ICH BIN MEINE WELT (DER MIKROKOSMOS)
PEE GEE DANIEL
Qing Shi fu il primo.
Qing Shi l’imponderabile.
Fu Qing Shi a concepire e compitare, e organizzare a suo piacimento, erigendo e disboscando e riadattando solo per assecondare le radiose circonvoluzioni del suo spirito caparbio.
Tutta una vita spremuta nello sforzo immane di inventarsi un regno. A puleggiare, ammattonare, palagiare dove prima nulla era, a estendere coltivi campi irrigui laddove erano selve o paludi e cancellare il vecchio per il nuovo. Bottinando ricchezze immani, stivate in fondo al fondo delle sue regge di alabastro, per poi sortirle nuovamente e spargerle nel regno, oltre i cancelli del dragone, e farne nuove strade acciottolate e piazze e giardini rigogliosi.
E le sue carni erano la Cina.
Ma quando si sostituisce agli dei, scartando per la strettoia del potere mondano, allora un uomo non si sente più di nervi, ossa e polpa. Rassomiglia la propria voce a un oracolo, ineccepibile. Diventa tal quale al pargolo viziato che frigna, pesta i piedi e non accetta lo scorrere delle ore: l’incalzante compiutezza di ogni sua innocenza…
Quando il medico raddrizzò il filo della schiena, risollevandosi dal petto incanutito di Qing Shi, dopo avergli a lungo esaminata quella parte di lui non già regale ma perfettamente materiale e palpabile, e aver auscultato con il massimo scrupolo i gangli palpitanti del suo organismo in rapido avvizzimento attraverso una trombetta d’ osso, si trovò tra mano il gravame di dover rivelare al suo signore l’imminente appropinquarsi della morte.
Qing Shi tacque e tacque un bel po’.
Mentre si intrufolava dentro i preziosi vestimenti e le ancelle gli ungevano la barba, i piedi e le mani con oli profumati e l’ultima di loro, lasciata sola, con gesti artati gli impugnava il pube e ci giocava fino a farne esorbitare il corposo succo madreperlaceo, per poi raccoglierlo nel cavo di un vassoio lucente – perché il seme di un re non va sprecato!- Qing Shi conservava il silenzio.
Finché non scattò in piedi, d’improvviso, sgomentando i cortigiani, ma neppure allora parlò parole. Si limitò a levare le braccia sino alla spalla, indicando gli opposti punti cardinali con le punte delle mani, poste come termini d’una lancia di guerra.
Con un dito puntava verso il medico: le guardie intuirono immediatamente quel comando non verbalizzato. Anche il medico comprese, ma fu lui a non dire nulla stavolta. Neppure mentre il boia gli calava una lama dentellata contro la base del collo costretta su un ceppo di cipresso, perché sapeva che non può vivere oltre chi denuncia la mortalità di un dio.
L’altro dito era puntato verso il fondo della reggia, dove il sole e la luna si scambiano il ruolo, dietro le alte cuspidi. Ma questo non compresero le guardie, né le ancelle, né i giocolieri bilicanti sulle funi o i cantori dai toni flautati.
Ci vollero robusti manovali e carpentieri e schiere d’architetti e molteplici artisti perché la corte capisse. E capì che Qing Shi andava concependo l’ultima delle opere: la fedele ricomposizione in scala del suo regno, che gli fosse apotropaico rifugio, e sacrosanto. La spropositata, vanagloriosa materializzazione di un sogno inculcato in qualche dove, di tra le sue spoglie in disfacimento.
E Qing Shi innalzò il palazzo novello verso la volta celeste, ma il palazzo non era che il fenomeno posticcio dei suoi strambi circuiti mentali, un duplicato sghembo di segreti silenzi. Di velleitarie smodatezze del pensiero. Dentro, la Cina riprodotta: tremulo mercurio a simulare l’oceano, i fiumi, i laghi, le risacche palustri, gemme e diademi a trafiggere con le loro liquide gibigiane il bluastro del soffitto cilestrino, come tante stelle. Una lunga teoria di foreste bonsai e deserti che apparivano come lettiere per colossali gatti immaginari, e gobbe pedemontane e monti alti fino all’anca. Biacca e pigmenti mesciuti in un pestello a polvere di metallo per restituire le tinte naturali.
Sullo sfondo, riposta ordinatamente dentro tabarri dalla foggia ben curata, la lunga falange di soldati impastati con la terra e con l’acqua, pronti e astati in difesa di Qing Shi.
Chi edificò il palazzo, architetti e operai, pittori e scultori, vi morì imprigionato, custodendo assieme alla propria condizione mortale gli arcani della costruzione: il premio supremo di fare da concime alle boscaglie di cartapesta.
E Qing Shi lì rimase, solo, a ripararsi dalla fine dei giorni, ben sapendo che nel palazzo la morte non era, che soltanto al di qua dei sigilli del palazzo la fine non può giungere.
Perché il palazzo è un alito, è uno stato di pura sospensione, la fasulla elaborazione dell’esterno che immortala, epurata delle sue recrudescenze.
Solo.
L’eco dei suoi passi, il tenue battito del suo cuore, il ritmo del suo respiro le uniche compagnie del suo udito ormai guasto.
Questo il modo che ti salva: rinchiuderti nei limiti d’ un sogno.
E il sogno ti è dolce. Il sogno di una cosa è caldo e sicuro: svincolato dalle regole del mondo. Si plasma e cede soltanto alla tua mente.
Ma il sogno di una cosa è una stanzetta: la squallida anticamera della cosa. E non ti assiste, quando il mondo esterno bussa e la malinconia ti morde. Allora il sogno più non basta.
Un giorno che era marzo Qing Shi si levò dal trono posto nel centro del palazzo.
Un giorno che era marzo Qing Shi si alzò in piedi per attraversare il regno atrofizzato, scapolando i monti e i pelaghi e i deserti e gli ettari di campi seminati di una seminagione infruttifera.
Un giorno che era marzo Xing Chi attraversò il palazzo richiamato dal verso di un’allodola che canticchiava alle sue porte.
Si alzò, attraversò il palazzo e, senza pensarci sopra, riaprì i battenti per ascoltare meglio quel canto.
ENDOXA - BIMESTRALE LETTERATURA Endoxa Novembre 2022 Pee Gee Daniel Tractatus 101