IL RAMO SUL QUALE SONO SEDUTO: WITTGENSTEIN LOGICO DELL’ESTINZIONE

1565526551-ludwig-wittgensteinANDREA RACITI

“(…) ammesso che per filosofia in quanto tale, per spirito in quanto tale, nonché per pazzia in quanto tale noi si voglia intendere ciò che questi termini in effetti designano: dei concetti storici perversi”.

T. Bernhard, Il nipote di Wittgenstein

 “Ho già di nuovo qualcosa in testa. Forse si chiamerà Estinzione, pensai, cercherò di estinguere tutto ciò che mi viene in mente, tutto ciò che verrà messo per iscritto in quella mia Estinzione verrà estinto, mi dissi”.

T. Bernhard, Estinzione

A distanza di cento anni dalla pubblicazione con traduzione inglese a fronte e centouno dalla prima pubblicazione in lingua tedesca del Tractatus logico-philosophicus (da ora Tlp), in che modo l’opus maius di Ludwig Wittgenstein può ancora costituire un problema filosofico, a prescindere dall’interesse accademico specifico che suscita ancora il suo pensiero per le varie “scienze filosofiche”? Anche qui, inevitabilmente, non si potrà che considerare solo un aspetto parziale della filosofia del linguaggio del logico viennese, senza alcuna pretesa di esaustività. Tuttavia, porsi radicalmente la domanda sul come, e, quindi, sul modo, in cui un’opera possa ancora porsi-innanzi e, perciò, esser davvero problema (dal greco próblema = “ciò che sta innanzi”), significa tentare di rivelare, a partire da una questione particolare affrontata da un filosofo, come in tale particolarità si rifletta una totalità, la quale a sua volta determina non solo una singola filosofia, bensì la stessa struttura del pensare e, pertanto, anche la sua storia.

Come in ogni grande filosofia, potenzialmente infiniti sono i sentieri tracciati e tracciabili all’interno di quella fitta, sconfinata selva in cui consiste il pensiero di Wittgenstein. Ma, se è vero, come nota Nicolás Gómez Dávila, negli Escolios a un texto implicito, che i problemi filosofici – “metafisici”, scrive Don Colacho – non ci assillano affinché possiamo risolverli, ma perché possiamo viverli, ne deriva, allora, che solo e soltanto il problema che si presenta come essenziale per la vita può ambire ad assurgere al rango di problema filosofico. Ed è l’interrogazione del problema a costituire la vita stessa, in quanto la vita da esso viene interrogata. D’altronde, secondo lo stesso Wittgenstein, “persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati. Certo, allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta” (Tlp, 6.52). Quindi, ne segue che la “risoluzione del problema della vita si scorge allo sparire di esso” (Tlp, 6.521). I problemi vitali, proprio in quanto filosofici e perciò estranei alla scienza naturale, hanno una struttura paradossale: sono domande senza una risposta formulabile logicamente e scientificamente, e di “una risposta che non si può formulare non può formularsi neppure la domanda” (Tlp, 6.5).

Si tratta di ciò che Wittgenstein chiama enfaticamente “il Mistico”, che rientra di certo – e in sommo grado in quanto “ineffabile” (Tlp, 6.522) – nell’ambito di ciò di cui non si può parlare, quindi su cui bisogna tacere (“darüber muß man schweigen”, Tlp, 7). Ciononostante, il tacere che investe il Mistico, forse, dovrebbe intendersi come il divieto di parlarne, in quanto impossibilità di riferire a proposito di un qualcosa che non corrisponde a un fatto (Tatsache). Sulla possibilità che il Mistico, in quanto “insensato” (unsinnig), venga mostrato, sembra che lo stesso Tractatus possa testimoniare a favore di tale opzione ermeneutica. Infatti, colui che comprende le proposizioni di quest’opera, se è asceso per esse, su esse e oltre esse, le riconosce insensate (Tlp, 6.54), poiché tali proposizioni non sono altro che tentativi di mostrare ciò di cui non può dirsi, su cui bisogna tacere, nella misura in cui non descrivono il mondo, ossia la totalità dei fatti (Tlp, 1.1), bensì la forma o struttura del mondo stesso e della proposizione. A ragione, commentando Wittgenstein, in Was He Trying to Whistle?, Hacker sostiene che le proposizioni del Tractatus sono insensate in modo illuminante: “Il nonsenso illuminante differisce dal mero nonsenso (…) in quanto può mostrare, anche se non dire, le caratteristiche essenziali del mondo e delle rappresentazioni. Mostrare (…) consiste nel trasmettere verità necessarie ineffabili – quelle verità che non si possono rappresentare in modo sensato”.

La questione vitale quale verità necessaria ineffabile che, ad un tempo, viene mostrata dal Tractatus, e che, del Tractatus, mostra il fondamento metafisico, si rivela nel rapporto tra oggetti semplici e mondo, ovvero tra necessità e accidentalità o contingenza. Insomma, si può avanzare l’ipotesi che la filosofia del Tractatus consista in un’ontologia linguistica – e, per converso, in una linguistica ontologica – la quale è governata intimamente ed irrimediabilmente da una dialettica, prima facie non sintetica, bensì della collisione, tra un ente eterno e immutabile e uno contingente, mutevole, instabile, che il filosofo definisce a più riprese “accidentale”.

Nell’Introduzione a Wittgenstein, Perissinotto rimarca come la sezione del Tractatus dedicata agli oggetti sia da sempre stata considerata tra le più controverse dell’intera opera, non solo dai suoi interpreti, ma da Wittgenstein stesso, che le dedicherà una serie di annotazioni (auto)critiche nelle Ricerche filosofiche, fino a domandarsi: “Ma che faccenda è mai questa dei nomi che designerebbero propriamente il semplice?”. In effetti, non è assurdo ritenere che l’argomento che regge l’intero Tractatus non sia altro che la presupposizione di un ambito ontologico e linguistico irriducibile, non ulteriormente scomponibile o analizzabile. Ma che cos’è l’oggetto? Per Wittgenstein, esso è semplice (Tlp, 2.02). La semplicità dell’oggetto fa immediatamente segno al suo carattere di non ulteriore scomponibilità e, perciò, al fatto di essere un ente di per sé sussistente, cioè alla sua sostanzialità: “Gli oggetti formano la sostanza del mondo. Perciò essi non possono essere composti” (Tlp, 2.021).

Nel solco di ciò, bisogna affermare che “il fisso, il sussistente e l’oggetto sono tutt’uno” (Tlp, 2.027). Poiché ha queste caratteristiche, Wittgenstein, nel Tractatus, non può fornire alcun esempio di oggetto semplice. I tentativi falliti di raffigurarsene alcuni, nel contesto dei Quaderni 1914-1916 – i punti materiali della fisica o le superfici nella nostra immagine visuale quando non distinguiamo i singoli punti o, ancora, gli oggetti nel senso comune del termine – sembrano più delle ipotesi sperimentali che valgono come prove di resistenza della tesi metafisica di fondo adottata già nei Quaderni, in cui il filosofo così si esprime: “Sembra che l’idea del semplice sia già contenuta in quella del complesso e nell’idea dell’analisi, e in modo tale che noi (prescindendo completamente da qualsiasi esempio di oggetti semplici o da proposizioni dove si parli di tali oggetti) perveniamo a questa idea e intuiamo l’esistenza degli oggetti semplici come una necessità logicaa priori –”. Una simile necessità logica si manifesta come esigenza di un’istanza ultima, un ente immutabile causa sui che garantisca e assicuri sia il mondo in quanto totalità dei fatti contingenti sia, di conseguenza, le proposizioni della logica la cui verità dipende dal confronto con la realtà.

Il senso di una proposizione è dato dal fatto che può essere vera o può essere falsa: perciò le tautologie e le contraddizioni – le prime sempre vere, le seconde sempre false – non dicono nulla (Tlp, 6.11), sono prive di senso, ossia non hanno alcun contenuto (Tlp, 6.111), e non sono, pertanto, proposizioni o, se le riteniamo tali, ne sono i “casi estremi” o i “casi-limite” (Tlp, 4.46a e 4.466c).

Tuttavia, da cosa è dato questo contenuto, la realtà con la quale Wittgenstein esige il confronto per determinare la verità o la falsità di una proposizione? Anzitutto, bisogna premettere che una simile domanda è legittima solo in quanto il senso della proposizione, ovvero il suo poter esser vera o falsa, sia indipendente, prescinda dalla realtà: per poter confrontare la proposizione “Piove” (“Es regnet”) con la realtà, devo aver già compreso il suo senso, ossia sapere che cosa accade se essa è vera (Tlp, prop. 4.024ab). Dalla sola proposizione, invece, non potrò mai sapere che essa è vera o falsa; non vi sono, perciò, proposizioni vere o false a priori, ossia vere o false in virtù del loro stesso senso – del loro poter essere vere o false – (Tlp, 2.224 e 2.225). La proposizione può essere vera (o falsa) solo in quanto immagine o modello della realtà (Tlp, 4.06). In un appunto preparatorio dei Quaderni, Wittgenstein sosteneva già che della proposizione si può semplicemente dire: rappresenta questo o quest’altro stato di cose e solo così la proposizione può essere vera o falsa: “(…) essa può concordare o discordare con la realtà solo essendo un’immagine di uno stato di cose”.

Allora, la determinazione della verità o della falsità dell’immagine di “un nesso di oggetti (entità, cose)” (Tlp, 2.01), appunto di uno stato di cose (Sachverhalt), viene operata sempre a posteriori solo a condizione che la determinazione del senso (possibilità di verità o falsità) sia fatta sempre a priori. E, ciononostante, financo l’apriorismo del senso non è autofondantesi.

Che l’interpretazione neopositivistica del Tractatus, soprattutto nella sua versione “verificazionista”, non solo non risolva il problema, ma mistifichi radicitus la teoria di Wittgenstein del senso e delle condizioni di verità, qui risulta addirittura lampante. Il criterio ultimo per la determinazione del senso non rimanda in alcun modo alle relazioni che sussistono tra le esperienze elementari [Elementarerlebnisse], come afferma Carnap ne La costruzione logica del mondo, che riduce la teoria del senso di Wittgenstein alla verificabilità empirica, quindi ad un controllo rispetto alle esperienze. Né, di conseguenza, è accettabile l’interpretazione di Schlick che, in Meaning and Verification, afferma che il significato di un enunciato è il metodo della sua verificazione e che, quindi, se l’enunciato non è empiricamente verificabile esso sarebbe privo di senso.

La mistificazione neopositivistica del Tractatus, come nota Marconi in La filosofia del linguaggio, fu strumento di lotta antimetafisica, che, come tale, rimase cieco di fronte alla formulazione epistemologicamente neutra del Tractatus, in cui si stabiliva l’identità tra comprensione dell’enunciato e conoscenza delle sue condizioni di verità, senza impegnarsi quanto al luogo e al modo dell’accertamento della verità o falsità.

Su cosa si fonda, allora, l’apriorismo del senso, in Wittgenstein? Sulla dialettica collidente tra oggetti semplici in quanto totalità necessaria del possibile e mondo come totalità contingente sottoposta alla necessità. Infatti, secondo Wittgenstein, se non vi fosse una sostanza del mondo, cioè un ente ultimo, di per sé sussistente, “l’avere una proposizione senso dipenderebbe allora dall’essere un’altra proposizione vera”, cosicché sarebbe pertanto “impossibile progettare un’immagine (vera o falsa) del mondo” (Tlp, 2.0211 e 2.0212). Se non vi fossero oggetti semplici, si andrebbe incontro ad un regressus ad infinitum che non ci permetterebbe di garantire alcun senso al mondo, né di costruirne un’immagine, come la proposizione, che assurga a modello della realtà, dato che, come Wittgenstein scriverà nelle Osservazioni filosofiche, non vi sarebbe in tal caso nulla che potremmo designare “senza essere costretti a temere che forse non esista”.

Insomma, se è vero che la proposizione ha un senso indipendente dai fatti (Tlp, 4.061), ossia dall’“accidentalità” del mondo come totalità di ciò che accade, quindi di ciò che è mutevole, instabile (Tlp, 2.0271), ciò è garantito solo dall’istanza ultima, irriducibile a qualsiasi altro fatto, costituita dall’oggetto semplice in quanto “forma fissa” del mondo ( Tlp, 2.23), ossia sostanza che sussiste indipendentemente da ciò che accade (Tlp, 2.024). Gli oggetti semplici sono sostanza del mondo in quanto forma fissa in cui è contenuta “la possibilità di tutte le situazioni”, tale che “se sono dati tutti gli oggetti, con ciò sono dati tutti gli stati di cose possibili” (Tlp, 2.014 e 2.0124).

Il culmine di questa concezione del rapporto tra oggetti semplici e mondo viene raggiunto nel §55 delle Ricerche filosofiche, in cui Wittgenstein pone nuovamente il problema a partire dalla questione del rapporto tra i nomi – che, come gli oggetti nella sfera dell’essere, sono le unità ultime e irriducibili del linguaggio, le quali stanno per (ossia, significano) un oggetto – e il mondo:

“Ciò che i nomi del linguaggio designano dev’essere indistruttibile: infatti si deve poter descrivere anche la situazione in cui tutto ciò che è distruttibile è distrutto. E in questa descrizione ci saranno parole; e ciò che a esse corrisponde non può essere distrutto, perché altrimenti le parole non avrebbero significato”. Non posso segar via il ramo sul quale sono seduto.

Il designatum dei nomi è sempre un ente necessario e immutabile, come tale indistruttibile: l’oggetto semplice. Financo per descrivere la situazione in cui tutto ciò che è distruttibile è distrutto, il referente dell’enunciato esiste sempre: l’annientamento di ogni cosa, sic et simpliciter, è anch’esso un ente, anzi, l’eterno indistruttibile e necessario: un non-niente. Quest’ultimo presiede la contingenza di tutto ciò che accade – il mondo (Tlp, 1) – che non si esaurisce semplicemente nei fatti, bensì nei fatti nello spazio logico (Tlp, 1.13), con cui Wittgenstein intende lo spazio di tutto il possibile.

Perissinotto, a ragione, glossa affermando che qui Wittgenstein evoca l’assoluta contingenza o, come questi preferisce scrivere nel Tractatus, accidentalità dei fatti. Ogni fatto è accidentale in senso aristotelico, né impossibile né necessario: “Nel mondo tutto è come è e tutto avviene come avviene; (…) ogni avvenire ed esser-così è accidentale” (Tlp, 6.41ab). E tuttavia, questa contingenza/accidentalità viene garantita, in quanto tale, sempre da un ente che permane costantemente, da una necessità eterna e immutabile: l’oggetto semplice come istanza epistemica che si impone sulla – e presiede la – contingenza, assicurandone la permanenza, che si manifesta, nel linguaggio, come il riferirsi immutabile dei nomi alla sostanza o forma fissa del mondo.

Se si interpreta “il ramo” sul quale Wittgenstein sta seduto come la substantia, necessaria ed indistruttibile, che si rapporta alla totalità contingente, sotto questo riguardo si deve seguire quanto si può desumere da Severino in Legge e caso: se la storia del pensiero filosofico non è che la storia del nichilismo, un Denkweg fondato sull’errore radicale per cui l’ente, in quanto non-niente, sia inteso come niente, allora Wittgenstein non rappresenta ancora il nichilismo portato al suo punto estremo. Infatti, Wittgenstein deve presupporre ancora l’immutabile – l’oggetto semplice e il nome – che garantisca un senso al divenire inteso platonicamente come epamphoterìzein (“oscillare”) tra l’essere e il niente. E, allora, il “verificazionismo” dei neopositivisti della Scuola di Vienna, pur essendo una mistificazione ermeneutica del Tractatus, in particolare in Carnap, si presenta anche come una forma di nichilismo più coerente, ossia più estrema, di quella di Wittgenstein, dato che non presuppone più alcuna istanza epistemica che si imponga e blocchi il divenire.

Ne La costruzione logica del mondo si perverrebbe, perciò, alla distruzione della necessità epistemica di Wittgenstein, in virtù della riduzione del criterio di significanza alla mera verificabilità empirica basata sul riferimento biunivoco delle proposizioni protocollari al dato empirico “atomico” (riduzione che Severino, nella sua Filosofia contemporanea, attribuisce erroneamente anche a Wittgenstein, prendendo per buona la mistificazione neopositivista del Tractatus).

Tuttavia, se di certo, in Wittgenstein, emerge ancora il tradizionale dualismo tra epistéme e doxa e tra ente necessario ed ente contingente, sembra potersi intravedere una via d’uscita, che ci porterebbe a vedere in Wittgenstein un precursore dell’oltrepassamento e della posizione metafisica tradizionale e della soluzione neo-parmenidea di Severino. Un precursore che, comunque, si mantiene in un’ambiguità metafisica di fondo.

A questo scopo, della prova logica dell’ente sostanziale, per così dire, “ad exstinctionem”, che abbiamo visto nel §55 delle Ricerche, ci sembra istruttivo proporre altre due versioni simili, una contemporanea e l’altra medievale, entrambe derivate dalla distinzione aristotelica tra ente necessario ed ente accidentale, poiché ci aiutano a comprendere la peculiare posizione-limite in cui si colloca l’autore del Tractatus.

In Destino della necessità, Severino riprende un esempio tratto dalle Categorie di Aristotele, per il quale quando Socrate è completamente niente (me óntos ólos toû Socrátou), di esso non è possibile dire che sia alcunché (né sano, né ammalato, né cieco, né veggente, né uomo, etc.). L’assolutamente niente non è alcuno degli enti. E, tuttavia, Severino aggiunge che “per Aristotele e per l’intero pensiero occidentale, quando Socrate è completamente niente, Socrate è Socrate: è di Socrate, ossia di un non-niente, che si afferma che esso è completamente niente. (…) Per il nichilismo è cioè necessario che ciò di cui si afferma l’assoluta nientità (…) sia un non-niente”. La soluzione di Severino a questa contraddizione onto-fenomenologica – che Wittgenstein, invece, in piena concordanza con Aristotele, avrebbe accettato presupponendo ancora una volta la dialettica della collisione necessità/accidente – consiste nell’affermazione della tesi della cosiddetta “verità dell’essere”, ossia l’eternità dell’essente in quanto tale e di tutti gli essenti determinati.

Anche se la soluzione al problema del rapporto tra essere e niente non è di certo quella di Severino, circa 900 anni prima di quest’ultimo e di Wittgenstein, Pietro Abelardo si pone la questione in termini analoghi, pur affrontandola sotto il profilo del significato degli universali. Infatti, nella Logica Ingredientibus, il logico bretone si domanda se una volta annientate le singole cose nominate il significato dei termini universali sia ancora valido. In un mondo senza più rose ha significato il termine “rosa”? La risposta di Abelardo è la seguente: pur mancando la nominatio, il significato degli universali permane purché la proposizione sia negativa. Ebbene, la soluzione abelardiana, pur incentrandosi su un dilemma logico particolare, è confitta nel cuore della questione approcciata da Wittgenstein e da Severino. Ma, mentre non collima con la soluzione e, anzi, venendo travolta – pur senza crollare – dinanzi alla critica demolitrice del secondo, d’altronde mi sembra un’illuminante chiave di lettura per comprendere il rapporto tra oggetti semplici e contingenza dei fatti e per fare emergere una diversa e, quindi, inedita concezione dell’essere accidentale che si smarca dalla tradizione aristotelica del misconoscimento del symbebekós, di cui Severino è l’ultimo e più  rigoroso esponente (insieme a Hegel).

Nella stessa opera, Abelardo sostiene che la causa communis impositionis dei nomi universali non è la sostanzialità in virtù della quale gli individui sono uguali (come sostenevano i realisti), bensì uno “stato comune”, quindi non un’essenza ma un modo di essere: un ethos. Quest’ultimo si esprime anche come universale negativa, la quale presuppone sempre l’esistenza permanente degli enti nominati contemporaneamente al loro annientamento, e, viceversa, ne riconosce l’annientamento contemporaneamente alla loro permanenza necessaria. In modo analogo, in Wittgenstein, la chiave per comprendere la natura del “ramo sul quale sto seduto” diventa accessibile solo attraverso l’etica del Tractatus, ossia nella co-implicazione tra il Logico e il Mistico in quanto è il modo di essere in cui come il mondo sia (Logico) e che il Mondo sia (Mistico) si identificano.

La struttura del mondo e del linguaggio viene mostrata nel Tractatus e nel §55 delle Ricerche: qui, il Logico si presenta come diretta espressione del Mistico, dato che l’insensatezza del primo non è che la rivelazione dell’ineffabilità strutturale del secondo. Ineffabilità che si mostra articolandosi logicamente. Il contenuto di questa co-implicazione converte immediatamente la dialettica della collisione tra necessario e contingente, tra eternità dell’essere ed eternità dell’annientamento, in una dialettica sintetica, contraddistinta non da una relazione o da un’irrelazione, bensì da un’a-relazione tra l’essere dell’annientamento e l’annientamento dell’essere: come in Abelardo, nel §55 delle Ricerche, Wittgenstein traccia il punto in cui si consuma la scissione (krísis) tra eternità dell’essente ed annientamento dell’essere, che si trovano congiunti nella relazione di una non-relazione: ovvero, la reciproca negazione tra necessità e contingenza consiste nel mutuo riconoscimento della scissione costituente, ovvero dell’autentico essere accidentale (symbebekós) quale ethos in cui nel preannuncio dello stare destinale (histemi, histáno) si congiungono l’essere permanente dell’annientamento – gli oggetti semplici come sostanza necessaria – e l’annientamento dell’essere – la contingenza del mondo.

Insomma, pur essendo ancora sottoposto alla pervasiva influenza della distinzione aristotelica – permeante l’intero pensiero occidentale – tra necessità e contingenza, la quale comporta l’errata assimilazione dell’accidentalità alla seconda e il conseguente primato gerarchico della necessità, in Wittgenstein emerge anche un possibile punto di svolta: il non-senso illuminante che conduce fuori dall’impasse di un “concetto storico perverso”.

Forse, una sezione di quella parte della sua opera che egli definì “la più importante”: quella non scritta.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: