CHE COS’È UN’INTRODUZIONE IN FILOSOFIA? NOTE SU ALCUNI TOPOI DELLA TRADIZIONE OCCIDENTALE
RAOUL KIRCHMAYR
1. Chi la insegna, e dunque svolge un ruolo in un’istituzione educativa che la comprende come disciplina, almeno una volta si è posto il problema del modo in cui si potesse avviare dei neofiti alla filosofia. Nell’ordine in cui le nozioni sono impartite si suppone che vi sia un inizio: c’è un prima e un dopo, e da qualche parte bisognerà pur cominciare. Così, l’introduzione alla filosofia come disciplina è nella cosa stessa, cioè nel cominciamento, che sia di un corso o di un programma. Ogni “prima lezione” pone un discrimine e il docente è un guardiano della porta. Con il cominciamento si dischiude un’apertura e, da quel momento, forse qualcosa accadrà. In generale, si entra in un “luogo”, che è lo spazio stesso della disciplina: il “prima” e il “dopo” in senso cronologico si declinano spazialmente in un “dentro” e un “fuori”. Il discrimine è anche un limite o un confine che può rivelarsi una soglia attraversabile. Ma talvolta accade che, pur avendo varcato il confine, nulla avvenga a chi ha intrapreso il passo. In questo caso, l’introduzione non ha comportato alcun mutamento qualitativo, alcuna trasformazione, e così non avrà condotto da nessuna parte. Il confine scompare, la soglia svanisce: l’introduzione alla filosofia non ha corrisposto ad alcuna discontinuità, e il cominciamento non è altro che un segnavia esteriore.
Difatti, per colui che insegna e dunque “introduce” a un sapere, questa è la posta in gioco: operare affinché delle discontinuità si producano e chi è introdotto avverta uno scarto, all’inizio oscuramente, rispetto a un “prima”. Un’introduzione, quand’essa riesce e produce discontinuità, ha sempre qualcosa di memorabile. Nel momento in cui essa ha avuto luogo, qualcosa è accaduto, un confine è stato tracciato. Ma chi lo tracci e come è una questione difficile e aperta. Ciò che possiamo dire è che pare dubbio che una discontinuità sia la risultante dell’impiego di sole tecniche (pedagogiche, retoriche, discorsive ecc.) o che dipenda interamente da una padronanza del sapere. Infatti, come tale essa è incontro. Come per ogni incontro, c’è qualcosa di singolare e di non ulteriormente riproducibile, che è legato al superamento della soglia e avviene in quell’occasione e in quella circostanza determinata, non altrove e non altrimenti. L’incontro ha il suo tempo, che non coincide con quello dell’inizio cronologico. In questo senso, non c’è una “prima volta” benché una prima volta debba poter avere luogo. Ciò ci pone fin da subito di fronte a ciò che potremmo chiamare il paradosso strutturale dell’introduzione: da un lato, è necessario che l’introduzione sia in un qualche modo e in una qualche misura sempre codificata, e resa così ripetibile. È ciò che facciamo all’inizio di un corso: stabiliamo un punto di partenza, avviamo un discorso che permetta l’accesso alla disciplina ecc., e lo facciamo ogni volta. Dall’altro lato, non solo l’“ogni volta” non è mai la ripetizione del medesimo, ma si dà solo in quella circostanza e in quel momento specifici. Ogni introduzione, quindi, si pone all’incrocio tra un’iterazione (o anche una reiterazione) e un evento. Di conseguenza, è come se l’introduzione fosse una sorta di piétiner sur place: “ogni volta” si deve ricominciare, e ciò accade non solo all’inizio, poiché ogni incontro mette alla prova l’iterazione, contestandola. Inoltre, quella soglia che è l’introduzione si sfoglia dall’interno o si apre come un fiore che sboccia.
Scopriamo che siamo sempre all’inizio e che ogni introduzione, a sua volta, non è altro che un’introduzione. Non c’è superamento di un confine, restiamo sulla soglia. Lo spazio liminare della soglia al sapere e alla disciplina si rivela borgesiano, e il tempo stesso dell’introduzione diventa una sorta di tempo sospeso che è il tempo stesso del pensiero, come nel Soccombente di Thomas Bernhard, nel quale il racconto si dispiega mentre l’io narrante è in procinto di varcare una soglia. Così, quando diciamo di “approfondire” (un tema, un problema, un’opera ecc.) non facciamo altro che rendere abitabile, al pensiero, la soglia. In altre parole, si ricomincia sempre, ogni volta, anche quando supponiamo di aver compiuto un percorso o di avere svolto un programma.
L’introduzione implica sempre un accesso a un “dentro”. In effetti, “si entra” in una disciplina e si può dire di averne compreso qualcosa solo dopo esservi entrati. Solamente, il paradosso dell’introduzione ci porta pure a pensare che quest’ingresso non si dà mai una volta per tutte. In effetti, l’accesso non è regolato e i guardiani della porta custodiscono un luogo illusorio. Come se a ogni “introduzione a…” fosse aggiunto un sottotitolo come un cartello affisso alla porta che indicasse che oltre la porta non c’è nulla, se non la porta medesima. Ogni introduzione rinvia a un’introduzione successiva, ed è forse questa la stessa storia della filosofia, nella quale “si entra” solo quando si intuisce che l’entrarvi consiste nel permanere sulla soglia. È il luogo del pensiero che si fa visibile. L’introduzione è questo stesso luogo del pensiero.
2. Se ci riferiamo alla storia della filosofia come a una lunga galleria d’introduzioni, cioè di operazioni con cui si è aperto il luogo del pensiero (che, d’altronde, è sempre un tempo del pensiero), possiamo riconoscere com’essa coincida anche con dei topoi che sono quelli dell’inizio, del percorso e del cammino, i quali comportano tutti il problema della loro ripetibilità. Se un evento è sempre singolare, com’è possibile ch’esso sia tradotto nell’universale, e così reso visibile e disponibile, detto e comunicato? È possibile fare di quest’evento un sapere, e che questo sapere possa essere appreso e tramandato? Riferendoci a uno dei topoi tradizionali della retorica filosofica del cominciamento, sappiamo che, per esempio, Aristotele attribuisce il ruolo dell’evento al thaumazein. Il thaumazein dice, certo, lo stupore di fronte a ciò che desta meraviglia, ma dovremmo intenderlo non tanto nel senso di un “aprire gli occhi” dinnanzi a qualcosa di insolito, quanto nel senso etimologico di un attonimento. Lo stupor è anche condizione d’afasia, è lo spegnersi della parola dinnanzi a un insolito che eccede la capacità del nominare. C’è un eccesso che non può essere tradotto, il linguaggio denuncia la propria incapacità e, con ciò, mostra il proprio limite. Se, dunque, consideriamo come primo topos di ciò che chiamiamo “filosofia” quel passo del Libro I della Metafisica nel quale Aristotele fa del thaumazein quell’evento che corrisponde al cominciamento e all’introduzione, dobbiamo riconoscere pure ch’esso ha pure una natura traumatica.
Se la “meraviglia” è il viatico per l’esame di difficoltà che a tutta prima sono “a portata di mano” da cui, come scrive Aristotele, scaturisce la scienza; e se il possesso della scienza è ciò che permette l’insegnamento, non può sfuggire che la descrizione aristotelica trascuri la “parte maledetta” del thaumazein, cioè quel suo lato d’ombra che lo rende l’esperienza di un inquietante piuttosto che l’avvio a un dominio della realtà tramite la vista e la contemplazione a distanza. La “meraviglia”, significante con cui s’è tradotto tradizionalmente il lemma greco, non ha nulla a che vedere con una contemplazione pacificata, ma piuttosto con l’urto di una realtà che sovrasta e s’impone: è l’irrompere dell’evento che, frantumando la coerenza del nostro essere-al-mondo, produce quell’impatto di cui lo stupore è l’effetto. In questo senso, se la filosofia è il risveglio del pensiero, ciò accade per il trauma dell’evento, cioè per quella trafittura o quel perforamento che lacerano dolorosamente la superficie dell’esperienza.
Il thaumazein denuncia anche il limite del logos, che non assume e comprende l’evento se non come strappo e lacerazione, disordine importato dall’esterno nell’ordine interno del linguaggio (ma per i Greci anche della realtà stessa), forza di disunione rispetto alla sua capacità di “raccolta” (logos, legein) in un’unità. Il thaumazein implica sempre uno squilibrio, una difformità e un contrasto prodotti da un accadimento che è violento. A quando possiamo, pertanto, far risalire il cominciamento dell’introduzione? All’irrompere dell’evento stesso o al momento in cui abbiamo superato lo stupore e siamo in grado di recuperare la parola? Il discorso non si configura, infatti, come sempre secondo rispetto al trauma dell’evento che, rispetto a quello, è precedente ed esteriore? E quando possiamo dire che siamo introdotti alla filosofia? Quando la lacerazione avviene o quando ci riprendiamo dallo stupore che da essa è stato generato? Come si capirà, in entrambi i casi questi momenti non sono codificabili, sono estranei a qualsiasi introduzione programmata o pianificata, non possono essere ricondotti a un calcolo del tempo perché sono qualità pure non altrimenti traducibili in quantità. Eppure, l’introduzione, in pari tempo, può anche assumere l’abito di un’iniziazione ai dolori provocati da un’esposizione verso una realtà non dominabile. Per questo suo aspetto può diventare rito, ed essere così codificata e trasmessa.
È in relazione al momento della discontinuità dell’esperienza che l’esteriorità rispetto al linguaggio si fa critica, poiché essa pone la linea di separazione tra il discorso filosofico (che è sapere, mathesis) e il suo “fuori”. In corrispondenza dell’irrompere dell’evento che smaglia la trama dell’esperienza, è dubbio perfino che ci possa essere una qualche forma di preparazione o di esercizio del pensiero che vi si commisuri. Ogni introduzione alla filosofia non potrà, dunque, che comportare un rimando a ciò che è senza misura perché non può essere ricondotto a essa, ed è inerente a una condizione di passività rispetto all’evento.
Così, se scaviamo nella direzione della possibilità che vi sia qualcosa come un’introduzione alla filosofia, ciò che rischiamo di trovare è proprio la sua impossibilità. Se si ritiene che un’introduzione abbia il compito di avviare a un sapere, qui scopriamo ch’essa conduce verso il non-sapere. Se presumiamo che il sapere necessiti del linguaggio, qui siamo portati al limite di questo. L’impossibilità che il discorso della filosofia abbia qualcosa da affermare rispetto all’evento è il limite della dicibilità di ciò che è essenzialmente eterogeneo rispetto al linguaggio stesso. Il vecchio adagio di Kant, secondo il quale “non si può insegnare la filosofia, ma solo insegnare a filosofare”, appare così disarmato rispetto a tale eterogeneità assoluta e totalmente esteriore rispetto al movimento del logos. Infatti, ciò che l’adagio conserva quanto alla possibilità di una filosofia, cioè “l’insegnare a filosofare”, appare come una riserva di significato, e forse perfino come un illusorio convincimento delle capacità della ragione, rispetto all’irrompere dell’evento. Al contrario, possiamo dubitare di avere disponibile tale riserva di senso. Pertanto, ciò che l’evento revoca in dubbio è che si possa perfino insegnare un’attività come il pensare l’eteron rispetto al logos: l’evento singolare, infatti, non conosce categorie e rifiuta la denominazione. Eppure, è questo bordo esteriore del linguaggio ciò che la filosofia non può fare a meno di tradurre in linguaggio, cosa che talvolta, come ricorda Hegel nelle Lezioni sulla storia della filosofia, la fa apparire come una Vorrat von Meinungen, ovvero, letteralmente, come una “scorta” o una “riserva” di opinioni.
Nel corso del Novecento si è ripetuto da più parti e da più voci il giudizio per cui il linguaggio è indigente. Introdurre in filosofia significa dunque introdurre alle lacune del linguaggio, e ciò può avvenire solo per mezzo di discorsi. Ma su questo suo bordo esterno, il linguaggio si smaglia indicando ciò che, pur essendo altro da sé, lo abita: la parola filosofica si fa balbuzie o singulto, danza o riso. Per esempio, diversamente da ciò che le innumerevoli “introduzioni alla filosofia” ci hanno raccontato come un lungo rito di perpetuazione del sapere, potremmo ritrovare in un riso, quello della donna tracia, il movimento iniziale, preistorico, del pensare. E, ancora, in che modo potremmo mai essere “introdotti” in filosofia, qualora il bisogno di essa fosse generato dal momento in cui una lacrima riga una guancia? Ci potrebbe mai essere un logos accogliente per le lacrime? Non potrebbe essere questa, in verità, una delle tante possibili introduzioni alla filosofia?
3. Di questi momenti, in cui l’incontro con l’evento e l’esperienza del suo eccesso richiedono di essere tradotti in un discorso, la storia della filosofia fornisce un repertorio che corrisponde ad iscrizioni le quali, a loro volta, sono altrettante tracce testuali che si tramandano e, tramandandosi, formano una tradizione. La filosofia come scienza e come apprendimento (mathema) non ha smesso di conservare la brillante luce dell’evento. È il campo del simbolico che si smaglia e si ritesse su sollecitazione di ciò che gli è esterno. Lo fa restituendo l’eccesso del “senza misura” e impiegando la forza di un linguaggio che talvolta si apre alla poesia, evocando per descrivere.
Ne è un esempio un altro luogo testuale del pensiero greco, questa volta appartenente all’epoca arcaica, a quella che Heidegger chiamava la Frühe del pensiero, cioè la sua età inaugurale e sorgiva. Sono ben noti la metaforica del viaggio che trama il proemio del poema Sulla natura di Parmenide, le immagini e i simboli che ne compongono la scena. È soprattutto la ricerca della verità come viaggio (odòs) ciò di cui occorre riconoscere una potente matrice, diremmo quasi ricorrente nella storia del modo in cui il pensiero si è raffigurato e ha così circoscritto l’ambito della filosofia. Il dis-velamento (a-letheia) corrispondente alla visione della verità avviene grazie a un viaggio (il carro fiammeggiante accompagnato dalle figlie del sole) e a un incontro (con la dea, la cui parola indica e nomina il giusto cammino da intraprendere). Il viaggio è ciò che permette l’incontro con il divino, da cui proviene la parola che distingue e separa ciò che è vero da ciò che ne ha solo l’apparenza. La scena descritta da Parmenide contiene già l’intera successiva drammaturgia della ricerca della verità. Così, secondo questa matrice testuale non c’è verità che non sia la conseguenza di un procedere, che costituisce la condizione stessa della rivelazione della verità. Senza il viaggio, e l’allontanamento ch’esso comporta, non vi sarebbe stato il cospetto della dea e neppure il suo discorso.
Di nuovo, il discorso dell’età moderna, ossessionato dai criteri con cui stabilire un metodo, la cui validità universale avrebbe garantito una conoscenza vera del mondo, trova il suo momento iniziale nel viaggio, nella lontananza e nell’allontanamento. L’introduzione al pensare è un’esposizione allo sconosciuto, al diverso e all’altro. Nel Discorso sul metodo Cartesio descrive bene quali fossero state le precondizioni di una riflessione radicale che mirasse a rifondare l’edificio della scienza. È la stessa esigenza di costruzione ex novo del sapere che trova la sua condizione primitiva nell’incontro con l’estraneo. Questa volta l’evento non è metaforico, è addirittura biografico: sulla genesi della grande rifondazione cartesiana del sapere scientifico si apre lo scenario tormentato e grandioso della Guerra dei Trent’anni, e il servizio militare nell’esercito di Maurizio di Nassau. L’unica introduzione alla filosofia è fare esperienza del “grande libro del mondo” al fine di trovarvi così il proprio cammino, pur avanzando lentamente e con circospezione nell’oscurità. Per Cartesio, il vero sapere e l’autentico metodo scaturiscono da questa moderna variante dell’odòs greco, che ritorna e ulteriormente tramanderà la semantica dell’itinerario e dell’orientamento, del viaggio, del cammino e della via, così come, ancora, dell’attraversamento di mari, di selve o di boschi.
Ogni introduzione in filosofia, che è sempre un’introduzione alla filosofia, rivela così ciò ch’essa cerca di nascondere, di mascherare o di trasfigurare in un sapere universale e universalmente ripetibile, cioè che la vita, là dove ce n’è, si espone senza garanzie all’evento. Di questa esposizione incondizionata, ogni volta differente e singolare, ciascuna introduzione è la traccia fatta visibile, marca iterabile d’un inizio. Ciascuna introduzione racconta dunque, obliquamente, la sua genesi spuria, incerta, fragile e passionale che la prima parola raccoglie, custodisce e immancabilmente tradisce. Ciascuna introduzione ci fa sporgere fino al punto in cui, per cogliere il senso di questa prima parola, parola inaugurale del cominciamento, la vediamo disfarsi sotto i nostri occhi, destituendosi da sé e rinviandoci al di fuori di quella stessa parola, verso quel “fuori” che il discorso filosofico custodisce senza poterlo contenere, e nomina senza poterlo dire.
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA Endoxa Novembre 2022 Raoul Kirchmayr Tractatus 101