LUDWIG E INA

Cop. ISBN INA E LUDWIG

Ludwig Wittgenstein, che s’era arruolato volontario nell’Esercito imperialregio all’inizio della Grande guerra, fu fatto prigioniero a Trento nel novembre del 1918 e poi internato per alcuni mesi in un campo di prigionia a Cassino. Dopo la guerra, la sconfitta e la prigionia, rientrò in Austria trasformato e subito diede un taglio netto e radicale alle sue abitudini di vita: rinunciò agli agi del suo patrimonio donando alle sorelle l’assai cospicua eredità paterna, abbandonò il palazzo viennese in cui era cresciuto, la vita cittadina, gli studi di filosofia e se ne andò per alcuni anni a fare il maestro elementare in piccoli centri alpini. L’unica cosa che almeno all’inizio continuava a legarlo alla sua vita precedente era la sorte d’un manoscritto che negli anni della guerra e nei mesi della prigionia non aveva mai cessato di rielaborare e che solo nel 1921 sarebbe poi riuscito a far pubblicare da una rivista specialistica. L’anno seguente, tradotto in inglese, introdotto da Bertrand Russell e pubblicato come libro, quel prezioso manoscritto, sopravvissuto a tante avventure, diventò il Tractatus logico-philosophicus.

Al breve soggiorno italiano di colui che stava per diventare l’autore d’uno dei classici più letti e commentati della filosofia del Novecento, è dedicato un romanzo breve (Ina e Ludwig, Asterios Editore, Trieste 2021), apparso esattamente cent’anni dopo la prima edizione di quella che resta la sola opera filosofica pubblicata durante la vita di Wittgenstein.

 Ina e Ludwig, pur parlando d’un grande filosofo, non è un libro di filosofia; pur narrando vicende storicamente accertate e documentate, non è un libro di storia. È invece un’opera letteraria, che mette a fuoco – e permette di comprendere meglio – un elemento centrale nella personalità di Wittgenstein, cioè quel qualcosa che all’indomani della guerra l’avrebbe indotto a cambiar vita. In questo “qualcosa” svolge un ruolo centrale Ina, una bimba di circa sei anni, che tutti consideravano “disabile”, perché incerta sulle gambe e incapace di parlar bene, ma capacissima di sorridere e comunicare con Ludwig, che in qualche modo le faceva da maestro, e che poi avrebbe finito per trarre proprio da lei ispirazione per le sue successive scelte di vita.

L’autore di Ina e Ludwig è Tommaso Di Francesco (poeta, romanziere e giornalista), che s’ispira ad una vera pagina di diario sulle terribili difficoltà materiali nelle campagne romane nel periodo della fine della Prima guerra mondiale. Più precisamente, il romanzo di Di Francesco prende spunto da una pagina del diario di sua madre, Giuseppina Serrini, in cui si racconta che nel maggio del 1919 alcuni prigionieri austriaci lavorarono per due mesi come braccianti nel podere tenuto a mezzadria dalla famiglia Serrini sulla via dell’Acqua Traversa. Nel giovane ufficiale distinto e riservato, posto a capo del piccolo gruppo di militari che dal campo di prigionia di Cassino erano stati mandati a lavorare nell’Agro romano, è adombrata la figura di Ludwig Wittgenstein. La vita quotidiana del mezzadro Luigi, di sua moglie Anna, allora incinta del quinto figlio, di due adolescenti di 12 e 13 anni e della piccola Ina, tutti impegnati a governare le vacche e lavorare la terra (mentre la figlia più grande di 16 anni era a servizio dai “signori” a Roma), viene riferita in dettaglio con precisione oggettiva, mentre l’incontro di tutti loro e soprattutto di Ina col grande filosofo non è attestato da nessun documento storico. “Improbabile ma possibile”: così lo definisce la quarta di copertina del libro. E se ci si ricorda che l’autore di questo romanzo breve è anche un poeta, non può non venire in mente la celebre distinzione aristotelica tra il lavoro dello storico e quello del poeta: il primo parla di ciò che è accaduto, il secondo di ciò che sarebbe potuto accadere. E, come suggerisce ancora Aristotele, è proprio l’insistenza su ciò che avrebbe potuto aver luogo a rendere lo sguardo poetico “più filosofico” del resoconto storico.

In Italia, la fine della “inutile strage”, che già aveva mietuto innumerevoli vittime nelle trincee e che continuò a mieterne con le epidemie di tifo nei campi di detenzione e di spagnola tra i civili, non fu caratterizzata soltanto dai lamenti per la “vittoria mutilata” e dal “diciannovismo”, inteso come manifestazione di “istinti violenti, eversivi, anti-istituzionali che trovavano proprio nell’esperienza bellica, e nelle tante insoddisfazione che ne erano derivate nell’immediato dopoguerra, il loro fondamento” (Claudio Vercelli). Oltre a questo, prima di questo o accanto a questo, lo sguardo poetico del romanzo di Di Francesco, indagando la dimensione del possibile, getta luce sull’ “altra metà della storia”, anch’essa documentata ma spesso rimossa, costituita dalla condivisione del lavoro dei campi, faticosissimo, subalterno e sfruttato, che in questo caso accomuna braccianti e prigionieri che parlano lingue diverse, si capiscono a gesti, e sono reciprocamente capaci di autentici gesti d’umanità. L’attenzione a ciò che può aver luogo negli interstizi della storia si rivela essenziale per la stessa comprensione di quest’ultima, mostrando la nascita di un’inaspettata solidarietà trasversale tra ex nemici.

Qualcosa di analogo vale anche per la personalità di Wittgenstein. Vedere alla base della folgorazione che cambiò la sua vita l’incontro e la relazione con la fragilità di Ina, con le sue difficoltà di apprendimento, superate attraverso l’affetto e la condivisione quotidiana, lumeggia non solo la scelta di vita del filosofo solitario e introverso, ma esplicita più in generale il vero principio del pensiero filosofico, che non si ritrova realmente mai nell’universalità della verità o delle idee, ma sempre nella concretezza delle relazioni umane, fatte delle interazioni e interlocuzioni che costituiscono l’esperienza comune. Solo da esse può nascere il pensiero filosofico, che alla loro delucidazione instancabilmente ritorna. E sicuramente questo è il senso della folgorazione che ha apportato alla vita di Ludwig l’incontro con Ina, improbabile ma possibile, e proprio per questo capace di farne meglio comprendere il senso.  Lo dice bene alla fine del libro la lettera inviata da Wittgenstein ai suoi amici e mentori Bertrand Russel e John Maynard Keynes, così “reinterpretata” da Di Francesco: “Voglio essere povero, regalo il denaro che ho, non m’importa di prolungare nel tempo i beni della mia famiglia. E voglio diventare un maestro elementare. Forse è l’unica cosa che so davvero fare. Anche se sono consapevole che, messo di fronte alle difficoltà, rischio di scendere in un precipizio buio di rabbia. Ma basta il sorriso di una bambina che impara una lettera dell’alfabeto per trasformare il senso della mia vita”.

La svolta radicale di cui il libro di Di Francesco ricostruisce poeticamente i presupposti non impossibili ebbe effettivamente luogo. Wittgenstein non solo diventò maestro, ma dichiarò d’averlo voluto diventare abbandonando la filosofia accademica con l’intenzione di voler continuare a pensare in modo diverso. Che questa diversità, alla quale rimase fedele sino alla fine dei suoi giorni, gli sia stata suggerita dall’incontro con una bambina difficile, cui era inaspettatamente riuscito a comunicare il gusto dell’apprendimento, non è provato da nessun documento oggettivo. Ma il compito poetico della letteratura consiste nel parlare di ciò che sarebbe potuto accadere e bisogna anche aggiungere che in questo caso il possibile narrato da Di Francesco permette di meglio comprendere qualcosa di reale, se si pensa che dopo la pubblicazione del Tractatus, che per alcuni anni era stato l’unica sua vera ragione di vita, Wittgenstein diede alle stampe unicamente un Dizionario per le scuole elementari.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA LETTERATURA

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