COMPRENDERE UN GESTO FILOSOFICO: UN INSEGNAMENTO DAL TRACTATUS

35._Portrait_of_WittgensteinRICCARDO FANCIULLACCI

1. Una virgola può fare una grande differenza. Ormai quasi vent’anni fa, una giornalista inglese, Lynne Truss, ne ha fatto il tema di un libro di grande successo, ma anche la storia della filosofia offre esempi interessanti in proposito. Su uno di questi ha più volte portato l’attenzione Gianni Vattimo. Si tratta di una frase di Gadamer che in italiano suona così: “l’essere che può venir compreso è linguaggio”. Vattimo ha insistito sull’importanza di due virgole che ora non ho scritto e che servono a rendere la subordinata un inciso, così: “l’essere, che può venir compreso, è linguaggio”. Intesa in questo modo, la frase di Gadamer diventa un manifesto della cosiddetta svolta linguistica imboccata da gran parte della filosofia del XX secolo. Con una manciata di parole, Gadamer riuscirebbe a richiamare un grappolo di tesi teoriche di vasta portata. Grosso modo, queste: la filosofia ha già accertato la comprensibilità dell’essere, cioè il suo non rifiutarsi al pensiero (lo ha fatto, dapprima durante la stagione classica e poi attraverso la risoluzione idealistica della separazione tra mente e mondo), ma ora bisogna aggiungere che questa comprensibilità dell’essere si apre nel linguaggio, cioè che è attraverso il linguaggio che possiamo comprendere l’essere. Grazie a quelle due virgole, insomma, l’affermazione di Gadamer appare riguardare niente meno che l’essere stesso, cioè il tema della filosofia prima. Senza quelle virgole, invece, la frase riguarderebbe solo quel che è comprensibile, lasciando del tutto indeciso se l’essere includa in sé anche delle regioni che comprensibili non sono. La posta in gioco non è piccola, perché qualcuno sostiene che l’ipotesi stessa che esista qualcosa che non si può comprendere o pensare è un’ipotesi che si distrugge da sé: non lo si deve forse pensare questo qualcosa, se gli si vuole assegnare, anche solo in via ipotetica, la caratteristica di essere impensabile? Ad ogni modo, per Vattimo, questa seconda lettura, prima ancora che esporre la tesi a un possibile sviluppo problematico, è anche e soprattutto in sé stessa banalizzante: la frase di Gadamer starebbe dicendo qualcosa di “pacifico”, ossia che ciò che comprendiamo è quel che è espresso nel linguaggio. Ma questa è davvero un’ovvietà? Talvolta ci può capitare, davanti a un quadro o dopo aver ascoltato una sinfonia, di pensare che non li abbiamo capiti, oppure, magari dopo esserci tornati su, di averli invece come compresi. Anche di un ecosistema può aver senso dire di averlo (o non averlo) capito. E persino di una città o di un quartiere, soprattutto se molto connotato. Non voglio sostenere che la comprensione di tutti questi tipi di cose abbia sempre le stesse caratteristiche, ma solo suggerire che in tutti questi casi non sembra essere comprensione di un pezzo di linguaggio. Certamente, la comprensione si esprime e articola nel linguaggio verbale, ma forse non è sempre vero che l’essere-che-comprendiamo è linguaggio.

Mi faccio queste domande perché, da quando insegno, il problema della comprensione mi si impone sotto angolazioni nuove. Certo, mi domando ancora, quando leggo un testo, se lo sto comprendendo e da qui mi capita ancora di arrivare a chiedermi che cosa sia la comprensione, ma l’esperienza nuova è quella per cui mi domando che cosa significa far capire o tentare di condurre altri alla comprensione. Sono ben consapevole che la comprensione da parte degli studenti non dipende solo da me; ma a me spetta cercare di produrre almeno alcune delle condizioni in cui possa aver luogo. Ma che cos’è esattamente che spero abbia luogo? In che cosa consiste la comprensione che cerco di favorire? In aula, non mi capita di frequente di parlare di ecosistemi, città o quartieri e neppure di sinfonie, talvolta invece parto da un quadro, ma perlopiù ho a che fare con testi e con discorsi. Alcuni sono testi tradizionalmente considerati molto difficili e quando mi appresto a commentarli, mi chiedo spesso che cos’è che spero di ottenere o che cerco di promuovere. Considerati nel modo più esteriore, quei testi sono sequenze ordinate di parole, ma mi domando se, per capire in che cosa consista capirli, non sia importante provare a riflettere anche su quel che accade o non accade quando ci sembra di capire un quadro o un luogo. O una persona.

2. Quando ragiono su queste cose, che sono per me molto importanti perché ne va del senso di ciò che faccio come insegnante e del desiderio che mi muove, finiscono sempre per venirmi in mente due citazioni. Una è di Freud e anche se non la commenterò, ci tengo a riportarla. È tratta da Analisi terminabile e interminabile, del 1937, uno dei testi in cui Freud mette a tema la relazione clinica. Scrive: “Il paziente ascolta il messaggio, ma esso rimane in lui senza eco”. E poco dopo aggiunge: “Secondo me si possono fare analoghe esperienze quando si danno spiegazioni sessuali ai bambini”. Per quanto Freud non ritenesse dannose o superflue tali spiegazioni, invitava a non sopravvalutarne gli effetti: “I bambini conoscono ora qualche cosa che prima non conoscevano, ma non sanno che farsene di queste nuove nozioni che sono state loro elargite”. I miei studenti non sono bambini, ma per non essere in malafede quando mi dico che sta a loro fare sì che quel che apprendono non resti lettera morta, devo almeno avere un’idea solida di che cosa possa essere quella comprensione che trapassa nel sapersene fare qualcosa del sapere filosofico. E non mi basta averne un’idea solida generale, deve essere valida e pregnante qui e ora, in un luogo e un tempo in cui è forte il disorientamento su che cosa il sapere sia in generale, al di là della sua utilità tecnica o del suo impiego nel marketing.

La seconda citazione è una delle più celebri proposizioni del Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein, ma poiché di primo acchito sembra non aver nulla a che spartire con il problema posto da Freud, costruirò il passaggio ricordando prima un’altra affermazione di Wittgenstein, del 1940, che mi ha sempre colpito molto. Dice così: “Per essere un buon maestro non basta ottenere dei buoni risultati, o addirittura sorprendenti, durante l’insegnamento. Perché è possibile che un maestro elevi i suoi scolari, quando si trovano sotto il suo influsso diretto, a un’altezza per loro innaturale, senza però portare il loro sviluppo fino a quell’altezza; così che quelli precipitano appena il maestro lascia l’aula. Questo vale forse per me; ci ho pensato”.  Non vorrei dover precisare che non immagino certo di portare gli studenti e le studentesse che seguono i miei corsi alle altezze cui Wittgenstein portava i suoi. La cosa importante è quest’altra: talvolta a lezione ti accorgi che si è prodotto un effetto: negli occhi o nell’espressione di qualcuna, nel cambio di postura di qualcun altro, hai la forte impressione che traluca qualcosa per cui viene da usare la parola comprensione. È stata colta la necessità di un passaggio speculativo, è stata apprezzata la novità di un gesto teorico, è stata riconosciuta la problematicità di un esempio o di un’analogia: in un modo o nell’altro, un’autentica esperienza di pensiero ha avuto luogo. In quei momenti, mi chiedo come si potrebbe fare sì che la temporalità di tale esperienza non sia solo quella di un momento di grazia. Non do affatto per scontato che l’ideale sarebbe capitalizzarla o farne un possesso stabile, vorrei però che avesse degli effetti in chi la vive e in tali effetti trovasse il modo di durare.

In questo possibile prolungamento, le parole hanno un ruolo importante, anche se non esclusivo. La singolarità di quell’esperienza, bisogna che ciascuno e ciascuna trovi le parole per dirla. E non è un equilibrio facile, perché queste parole devono essere insieme le proprie, ma anche quelle giuste per salvare la differenza del contenuto esperito. Quando ero studente, forse anche sotto l’influenza di un noto racconto di Borges sul Don Chisciotte, mi ero convinto che l’ideale di comprensione di un passaggio fosse arrivare a sentire come proprie esattamente le parole usate dal filosofo per esporlo. Procedere di parafrasi in parafrasi, fino a tornare alla formulazione originale colta finalmente come quella necessaria e spontanea. Ma c’è qualcosa di sbagliato in questo sogno: trascura la differenza tra la circostanza della propria comprensione e la circostanza della formulazione da parte del filosofo o della filosofa. In ultima analisi, è un sogno di evasione. Ma se la comprensione della filosofia ti obbliga senz’altro ad oltrepassare quel che racconti a proposito di te stesso, non può terminare col tuo identificarti con il filosofo. Devi capirlo, non (sognare di) trasferirti nei suoi panni. E con questo, torniamo al Tractatus.

3. Il Tractatus è un’opera di estrema difficoltà, lo sa bene chiunque sia arrivato alla seconda pagina. Eppure, non sempre si riesce ad ammetterlo. Forse la causa è nella messa in scena: la numerazione delle proposizioni, la stringatezza che ne caratterizza molte, il rigore con cui sembra che Wittgenstein si sia attenuto ai significati via via introdotti, tutto questo produce la forte impressione di trovarsi all’interno di un gioco di simmetrie e proporzioni in cui il pensiero trova finalmente un’espressione chiara ed univoca, per cui, se ancora qualcosa ti lascia perplesso, non può che essere per i tuoi limiti. A corroborare questa impressione sembra poi esserci quel che, nella prefazione, Wittgenstein stesso dice per riassumere “tutto il senso del libro”, cioè che “ciò che può essere detto, può essere detto chiaramente; e su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”. In realtà, proprio questa affermazione ci segnala quanto le cose siano più complicate, infatti, se assumessimo il modo in cui, nel Tractatus, è circoscritto l’ambito di ciò di cui si può parlare, risulterebbe che il Tractatus stesso non doveva essere scritto o, meglio, che le frasi di cui è fatto non rientrano in quel che può essere detto. Credo si cominci a intravedere perché quest’opera sia così interessante per chi si chiede che cosa voglia dire comprendere e far comprendere.

Nessuno è mai stato tanto severo con il Tractatus quanto lo stesso Wittgenstein dopo il suo ritorno alla filosofia, meno di una decina di anni dopo la pubblicazione di quel libro. Tra le accuse rivolte al sé di allora, c’è l’essersi fatto incantare da alcune distinzioni e aver cercato di farsele bastare per render conto di che cos’è il linguaggio e degli usi che ne facciamo. In un certo senso, è ovvio che questa obiezione vada a segno. Anzi, è talmente ovvio, che forse questa obiezione non costituisce un buon modo per entrare nel Tractatus. Se ci si limita a rilevare che con il linguaggio non facciamo solo asserzioni su fatti contingenti, si prende troppo poco sul serio quello che Wittgenstein si è drammaticamente sforzato di fare in quel libro parzialmente scritto in trincea. Vorrei dire che il senso e il valore delle distinzioni tracciate nel Tractatus non sta nella loro completezza o, meno ancora, nell’accuratezza della classificazione che dovrebbero consentire, ma nel gesto di tracciarle e in ciò che fa vedere. Provo a spiegarmi.

Come è noto, l’austera concezione del linguaggio che Wittgenstein espone in questo libro ammette due soli tipi di proposizione: le proposizioni munite di senso (come: “piove”), che sono raffigurazioni di fatti del mondo e che perciò possono essere vere o false a seconda che il fatto raffigurato accada o non accada, e poi le proposizioni della logica, la cui struttura sintattica rende alcune di esse, le tautologie, sempre vere, mentre le altre, le contraddizioni, sempre false. Le tautologie (come: “piove o non piove”) e le contraddizioni (come: “piove e non piove”) non raffigurano alcun fatto e dunque non dirigono l’attenzione verso il mondo: per questo, Wittgenstein le determina come prive di senso. Queste proposizioni “non dicono nulla”, ma mostrano le proprietà formali del linguaggio. Se comprendere una proposizione munita di senso equivale a sapere quale fatto la renderebbe vera, comprendere una proposizione priva di senso sembra piuttosto significare che si sono afferrate o colte le proprietà logiche della sua struttura sintattica e dunque del linguaggio in generale. Wittgenstein, comunque, ammette che non usiamo il linguaggio solo per formulare proposizioni dell’uno o dell’altro tipo: vi sono, aggiunge, anche proferimenti insensati. Tra questi ultimi, sono di particolare interesse quelli che sono insensati non perché violino banalmente le regole della grammatica superficiale (come: “il tu piove”): ne sono esempi le “proposizioni” della metafisica, dell’etica, dell’estetica, ma anche quelle che pretendono di parlare della logica, cioè di fare delle proprietà logiche del linguaggio il loro contenuto – e tra queste ultime “proposizioni” ci sono ovviamente anche quelle che compongono lo stesso Tractatus. Tutte queste “proposizioni” non costituiscono veramente una terza classe di proposizioni (per questo ho virgolettato l’uso del sostantivo): delle proposizioni vere e proprie hanno solo la parvenza. Questa parvenza viene riconosciuta come tale e dissolta dall’attività filosofica di critica del linguaggio, un’attività che ha dunque un effetto pratico di liberazione. Ad esempio, mostrando che l’etica non ruota intorno alla presunta attestazione di qualche verità (giacché le uniche verità sono quelle relative agli accadimenti contingenti), l’attività filosofica consente al soggetto di capire che “ciò che è più alto” non è un fatto, né dipende da come è fatto il mondo e dunque che l’atteggiamento appropriato verso ciò che è più alto non è un attestare o addirittura un asserire, ma ha piuttosto a che vedere con l’atteggiamento generale che si assume nei confronti degli accadimenti del mondo.

Ora, a proposito di queste proposizioni apparenti, smascherate come tali da un’attività filosofica come quella dello stesso Wittgenstein, dobbiamo osservare che non possono venire autenticamente comprese. La loro ricezione potrà corrispondere a tante cose, ma di certo non a una loro comprensione, almeno stando ai due significati di questa parola che il Tractatus ha posto come legittimi (quello esemplificato dalla comprensione di “piove” e quello esemplificato dalla comprensione di “piove o non piove”). Ma se anche quelle che compongono il Tractatus e che sono numerate in esso, non sono autentiche proposizioni e dunque non possono essere veramente comprese, allora, la domanda: “che cosa significa capire il Tractatus?” ci si impone carica di una speciale drammaticità.

La risposta a questa domanda si trova nella seconda citazione che, insieme a quella di Freud, mi viene sempre in mente avvolta dall’impressione che contenga anche un pezzo importante della soluzione al mio problema. Si tratta dell’inizio della penultima proposizione del Tractatus, la 6.54: “Le mie proposizioni delucidano così: colui che mi comprende le riconosce infine insensate”. Poco dopo Wittgenstein aggiunge: “Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v’è salito”. La chiave, a mio parere, è in questa locuzione: “chi mi comprende”. Se accettiamo che quel pronome personale si riferisce a chi ha scritto e ordinato quelle “proposizioni”, allora l’idea sembra poter essere riformulata così: non si possono comprendere tali proposizioni, ma si può comprendere il senso del gesto in cui consiste la loro elaborazione ed enunciazione. Si tratta di un’idea che, anche sganciata dal Tractatus, getta luce su quella singolare attività che è la lettura pensante di un libro pensoso. Un libro siffatto, che ti invita e ti obbliga a pensare con lui, è un libro che ad un certo punto ti costringe a chiederti se, mentre comprendi le sue singole proposizioni e i complessi in cui sono organizzate, stai anche comprendendo il gesto o il movimento che ne orienta la composizione. Per Wittgenstein, questa eventualità, che ho proposto di intendere come un cogliere il senso dell’atto di enunciazione in quanto atto il cui senso appunto non trapassa per intero nel significato dell’enunciato, si connette alla condivisione di una visione. È innanzitutto la visione che ha orientato l’enunciazione e la composizione, anche se lui vi si riferisce come al “vedere rettamente il mondo”.

4. La figura di colui che comprende il gesto che anima il Tractatus compare anche all’inizio della prefazione: “Questo libro, forse, lo comprenderà solo chi a sua volta abbia già pensato i pensieri che vi sono espressi – o almeno pensieri simili. – Esso non è, dunque, un manuale”. Nel mio lavoro, io assumo l’ipotesi che questa osservazione non valga solo per il Tractatus, ma anche per molti altri libri di filosofia, che condividono con quello il non essere manuali. Ma quell’osservazione, per me, non serve a isolare fin dall’inizio coloro che farebbero meglio a non dedicare tempo alla lettura perché, non avendo pensato pensieri simili, non ne ricaverebbero nulla. Non può essere questo il senso perché nessuno sa, prima di leggere, se ha pensato pensieri simili. Il senso di quella frase ha piuttosto a che vedere con il tentativo, che ogni lettore ha da fare, di riportare i pensieri di cui legge la formulazione nel libro di filosofia ai pensieri che pensa in proprio, per mettere alla prova tanto gli uni, quanto gli altri, sfregandoli insieme. In modo che non restino lettera morta, anche se magari immagazzinata per bene come accade quando si studia diligentemente un manuale.

E quando si insegna? Che cosa può significare favorire il fatto che gli studenti e le studentesse divengano lettori di questo tipo, cioè lettori che cercano il gesto che dà necessità a quei pensieri per poi far agire questi sui propri e viceversa? Io provo a moltiplicare le formulazioni di una tesi, di un problema o di un’argomentazione perché si colga il pensiero al di là della lettera (al di là della scala) e perché sia più probabile che ciascuno e ciascuna possa trovare quell’ingresso nel testo, che più gli o le risponde in quanto richiama alla sua memoria i pensieri più simili che ha già cominciato a pensare. È questo un pezzo della mia soluzione. Ce ne sono anche altri e su uno di questi è ancora Wittgenstein a portare l’attenzione. Subito dopo aver detto che il Tractatus non è un manuale, aggiunge che “conseguirebbe il suo fine se donasse piacere ad uno che lo legga comprendendolo”. Nella comprensione, insomma, c’è anche del piacere. E quindi pure l’insegnare, quale tentativo di far comprendere, va anche inteso come l’apparecchiare uno spazio in cui del piacere possa aver luogo. Mi chiedo se questo piacere non possa essere un filo da seguire per riorientarsi nel campo del sapere.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: