni. Se la parola “filosofia” significa “ricerca” essa non ha a che fare esclusivamente, né prioritariamente, con la ricerca del vero in senso conoscitivo: questa ricerca del vero è anzitutto una ricerca del bene, in un senso più profondo di “vero” per il quale vero e bene coincidono.
- La filosofia come cura dell’anima
Dunque «che cos’è la filosofia?». Possiamo dare solo definizioni transeunti: al di sotto di esse scorre l’indeterminatezza della vita che rimane comunque da pensare. L’attività del ricercare si pone nell’alveo destinale della sua essenza – e del ritorno dallo spaesamento che la domanda sulla filosofia suscita – quando comprende che la ricerca della verità è finalizzata al bene della polis. Alla luce delle posizioni wittgensteiniane sembra che la filosofia possa rimanere inutilizzata nell’arsenale umano degli stili di vita e di soluzione dei problemi, divenendo un semplice “discorso preliminare” rispetto alla scienza. Contrariamente a quanto sostenuto da Heidegger nella Prolusione Was ist Metaphysik (1929), la filosofia non sarebbe in alcun modo indispensabile e naturale: le comunità umane potrebbero vivere tranquillamente senza filosofia e la nostra scienza potrebbe recidere il legame col pathos di stupore che l’ha generata. Ma rinunciare alla filosofia ci getterebbe nel pericolo storico più estremo, e sarebbe un voltare le spalle alla nostra identità e al nostro spirito. Siamo pronti a rinunciare ad una tradizione, ad un modo di fare e di risolvere i problemi così utile? Ho parlato di “utilità” e l’ho detto in cosciente contrasto con quanti sostengono che la filosofia sarebbe inutile ai fini pratici, limitandosi a rispondere ad esigenze puramente teoriche e contemplative; o in contrasto con quanti sostengono che la filosofia, come regina scientiarum, sarebbe il fine ultimo del conoscere, non finalizzato a nient’altro. In realtà la filosofia ha innumerevoli ambiti di applicazione specifici: sono tutte le domande che le scienze e le attività specifiche lasciano senza risposta e che l’esistenza umana pone in base alla propria natura. Sì, possiamo sforzarci di trovare nomi specifici per ciascuna di queste attività col fine di escludere il nome “filosofia”, e l’idea del giovane Wittgenstein, secondo cui la filosofia non sarebbe altro che una attività di chiarificazione del senso delle proposizioni, calzerebbe a pennello ad un tale riduzionismo. Ma oltre qualsiasi riduzionismo materialista, positivista, deflazionista, nominalista o antifilosofico, una tradizione di pensiero libero, di dialogo aperto e tollerante, caratterizza il fare filosofia da due millenni e mezzo. Questa tradizione si è sviluppata in Europa, così come in Europa sono germogliati il cristianesimo e l’illuminismo. Ovviamente questo non conferisce all’Europa alcuno status o alcuna dignità particolare, né fuori dall’Europa la filosofia ha meno valore o meno forza. Semplicemente diciamo che la filosofia è un portato storico specifico della cultura europea.
In definitiva la filosofia rimane, come Pierre Hadot ci ricorda, una forma di cura dell’anima; pur nella sua costituzione logico-conoscitiva, essa è un “prendersi cura della comunità a partire dal nostro personale operare in vista degli altri e del mondo naturale”. Se la filosofia come ricerca del vero è, in senso più proprio, ricerca del bene, e la ricerca del bene riguarda anzitutto la comunità di coloro che coabitano lo stesso luogo, allora la filosofia acquista quel carattere imperituro – questa volta non legato alla prototipìa storica degli stili di pensiero – di “cura dell’anima” perché, come Platone insegna nella Repubblica, solo la cura dell’anima può essere il bene della città. Il primo Coro dell’Antigone di Sofocle fa riferimento a questo stesso senso del bene della polis (anche in connessione alle capacità tecniche) come legato alle leggi della terra comune e alla giustizia degli dèi; bene che può essere violato, pena l’esilio e la perdita della polis, dalla tracotanza di chi lo sfida. Ed ecco il rischio di un ulteriore esilio, legato ma distinto rispetto a quello del filosofo, che mette l’uomo non più umano fuori dalla comunità.
3.1 Il principio nascosto della filosofia
Ed è questo il principio nascosto della filosofia cui ho accennato in studi passati: il fatto che sotto l’essenza della filosofia, intesa come ricerca della verità (principio improntato all’epistème), si cela quel principio più profondo e vivificante della filosofia che è la ricerca del bene (improntato alla phrònesis). Perché la filosofia, come l’umanismo cui fa riferimento Heidegger nel Brief über den “Humanismus” (1946), è anzitutto cura che l’uomo rimanga umano e non divenga non-umano, in nessuna circostanza… nemmeno se ci si trovasse a difendersi in una guerra nella quale si è aggrediti. Ed il nascondimento di questo ulteriore principio sotto il primo non richiede ulteriori articolazioni di contenuto: esso richiama costantemente il pensiero e l’attenzione proprio a partire dal suo celarsi; la storia lo riscopre alla civiltà di volta in volta, in modo nuovo: ed è questo specifico “rispettoso scoprire” la tradizione più importante e più liberante che può essere trasmessa alle nuove generazioni, “libere” proprio grazie al loro dialogo col passato storico. Non è questa cura che l’uomo rimanga umano, e non divenga disumano, un obiettivo che può essere perseguito senza intendere la cura dell’anima come focalizzata intorno alla “compassione”, intorno a quell’umanitarismo solidale, coinvolgente il creato, che proviene dalla humanitas antica e che viene tradotto nella cultura europea moderna grazie alle scholae medievali. La compassione, come inquietudine e cura per gli altri, è la sola virtù in grado di fare crescere le nostre comunità in armonia col mondo naturale nel quale si radicano: essa, come sympàtheia, può essere un allargamento alla comunità di quel pathos che Platone (ripreso da Heidegger) indica come nome dello stupore e del domandare inquieto che dà principio al pensiero filosofico; una virtù, la compassione, sulla quale ha fortemente insistito il cristianesimo nel suo secolare coinvolgimento con la filosofia e con la cultura dell’occidente europeo.
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA Endoxa Novembre 2022 Gaetano Licata Tractatus 101