CONDIRSI O DELLA CONVIVIALITÀ A TAVOLA

cropped-condirsi-logo@1800xRENATO TOMBA

Chiedere che cos’è condirsi costringe a definire ciò che è un flusso di esperienza, una storia di incontri tra ospiti intorno a una tavola, incontri aperti alla casualità delle coincidenze più o meno attese, più o meno imprevi­ste. Il suo esordio, appunto, è dipeso da un incontro atteso e una richiesta imprevista: “Se non siete voi ad aiutarci a capire in che mondo viviamo, e come essere felici, chi altro?», una richiesta rivolta a vecchi in­segnanti in pensione e, a farla, erano giovani studenti. Era il maggio del 2013.

Ma, in un’epoca di incertezza come la nostra, sapere già dove si è non era cosa così ovvia. E ancora non lo è. Neppure lo è la faccenda della felicità. Così, per assolvere a questa duplice esigenza, si è deciso di ricorrere di volta in volta a un “esperto” di un qualche sapere – dal filosofo al cuoco – cui chiedere di parlarci di ciò che gli sta davvero a cuore, un tema di ricerca. E, da quasi dieci anni, altri 10 o 11 ospiti, quasi mai gli stessi, si ritrovano intorno a una tavola per l’ora di cena, a Torino in uno spazio domestico che si espande poi, con una video-sintesi a documentazione della cena (e sono già 84), in Rete sui socialnet­work.

A non esitare, condirsi è la convivialità a tavola. La scelta del nome nasce dall’intreccio di due ipotesi sull’origine etimologica di ‘condire’. Nella prima, di Giovanni Semerano, la parola latina condire significa ‘curare, trattare con cura per conservare’, dove la prep. cum, ricondotta a un’origine accadica, assume il valore di ‘avere cura, trattare con cura’, una volta incrociatasi «con la base di accad. nadû (nel senso di ‘mettere in contenitore, mettere in acqua, pre­parare, confezionare una bevanda, un pasto’)»; nella se­conda, di Ot­to­rino Pianigiani, significa ‘porre dentro, far saporito, dar gusto’, “che sembra forma secon­daria di còn­dere, ‘mettere insieme, comporre’, comp. della partic. con indicante mezzo, istrumento” e la ra­dice in­doeuropea dha ‘porre, fare’, che rinvia a tema, tesi. Così da un garbuglio etimologico è venuto fuori un progetto conviviale, e l’aggiunta della particella “si”, nella sua funzione di riflessivo reci­proco, sta a indi­care che quel “fare” è un’azione condivisa e reciproca, un pro­getto di cura su come stare insieme qui e ora nel mondo. In realtà, ed è più verosimile, la cosa è andata al contrario.

In ogni caso, è un progetto conviviale per un tipo particolare di fame: un ri­trovarsi insieme a cena tra ospiti – il più delle volte estranei tra loro, di forma­zione ed esperienza professionale diversa, e soprattutto di generazioni diverse – per soddisfare quell’esigenza, quel bisogno di comprensione che deriva da una curiosa interrogante disposizione esistenziale.

Perché parlare di temi smisurati a tavola nell’ora della cena? A tavola, mangiare – e bere – è di per sé una pratica estetica, un ‘sentire’ di tutti i sensi, è una pratica sensoriale totale. In bocca, in questa soglia tra il ‘dentro’ e il ‘fuori’, accade la sensualità quotidiana del nostro vivere, dalla corposa materialità del cibo all’effluvio aereo della parola, dove è una «degustazione» del mondo più che una «visione» a mettere in gioco il nostro piacere di vivere. Il piacere di mangiare è quindi un’arte pertinente alla vita non solo perché si avvale dell’apporto di tutti i sensi, ma perché si nutre di senso: l’edu­cazione del gusto, il saper discernere e apprezzare il cibo, rimanda a un senso, a una forma di cono­scenza del vivere, che è sempre impre­gnata dell’affettività di tutti i legami della nostra vita. È questo piacere sen­suale e sociale insieme a conferire alla tavola la dimensione della con­vivialità in senso proprio. Ed è così che, nel piacere condiviso del cibo, a tavola prende vita la parola e, al tempo stesso, la parola – nel dirsi insieme e l’un l’altro – nutre il bisogno di condividere il senso del nostro stare al mondo.

Questa doppia valenza dell’esperienza conviviale si espande al ritmo di una dinamica regolatrice di base: nel mangiare insieme a tavola si fa esperienza di un comune processo metabolico – di cambiamento, tra­sfe­ri­mento – un processo vincolante per la sopravvivenza dell’«essere animale» che noi siamo. Un pro­cesso, come dice Gregory Bateson, che al suo interno presenta un effetto paradossale: il manteni­mento vi­tale di una creatura vivente, un parametro ‘conserva­tivo’, richiede sempre, quasi per opposizione, una di­namica di mutamento, un processo di trasformazione. Ma ciò che vale per il cibo vale anche per la parola, nell’atto di condividere a tavola e l’uno e l’altra.

Ogni ricetta, presente in tavola, richiede la compatibilità, per non essere indigesta, con la fisiologia del nostro corpo; nella varietà degli ingredienti e del loro sapore si manifesta invece la storia attraverso cui ha preso forma la fisiologia del gusto di ognuno, e da cui in definitiva dipende il piacere della tavola. Il piacere della tavola – che per Anthelme Brillat-Savarin, fondatore della gastronomia moderna, “è di tutte le età, di tutte le condizioni, di tutti i paesi e di tutti i giorni, può associarsi a tutti gli altri piaceri e rimane, per ultimo, a consolarci della loro perdita” – fa della tavola il luogo elettivo di accoglienza dell’al­tro, di un’offerta di piacere, un occuparsi della sua felicità. E poi la ricetta offerta è una proposta di con­fronto, di apertura a un’esperienza di contatto, che è propria della vita in co­mune che, dal latino munis, -e, è l’‘obbligo’, come dice Marcel Mauss, di contribuire alla reciprocità e, nella forma del dono, a una reciproca intensità. Il dono del cibo – il cui archetipo è il dono materno del nutrimento – si trasforma, in ogni società, in una pratica rituale di accoglienza, in un’arte della cura, del prendersi cura, un’arte della con­vi­venza.

A condirsi, per ritrovarci a tavola, è richiesta l’osservanza da parte di ognuno di una semplice regola: portare da mangiare e da bere, un mettere in comune, in relazione risorse, che anche solo per una sera equivale a un fare insieme. Un fare che a sua volta realizza un legame di reci­procità, una cooperazione sociale diretta, e orienta la misura comune di cosa c’è da fare, con sobrietà per il cibo e per le bevande – ci incontriamo infatti per il piacere di pensare a voce alta insieme. Nel mangiare, poi, meglio non appe­san­tire troppo la digestione, nel bere invece, se alcolico, è lecito sul finire della cena anche esage­rare, così da trasfor­mare il convivio in un vero e proprio simposio di antica memoria filosofica, per cui un po’ di ebbrezza alcolica può favorire un’atmosfera di vicinanza, e anche di im­prov­vi­sazione creativa.

Insomma, l’offerta reciproca del cibo è la nostra costitutiva apertura alla socialità, e ci consegna all’in­contro, a un senso di intimità, ci espone alla contaminazione dell’alterità e della pluralità, alla dipendenza e alla cura. Non a caso la domanda di apertura della prima cena di con­dirsi è stata: – in un mondo, in violenta trasformazione, modellato da tecnologie globali, e in particolare della comuni­cazione, siamo ca­paci di inventare nuovi legami sociali? Legami improntati a una mag­giore ‘intelligenza’ del mondo in cui viviamo per poterci stare meglio.

A tavola, però, emerge sempre una domanda che attiene piuttosto a un ‘senso co­mu­ne’ di incertezza sulla nostra effettiva comprensione del mondo. Ecco perché la conversazione, che è il modello comu­nicativo di elezione della convivialità, risulta essere il dispositivo di messa in comune, a volte anche infuo­cata, più adatto ad un processo aperto alla ricerca di strumenti del comprendere, e a un apprendimento condiviso.

A tavola, uno spazio circoscritto, per ciò che vi è in gioco – ne va dello stare bene insieme –, è quasi fi­­sio­logico cominciare a pensare in grande, a immaginare un altro mondo. Una tacita tesi sostiene infatti la pratica conviviale: la convivialità è una pratica umana riflessiva, di riflessione sull’essere umano, basata sulla condivisione. La convivialità a tavola, come ogni costruzione sociale, è una forma significativa della nostra vita. È data per scon­tata, ovvia. Per capire perché è così, occorrerebbe risalire alle premesse struttu­rali di una società, è una pratica sociale che dipende dalla complessa stratifi­cazione della tradizione cultu­rale – non solo ga­stronomica – che l’ha generata, la cui messa in atto non è indipendente dallo spazio sociale che la pratica conviviale a sua volta genera – dall’immaginario sacrale del banchetto degli dei alla ristora­zione commer­ciale del fast food. Il convivio è parte del nostro immaginario culturale, esprime un or­dine sociale, con i suoi processi di inclusione e di esclusione, dalla sistemazione dei posti a tavola rigidamente gerarchica fino all’espressione utopica di una disposizione paritaria – come nell’istituzione medievale della Tavola Rotonda, quell’utopia dell’imma­ginario cavalleresco dell’uguaglianza sociale, che resta appunto tale. A tavola prende forma un vero e proprio microcosmo, un ordine sociale di appartenenza, almeno, in una delle sue possibili versioni. Non a caso a tavola per prima cosa ci si chiede qual è il proprio posto: è una domanda che equivale a quel bisogno generale, da soddisfare, di prendere posizione verso sé stessi – di comprendere qual è il proprio posto nel mondo.

La tavola apparecchiata è un’immagine di apparente sta­bilità. A turbarla è il sopraggiungere dell’ospite da accogliere alla tavola. L’accoglienza genera instabilità, espone al rischio o, addirit­tura, al pericolo quando l’ospite assume la figura inquietante dell’estraneo – situazione che si dà espres­sa­mente nella figura dello straniero – potenzialmente amico o nemico. Una figura che è, per così dire, un’espressione limite: segnala l’esistenza di un perimetro, di un confine, che guarda al suo interno, a ciò che sta dentro come a un ordine stabilito – il diritto di ospitalità che fin dai tempi della Grecia antica di Omero appartiene alla tradi­zione occiden­tale – e che al tempo stesso si apre all’ester­no, a ciò che sta fuori.

Capita sempre a condirsi che l’ospite che viene da fuori o, per lo meno, dal mondo dei social, sia uno scono­sciuto, in senso proprio come di “colui che non conosco”. Cosa che in fondo vale per tutti: ognuno è straniero all’altro, e forse anche a sé stesso. L’estraneità inaugura lo spazio conviviale come forma re­ci­proca di riflessività – cosa significa essere altro per l’altro: questo margine di indeterminazione dice che c’è ancora qual­cosa da compren­dere, un «non sapere» reciproco che richiede scoperta, invenzione, che qualcosa nella relazione è da preservare. Così la doppia figura del­l’ospitalità – di accoglienza ed estraneità – obbliga a una riflessività critica, problema­tica, anche conflit­tuale, richiede di ridefinire sé stessi, e il proprio posto nel mondo. È una fi­gura che vale per un’epoca di instabilità come la nostra, in cui per effetto di quell’essere spaesato o in transizione, a volte in maniera tragicamente letterale, è difficile sapere dove già si sta.

È proprio lì, a tavola, che qualcosa invece di inatteso accade. È nel momento della percezione del limite, dello scontro e del­­l’incontro potenziale, che ci si apre all’altro, alla sua diversità; è nel contatto, nel biso­gno comune di ascolto, di reciproca accoglienza, che avviene quello che è inevitabile, la metamorfosi, la tra­sformazione meta­bolica, di cui si nutre la conoscenza: fare dell’altro il portatore di una esperienza diversa, di una conoscenza diversa, il punto di riferimento di un mondo diverso da offrire alla propria com­prensione. Così, a tavola, la pratica riflessiva umana si fa pratica sociale. Accade nell’atto dello scam­biarsi, nell’of­frire e nel ricevere, cibo e parole, nell’atto di conversare e di mangiare insieme.

Non però qualsiasi conversazione è adeguata. Solo quella che persegue l’intenzione di par­lare non per avere ragione ma per apprendere gli uni dagli altri, e riconosce che per apprendere abbiamo bisogno degli altri. Inter­ro­garsi sulla necessità di incrociare le diverse posizioni a partire dalla quale facciamo esperienza del mondo; interrogarsi sulle premesse per­cettive, sensibili e culturali, a partire dalle quali abbiamo impa­rato a dare senso, a convalidare la nostra visione del mondo; tutto ciò è un esercizio di riflessività che, come per il pro­cesso metabolico, rende possibile una dinamica di mutamento, di reciproca trasformazione.

La conversazione che interessa quindi è quella che di fatto ci consente di riflettere sulla pratica sociale dello stare insieme, e su cosa vale la pena pensare insieme: perché non è possibile avere una comprensione ‘accurata’ del mondo – fare affermazioni relative alla realtà – e immaginarne un futuro, senza farsi carico di come ci stiamo, nel mondo, senza interrogarci cioè sui modi della nostra con­vivenza.

La convivia­lità della tavola è anche questo: una pratica che dimostra non solo che parlare è fare qualcosa insieme, ma anche che, nel corso di una cena, del parlare si può insieme fare qualcosa: un far posto alla cura, un «fare della reciprocità», che renda appetibile – e a volte così si esprimono i giovani nel corso della cena – dilatare l’orizzonte dell’intelligenza delle cose del mondo, fino ad includervi il valore di un fare che si compie nella costru­zione di un legame sociale più desiderabile. Perché, come dice il biologo Humberto Maturana, «l’intelligenza è prima di tutto una questione di consensualità», una disposizione alla convi­venza, una reciproca apertura, in modo tale da consentire all’altro di entrare nel nostro sistema di vita, che in definitiva è ciò in cui consiste l’amore.

A specchio del logo di condirsi – un punto interrogativo (un coltello) che viene dopo un punto escla­mativo (una forchetta) – per mantenere aperta la ricerca, a una affermazione vorrei far seguire una domanda. È più che un sospetto che qualcosa è in ritardo nel sistema culturale, a partire dall’istituzione educativa, che c’è qualcosa di obsoleto nella vita mentale con cui si tenta di attrezzare una comprensione della realtà del mondo, per governarne l’attuale processo di interdipendenza globale – la sua trasfor­mazione in società globale? – mai così carico di discordia, di ostilità e sempre più sotto il segno del massacro, della guerra, della catastrofe. È evidente che c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel nostro modo di vivere, eppure c’è una domanda che è ineludibile: a che punto dunque siamo rispetto alla capacità di apprendere l’arte della con­vi­venza?

* http://www.condirsi.it/; https://www.youtube.com/CONDIRSI; https://www.facebook.com/condirsi.it/

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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