WITTGENSTEIN SU YOUTUBE: FILOSOFIA DEI NUOVI MEDIA (BOZZA DI SCENEGGIATURA – VERSIONE 1)

203136342-07fd8b60-73d8-4c89-903f-83dc0a0dd16cGIACOMO PEZZANO

0. Trailer. Ti faccio una domanda diretta, a bruciapelo: ma tu, te lo immagineresti Wittgenstein oggi su YouTube? Intendo proprio a farci filosofia: ce lo vedresti intento a produrre qualcosa come un Tractatus youtubico-philosophicus, per il quale chiede di “spolliciare” mettendo like, iscrivendosi o abbonandosi al canale e attivando la campanella? Io no, onestamente. Sai perché? Come tutti i filosofi, Wittgenstein ha condiviso e alimentato un radicato pregiudizio mediale, che determina una vera e propria discriminazione espressiva!

1. Titoli di testa. Ci sono frasi che passano alla storia, frasi che fanno la storia – che ovvietà! Indubbiamente, il Tractatus di Wittgenstein offre diversi esempi di questa evidenza banale, anche per via di un impianto e uno stile che paiono costruiti apposta per favorire una delle pratiche preferite dai professionisti della filosofia: la citazione. Ne scelgo una, che sembra una frasetta innocente, da niente, ma in realtà nasconde nientemeno che il bias dei filosofi: «il pensiero è la proposizione munita di senso» (prop. 4). Infatti, se prestiamo attenzione a una simile convinzione, la banalità iniziale diventa un problema, lo scontato punto esclamativo si trasforma in dubbioso punto interrogativo, perché ci accorgiamo di un aspetto più profondo: la filosofia passa alla storia tramite frasi; la storia della filosofia è fatta di frasi.

2. Scena iniziale. Già, quella frasetta di Wittgenstein mette nero su bianco (aspetto da non sottovalutare, capirai perché) la cosa più ovvia per i filosofi: pensare filosoficamente significa avere in mente proposizioni – parole scritte. «I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo» (prop. 5.6): è un perfetto esempio di deformazione professionale, analoga a quella dell’ingegnere strutturale che entra in un museo e non vede altro che materiali, tubature, controsoffitti, crepe, ecc. È cioè il mondo filosofico a essere delimitato dal linguaggio e – più precisamente – da quello verbale scritto: se in filosofia dici “linguaggio”, stai dicendo “frasi”, parole scritte. La mente filosofica è una macchina spara sentenze, in fondo: per questo ci si può far prendere la mano e dire che il pensiero in quanto tale si esprime preferibilmente o esclusivamente in forma proposizionale, o persino che limiti linguistici e reali coincidono, ossia che il linguaggio genera addirittura il mondo stesso (segno che si è davvero esagerato con l’uso di sostanze filosofiche stupefacenti, sballandosi di parole scritte). È dunque il filosofo a dire «i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo».

Non che sia una novità: già Platone sanciva la natura discorsiva del pensiero, descrivendo il logos come dia-logo della mente con se stessa, perché parlare da soli fa talora sembrare fuori di testa, ma per i filosofi equivale a esporre un cartello indicante “Lavori di riflessione in corso”.  Ciò per i filosofi è tanto scontato che, per esempio, l’immagine più ricorrente da secoli e millenni (da Platone a Dennett) per provare a descrivere la natura e il funzionamento della mente è quella della “tavoletta scrittoria”: la mente è come un foglio capace di rielaborare e trasmettere le stesse parole scritte che registra e di produrne di proprie. Insomma, l’autocoscienza è una sorta di libro animato. E ciò vale a maggior ragione per il pensiero filosofico: concepire significa leggere-scrivere; avere in mente concetti significa leggere-scrivere interiormente – o, più precisamente, interiorizzare l’atto esteriore della lettura-scrittura, che a propria volta esternalizza quello interno e così via, in un circolo virtuoso. O vizioso?

3. Drammatizzazione. Davvero si può e deve dare tanta importanza alla scrittura? Sembra chiederselo lo stesso Wittgenstein, in appunti presi tra il 26 e il 29 settembre del 1914: «su che cosa si fonda la nostra fiducia – sicuramente ben fondata – che potremo esprimere qualsiasi senso nella nostra scrittura a due dimensioni?». Ma il suo è appunto un dubbio fittizio: per lui la scrittura è capace di raffigurare gli stati di cose fornendone un «ritratto logico», nel senso che «nella proposizione un mondo è composto sperimentalmente», un po’ «come quando al tribunale di Parigi un incidente d’automobile è rappresentato con pupazzi etc.». Ora, insiste Wittgenstein, «noi non abbiamo, è vero, la certezza di poter mettere sulla carta tutti gli stati di cose in immagini»; eppure, «certo abbiamo la certezza di poter raffigurare in una scrittura a due dimensioni tutte le proprietà logiche degli stati di cose».

Insomma, Wittgenstein dice che la fiducia nella scrittura è decisamente ben riposta perché in mancanza di strumenti per registrare su carta tutto quel che succede, l’alfabeto offre un dispositivo rapido ed efficiente per registrarne almeno lo scheletro logico: magari non è il massimo, ma è già qualcosa. Anche perché non possiamo pensare di passare il tempo a costruire rappresentazioni degli stati di cose fatte di pupazzi e annessi, o a scolpirli, dipingerli, e così via: il modo più funzionale per comporre sperimentalmente un mondo sono le frasi. Niente è in grado di simulare la realtà meglio delle proposizioni: perciò pensare significa avere in mente frasi.

Ma…plot twist in arrivo! Il Tractatus del 2022 dovrebbe riprendere dal finale tranciante di quello del 1921: «su ciò, di cui non si può parlare, si deve audiovisualizzare», ossia ciò che non si può registrare-esprimere scrivendo, si può registrare-esprimere audiovisualizzando.

4. Colpo di scena. Infatti, oggi abbiamo ben altri modi per rappresentare gli stati di cose, dunque anche per pensarli: a 101 anni dal Tractatus e 108 da quelle note preparatorie, ne è passata di acqua sotto i ponti. Anzi, ne sono passate di immagini sugli schermi: nel 1928, P. Valéry immaginava un futuro in cui avremmo conquistato l’ubiquità perché immagini visive o uditive di vario tipo sarebbero arrivate nelle case con la stessa fluidità e comodità di acqua, gas ed elettricità. Era stato addirittura troppo poco immaginifico: le immagini oggi arrivano e circolano nelle nostre mani e ovunque, non certo soltanto in casa. Ai tempi di Wittgenstein, era ancora ragionevole riscontrare una netta differenza antropologica tra parole e immagini: il nostro corpo può emettere le prime, non le seconde. Certo, oggi la facilità di produrre, modificare e diffondere immagini è pari a quella con cui eravamo ormai abituati a produrre, modificare e diffondere parole scritte, ma non possiamo cambiare colore a piacimento stile camaleonti; al contempo, non ci sembra troppo assurdo pensare che presto troveremo a buon mercato un dispositivo neurale o simile grazie a cui le immagini intra-mentali potranno tradursi direttamente in immagini extra-mentali, proiettate magari anche sul nostro stesso corpo.

Come che sarà, noi non dobbiamo preoccuparci se siamo effettivamente in grado di mettere su carta tutti gli stati di cose in immagini: ormai possiamo già mettere su schermo immagini multimediali e multisensoriali. È un cambiamento tanto semplice quanto epocale, che i filosofi tuttora non hanno cominciato a digerire e forse nemmeno a ingerire: ancora un trentennio fa, le lettere dell’alfabeto erano il codice più a portata di mano, sia per disponibilità sia per utilizzabilità, per registrare, conservare, rielaborare, produrre e trasmettere le informazioni; ma poi, sono via via emersi codici e supporti che hanno saputo o sanno farlo meglio, come dischetti, CD, film, videocassette, videogiochi, …Un tempo (ah, i bei tempi che furono!), per registrare, elaborare, comunicare, ecc. un evento (intra-mentale o extra-mentale) occorreva affidarsi a carta, penna e lettere, oppure – servivano già abilità più marcate – a disegni; con i (brutti!) tempi che corrono, quel gesto è stato sostituito da rapidi movimenti delle dita su schermo, che permettono di scegliere se fare una foto, un video, un reel, un TikTok, un vocale, un’audio-nota, una nota testuale (anche quella, certo!), ecc.

Credere che tutto ciò non cambierà il modo in cui si produce e diffonde la conoscenza anche più sofisticata, compresa quella filosofica, o dare per scontato che non ci saranno mutamenti, dunque nemmeno porsi il problema, è – mi scuso per la mancanza di giri di parole – quantomeno sciocco. D’altronde, chi già ai primi vagiti di questo cambiamento ne aveva colto esito e portata aveva cominciato a ipotizzarlo: le immagini avrebbero presto potuto assumere quel ruolo meditativo precedentemente riservato alle parole, dando così vita a un “dialogo” per immagini persino più ricco di quello tipico delle linee scritte. Ossia: come il RussellAlfabetico scriveva un’introduzione al Tractatus logico-philosophicus del WittgensteinAlfabetico, così un (ancora ipotetico) RusselPost-alfabetico girerà e montera un videocommento al Tractatus youtubico-philosophicus del WittgensteinPost-alfabetico.

5. Plot point. La domanda sorge spontanea: perché mai i filosofi hanno tutti questi problemi di ingestione e digestione? La risposta è duplice (almeno).

Per cominciare, c’è il bias mentale. I filosofi manifestano da che mondo scritto è mondo scritto un pregiudizio profondo verso le immagini (intese in senso ampio) non solo come veicolo generalmente espressivo, ma anche come strumento specificamente razionale e argomentativo: la conoscenza sarebbe fondata solo all’infuori del campo “visivo”, perché le immagini sono ambigue, emotive, distraenti, ecc. (illogiche e irrazionali). Per i filosofi, dove c’è concetto non c’è immagine, anzi il primo è tale proprio perché capace di astrarre, generalizzare, chiarire, spiegare e così via, allontanando dalla concretezza, particolarità, oscurità e seduttività tipiche della seconda: questa può al limite –proprio con generosità – essere utile per rappresentare qualcosa di già dato, agendo come “immagine-di”, non certo per produrre conoscenza genuina, agendo come “immagine-per”.

Ciò è vero al punto che – facci caso – in filosofia la dimensione intimamente grafica della scrittura sembra dannosa, come nel divieto di variare carattere, formato e dimensioni della font, o comunque irrilevante, come se leggere una serie di caratteri continui scritti su un rotolo di carta esteso orizzontalmente, senza divisione e organizzazione in parole, linee, capoversi, paragrafi, capitoli e parti fosse equivalente a leggere un testo che presenta una struttura che è visuale sia per l’occhio della testa sia per l’occhio della mente. Che lo spazio mentale delle idee si distribuisca nello spazio fisico delle pagine e viceversa è talmente assodato da non meritare nessuna attenzione: non è questa la matrice dei bias più radicati?

Proseguendo, c’è l’incompetenza tecnica, che va ben oltre l’incapacità di usare certi media. Infatti, la difficoltà pratica che possono avere i filosofi odierni alle prese con le nuove tecnologie digitali dipende da ciò: la mente filosofica vive sin dalla propria nascita un rapporto monogamo stretto, morboso e totalizzante con il medium alfabetico. È esattamente perciò che essa ha potuto portare agli estremi il divorzio e la sfida per la supremazia tra iconico (lo sconfitto) e discorsivo (il vincitore) che appunto la tecnologia alfabetica aveva inaugurato e il suo boost tecnologico (la stampa a caratteri mobili) ha poi radicalizzato. Eh sì, perché – nonostante i timori del primo boomer della storia del pensiero (aka Socrate) – assecondando la “cerebrotecnica” alfabetica, abbiamo via via imparato a – limitandosi alla cognizione: mettere in sequenza, allineare e organizzare idee-parole e pensieri-frasi; astrarre; classificare; formalizzare; sistematizzare; enumerare; mettere a fuoco e inquadrare mentalmente; isolare significati; definire; analizzare e sintetizzare; interpretare la mente altrui; criticare; meditare; riflettere; …

In breve, tramite la scrittura alfabetica abbiamo imparato a ragionare, dunque a filosofare: quel medium che all’epoca si pensava avrebbe raso al suolo la mente ha finito per liberarla e aprirla a nuovi usi, così che oggi l’atto stesso del pensare logicamente, criticamente, riflessivamente e autonomamente consiste nel saper leggere, analizzare, comprendere e interpretare testi e sottotesti – ovvero nell’avere in mente quel medium e nell’avere una mente capace di pensare tramite quel medium, quindi, in ultima istanza, nell’avere una mente foggiata da quel medium.

7. Finale tragicomico? Tutto ciò, però, ha appunto portato i filosofi a ritenere – in senso pratico ed etologico, prima ancora che teorico – che la mente filosofica possa esteriorizzarsi esclusivamente scrivendo: diventa così letteralmente impensabile che si possa fare filosofia con mezzi diversi. Se vuoi entrare nel circolo dei pensatori filosofici di professione, devi leggere-scrivere ebbasta. Non giriamoci troppo intorno: Wittgenstein non azzarderebbe mai – come tutti i colleghi – che il pensiero filosofico è qualcosa come – poniamo – «il disegno munito di senso», «la scena filmica munita di senso», «la vignetta fumettistica munita di senso», «la sfida videoludica munito di senso», ecc. Siamo dunque arrivati al più tremendo dei vicoli ciechi? La filosofia rimarrà ancorata al suo medium privilegiato dando vita a una sorta di comunità Amish intellettuale? O saprà aprirsi a una sorta di poliamore mediale? In quel caso, sarà ancora “filosofia”, o servirà chiamarla in altro modo?

8. Titoli di coda. Sì: ci sarebbero e ci sono molte cose da discutere in questa bozza di sceneggiatura, a partire dal fatto che non sono proprio tutti d’accordo che la filosofia esista innanzitutto o soltanto nei testi scritti – e provano a manifestarlo a parole e con i fatti. Lasciami allora mettere le mani avanti: quanto hai appena letto è un succinto estratto da una serie-tv in più stagioni dedicata al tentativo di aprire le porte a una filosofia dei media (sì, con la barra!), cioè non più soltanto “di” o “su” i nuovi media, ma finalmente mediante e secondo essi. Ecco il piano generale, a oggi:

Tabella_progetto

Al momento, ci sono materiali parziali o parzialissimi dei livelli 0, 1, 3, 4 e 5: per saperne di più, non esitare a contattarmi!)

Se ci fosse la classica freccia che indica “tu sei qui”, ti direbbe che hai appena letto assaggi di alcuni elementi dei livelli 0 e 1, che solcano un terreno ancora di tipo discorsivo. Questo giustifica anche la contraddizione performativa di prendere a male parole scritte la scrittura: il “divorzio” tra alfabeto e mente filosofica, o perlomeno l’apertura del loro rapporto, non può che passare anche attraverso la scrittura. Perché solo una volta che saremo arrivati al punto di non avere altro da dire potremmo accorgerci che ciò significa che abbiamo ancora tanto, tantissimo altro dal dire. Sì, anche in filosofia.

In attesa del Tractatus del 2022 (o di chissà quando), si può riservare l’ultimo tra i final credits alla penultima proposizione del Tractatus del 1921: «le mie proposizioni illuminano così: colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è asceso per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo essere asceso su essa.)» (prop. 6.54).

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